Werner Graul
di Harm Wulf

Disegnatore ed incisore vicino ai circoli völkisch. I suoi disegni più famosi, sulla tematica della conversione forzata al Cristianesimo delle popolazioni germaniche, saranno riprodotti come stampe o cartoline. (Da Mortimer G. Davidson “Kunst in Deutschland 1933 – 1945” Grabert Verlag, Tübingen, 1992, Bd Malarei II pag. 302). Anche nei due testi di riferimento sulla storia dell’incisione artistica in Germania nel 20° secolo le notizie sull’opera di Werner Graul sono scarne o nulle ( Mortimer G. Davidson “Kunst in Deutschland 1933 – 1945” Grabert Verlag, Tübingen1992 e Haye W. Hansen “Deutsche Holzschnitt Meister des 20° Jahrhunderts” Uwe Berg Verlag, Toppenstedt, 1979). Un difficile lavoro di ricerca ha permesso di risalire a qualche ulteriore dato biografico e bibliografico. Werner Friedrich Hermann Graul nacque a Berlino il 18 ottobre 1905 figlio di Georg Graul e di Pauline Schübert. Grafico, pubblicitario, scrittore e studioso di questioni religiose e politiche. Raggiunge meritata fama come autore del celebre manifesto per il capolavoro cinematografico di Fritz Lang “Metropolis” del 1926. Si sposa il 4 dicembre del 1928 con Margarete Berger (nata il 4/10/1908) da cui avrà due figli Mariane e Jürgen. Attivo nei circoli völkisch, collabora con la rivista e la casa editrice Sigrune di Erfurt. Entra nel NSDAP solo il 1 maggio del 1933 con tessera n. 2893982 ed assume l’incarico di dirigente politico. Il suo lavoro artistico e pubblicistico è connotato da una radicale avversione all’imposizione violenta del Cristianesimo alle popolazioni germaniche. Muore a Berlino nel 1984.

Libri di Werner Graul
Werner Graul “Aufruf: Deutsche, die sich in innerster Ueberzeugung zu keiner christlichen Konfession mehr bekennen, helft im artgemäßen Glauben an der Wahrung und Gestaltung neuer Weltanschauung! Berlin Charlottenburg 1934 (SBBerlin 4" Dd 11887)

Werner Graul “Golgatha des Nordens” Wölund Verlag Erfurt 1937 (ONB Wien 750724-B. NEU Mag )

Werner Graul “Zwerg Hüting zeigt Heiner den Weg” Verlag Sigrune Erfurt 1939 (ONB Wien 230137-B. NEU Mag)

Libri illustrati da Werner Graul:
Julian Stein (Hrsg) “Graul, Filmreklame, Autographia” Berlin 1931

Konradin Aller “Moses entlarvt: die Wunder Mosis als luftelektrische Vorgänge” Berlin Rotadruck 1936 (ONB Wien 230086-B. NEU Mag )

Karl J. A. Balikg “ Wer lästert Gott?” Verlag Sigrune1938 (SBBerlin Dd 12120)

Biblioteche in cui è possibile consultare libri di Werner Graul

Österreichische Nationalbibliothek, Josefsplatz 1, Postfach 308, A-1015 Wien Telefon: (+43 1) 534 10 Fax: (+43 1) 534 10 / 280 E-Mail: onb@onb.ac.at Http://ww.onb.ac.at/

Staatsbibliothek zu Berlin, Unter den Linden 8, D -10117 Berlin (Mitte) Http://www.sbb.spk-berlin.de/

Institut für Zeitgeschichte, Leonrodstrasse 46 b, D - 80636 München Telefon: (089) 126880 Fax: (089) 12688191 E-Mail: ifz@ifz-muenchen.de Http://www.ifz-muenchen.de/

Appena messo in linea sito dedicato all'artista tedesco Werner Graul.Graditi commenti sul libro degli ospiti
Sito plurilingue italiano, francese, inglese, tedesco. http://www.geocities.com/graulwerner/

 
   
 

 “Helden und Filmhelden”, Das eherne Herz1 (Monaco, Zentralverlag der NSDAP, 1943), pagine 337-343.
L’articolo fu pubblicato originariamente, il 7 giugno 1942, sul settimanale “Das Reich”.2

Eroi e film3
di Joseph Goebbels

Niente è più caratteristico della visione del mondo, della vita e della storia giudaicoplutocratiche della tendenza a trasformare tutti i valori, gradualmente quanto inevitabilmente, in senso negativo. Ne rammentiamo esempi sufficienti nel periodo repubblicano in Germania.4 Non ci pare affatto necessario aggiungere altro. L’eroe era un pazzo, il codardo un uomo d’onore. Si preferiva vivere da schiavo per tre vite che una soltanto da uomo libero. Un padre con molti figli era oggetto di beffe e il giovane omosessuale invece il modello della virilità nordica. I grandi uomini del nostro passato erano o corrotti cretini o sanguisughe senza scrupoli. Il colpevole era la vittima, non l’assassino. I grandi criminali venivano visti come meravigliosi soggetti di studio psicoanalitico. In breve, come scriveva uno dei più importanti giornalisti ebrei su un quotidiano ebraico, l’ideale eroico era il più stupido di tutti gli ideali, e i morti della Guerra mondiale erano caduti sul campo del disonore. Ripensandoci, tutto ciò appare da schizofrenici. Ma c’era di più. Coloro che usavano la propria scintillante vivacità d’ingegno per diffondere tali idee nel paese5 non ci credevano affatto. Al contrario, se ne servivano solo per indebolire il popolo che li ospitava e per prepararlo al grande sconvolgimento spirituale che noi tutti conosciamo bene come Bolscevismo. Il suo predecessore è la democrazia. Anch’essa trasforma tutti i valori in un modo tale che alla fine conduce al caos. Oggi vediamo lo stesso processo accadere col nemico. E’ chiaramente evidente che la guida intellettuale della guerra è principalmente6 giudaica. Non è necessario ascoltare Radio Londra per percepire il suo carattere semitico. Ciò aiuta a spiegare l’abitudine nemica, altrimenti inspiegabile, di trasformare disfatte e ritirate in vittorie e le battaglie di annientamento in catastrofiche sconfitte nemiche. Sono preparati alla guerra in modo inadeguato o non lo sono per niente.7 Subiscono una sconfitta dopo l’altra. Considerano la perdita di posizioni economiche e strategiche critiche un motivo d'ottimismo. Presentano la rapacità della plutocrazia come un nuovo ordine sociale. Danno alle fiamme le chiese ed uccidono centomila preti ed ancora si definiscono8 santi combattenti della fede. Mettono 180 milioni di persone in una prigione, fisica e spirituale, e li condannano al livello di vita più basso possibile. Tutto ciò lo chiamano paradiso in terra. Valutano il popolo in modo analogo. I soldati inglesi e americani possono essere sconfitti ovunque vadano, ciò nonostante sono enormemente superiori al nemico, sia per gli armamenti che per la moralità. Generali il cui unico talento è quello di fuggire il nemico, qualche volta con le proprie truppe, altre soltanto con le proprie famiglie, sono eroi militari della statura di Alessandro, Cesare, Federico il Grande o Napoleone. D’altra parte, degli autentici geni militari che rimangono con le proprie truppe anche nelle situazioni più disperate e neppure pensano ad arrendersi, ma piuttosto resistono a tutti i colpi9 del fato, difficilmente sono degni d’esser menzionati. Il cosiddetto generale MacArthur10, per esempio, viene pompato come un vero eroe. In Germania, gente come il generale Scherer11 ottiene due o tre righe nei rapporti dell’OKW.12 Quali sono le differenze fra i due? Chi è l’eroe, e chi il codardo?

L’inverno scorso, sul fronte orientale, una unità tedesca rimase isolata e non cedette per 107 giorni, senza appoggio esterno. Il nemico attaccò 128 volte. Loro risposero con 10 contrattacchi e 43 attacchi simulati. Gli ufficiali dell’unità accerchiata riferirono con affetto e ammirazione che il loro generale rimase con loro, e fu presente in ogni momento per ciascun soldato. Prestò volentieri attenzione ad ognuno dei suoi soldati, in ogni istante. Fu fonte di energia spirituale durante il periodo in cui l’unità era circondata sia per i suoi ufficiali che per gli uomini. Il gruppo, accerchiato, non ebbe approvvigionamenti per tre giorni, dopo i quali fu rifornito, con estrema difficoltà e missioni pericolose, dalla Luftwaffe, che fu un esempio di eroismo e dedizione per i propri camerati. Per gran parte del tempo, le difese furono fornite soltanto da mucchi di rami di alberi da frutta. Furono attaccati da ogni direzione.13 I nostri soldati non avevano carri, mentre i sovietici attaccarono ripetutamente con carri nuovi. Non avevano baracche14 dove riscaldarsi in quel freddo crudele. L’artiglieria nemica ridusse15 in macerie gli edifici rimasti. I soldati non poterono scavare la terra, che era ghiacciata. Non c’era neppure il filo spinato. “Non potevamo impedire al nemico di sparare sugli edifici in cui tenevamo i feriti. Dovemmo trovare qualche altro posto dove metterli. Ma molti dei feriti rimanevano ancora nelle prime linee!”. Questo è quanto disse il generale Scherer, col suo modo semplice e impassibile. Il rapporto dell’OKW del 6 maggio annunciava: “Nel settore settentrionale del Fronte dell’Est, le truppe tedesche hanno effettuato un attacco brillante ed organizzato che ha ristabilito i collegamenti con una zona importante, precedentemente accerchiata dal nemico. L’unità, al comando del generale Scherer, aveva tenuto coraggiosamente la posizione fin dal 21 gennaio 1942, nonostante numerosi attacchi di forze nemiche superiori. Il giorno in cui è stata sostituita, metà dei soldati erano feriti e l’altra metà ancora in combattimento”.


Generalmajor Theodor Scherer, eroe di Cholm

La stampa giudaico-democratica non ha fatto caso a tutto ciò. Ora consideriamo l’altra parte: L’attacco giapponese a Corregidor16 iniziò dopo l’evacuazione di Bataan17 il 10 aprile18 e terminò 26 giorni dopo con la capitolazione delle forze statunitensi il 6 maggio. Il 10 di aprile, a Bataan 60.000 uomini erano accerchiati. 3.500 fuggirono a Corregidor. Il generale MacArthur, loro comandante, aveva lasciato Bataan fin dal 10 marzo con la propria famiglia. Prima di andarsene, esortò le proprie truppe a mostrare audacia e coraggio e resistere.19 Sua moglie diede alle mogli dei soldati il valido consiglio di rimanere al fianco dei propri uomini, ma lei seguì il marito quanto questi partì. Dall’Australia, il generale MacArthur si vantò che sarebbe entrato a Tokyo da vincitore. I giapponesi a Corregidor catturarono 12.495 dei suoi uomini. I numero dei morti fu in tutto di 640. Secondo i rapporti, rimanevano rifornimenti sufficienti per continuare la battaglia per altri sei mesi. Non c’era carenza né di armi né di munizioni.


Lo Cholmshild

Corregidor è una delle fortezze naturali più valide al mondo. L’intera isola aveva forti installazioni difensive, depositi di munizioni, posti di comando, eccetera. I passaggi sotterranei che collegano le postazioni difensive sono larghi come una strada a due corsie. In tempo di pace sono stati spesi 500 milioni di dollari per fortificare20 l’isola. L’opinione pubblica statunitense parlava dell’isola come della Gibilterra americana. Gli esperti statunitensi la ritenevano inespugnabile.21 Essendo un’isola si scartò l’uso dei carri, cosicché l’attacco fu condotto dall’artiglieria e dall’aviazione. Ovviamente c’erano ospedali22 protetti dai bombardamenti, sale operatorie, eccetera. Ciò nonostante i soldati americani caddero nelle mani dei giapponesi. Perché avrebbero dovuto essere più coraggiosi del loro generale, che era al sicuro in Australia e che, assurdamente, era presentato al pubblico americano come il più grande eroe americano vivente! I fatti vennero capovolti. Una vile fuga fu trasformata, per mezzo di una campagna pubblicitaria, in un’azione gloriosa. Per noi, tutto ciò è semplicemente incomprensibile. Da noi, a dir poco, un generale come MacArthur riceverebbe un garbato rimprovero: quello d’aver scordato di scendere dal treno a Hollywood.23 Ma la stampa statunitense ha proclamato la difesa di Corregidor e Bataan come una delle azioni più coraggiose della storia americana. Il “Times” di Londra, che ha avuto considerevole esperienza nel lodare le ritirate strategiche, è giunto a dire che Corregidor può essere paragonata solo alla battaglia delle Termopili.24 Una emittente radiofonica di Boston ha definito la resistenza dell’isola-fortezza un miracolo.


Gli eroi – quelli veri - di Cholm


Ancora Cholm

Come se non fosse abbastanza, la stampa giudaico-americana ha elogiato il vile generale MacArthur come un candidato appropriato per la presidenza degli Stati Uniti. Varie città degli Stati Uniti stanno già scoprendo monumenti in suo onore. La gente porta bottoni con la sua effige ed egli ha ricevuto il più alto onore che l’Inghilterra può offrire: un posto onorevole nel famoso museo delle cere di madame Tussaud.25 La United Press riferisce che alla sua faccia saranno aggiunti un corpo e l’uniforme. Questo ci riconduce alla schizofrenia. Si potrebbe affermare che tutta questa grottesca assurdità è incomprensibile, poiché nel paese dei ciechi chi ha un occhio solo è re, e che una terra senza una cultura della storia deve avere idee diverse sull’eroismo da quelle di una Nazione con duemila gloriosi anni di storia. Ma la questione ha il suo lato serio. Ci si deve proprio chiedere fin dove i giudei possono giungere nel degradare e istupidire un popolo. La risposta alla domanda rivela26 il pericolo cui è di fronte l’umanità moderna se non resiste a questo processo di decadenza intellettuale e spirituale. Qui ne abbiamo dato un singolo esempio. La guerra spirituale del nostro tempo ce ne fornisce, ogni giorno, decine d’altri. Eroi o film sugli eroi, questo è il problema. Nessuno con un po’ di senso della storia può avere alcun dubbio su chi riceverà gli allori dalla dea della storia27 al termine della grande lotta odierna. Noi abbiamo una lunga serie di nomi, fieri e famosi, da opporre alle figure del nemico, gonfiate artificialmente. Essi servono il più illustre capo militare della nostra storia, e dietro di loro marciano milioni di soldati tedeschi già messi alla prova migliaia di volte dalla battaglia e dalla vittoria, nei momenti difficili e nelle privazioni. Essi vivranno nella storia della nostra Nazione, e i loro nomi saranno dei fari28 per le generazioni a venire. La momentanea popolarità degli eroi dei film americani si scioglierà29 insieme alla cera del museo di madame Tussaud.30


Il Generale Masaharu Homma31

Tratto dal sito http://www.calvin.edu/ (German Propaganda Archive)
Link all’articolo: http://www.calvin.edu/academic/cas/gpa/goeb35.htm

Le note sono a cura del traduttore F. R.
1 "Das eherne Herz" [Il cuore di ferro], di Joseph Goebbels, Reden und Aufsätze aus den Jahren 1941-42 [Discorsi e saggi degli anni 1941-1942], Monaco, Zentralverlag der NSDAP, 1943.
2 Das Reich era una rivista settimanale fondata dal Ministro nel 1940. Il primo numero uscì il 26 maggio di quell’anno. Pubblicata dalla Deutscher Verlag, era diffusa in Germania, in Svizzera ed in altri paesi Europei. Conteneva molto materiale esclusivo ed ogni mese pubblicava un articolo dello stesso Ministro. Raggiunse e superò il milione di copie vendute.
3 La traduzione letterale sarebbe: “Eroi e film sugli Eroi”.
4 1918-1933.
5 Letteralmente: “nel pubblico”.
6 Anche “in primo luogo”.
7 La traduzione di questa frase non è letterale.
8 Letteralmente: “ed ancora si dice siano santi…”.
9 Letteralmente: “a tutte le frecce del fato”.
10 Douglas MacArthur (Little Rock, Arkansas, 26 gennaio 1880 – Washington, 5 aprile 1964), generale statunitense, frequentò l'accademia militare di West Point, dalla quale uscì ufficiale del genio nel 1903. Partecipò con il grado di colonnello alla Prima Guerra mondiale, combattendo sul fronte francese, dove fu ferito. Nel 1918 fu promosso generale di brigata. Dal 1919 al 1922 guidò l'accademia militare di West Point. Dal 1930 al 1935, fu capo si stato maggiore dell'esercito americano; successivamente, dal 1935 al 1941, fu consigliere militare presso il governo delle Filippine. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, assunse il comando dell'esercito americano operante in Estremo Oriente (luglio 1941); di fronte all'invasione giapponese delle Filippine, MacArthur, nel marzo del 1942, si rifugiò in Australia. Qui assunse il ruolo di Comandante supremo delle Forze alleate del Pacifico Sud-occidentale. Per riconquistare i territori conquistati dall'Impero giapponese, MacArthur adottò una strategia conosciuta come "il salto della rana", consistente nel concentrare le proprie forze aeronavali nella riconquista solo di quelle isole che, data la loro posizione, consentivano di avvicinarsi al territorio metropolitano giapponese senza dover conquistare le principali basi tenute dal nemico che, isolate e prive del supporto logistico della madrepatria, finivano per dover essere abbandonate. Il 2 settembre 1945, MacArthur ricevette a bordo della corazzata americana Missouri, ancorata nel golfo di Tokyo, la delegazione nipponica guidata dal ministro degli esteri Mamoru Shigemitsu e dal generale Yoshijiro Umezu, i quali firmarono la resa incondizionata del Giappone. Subito dopo la guerra, MacArthur divenne comandante in capo delle truppe d'occupazione in Giappone, incarico conferitogli dal presidente Harry Truman. Poco dopo l'inizio della guerra di Corea, nel momento in cui i Nordcoreani avevano invaso la Corea del Sud, MacArthur venne nominato comandante delle truppe dell'ONU, che dovevano respingere l'attacco nordcoreano. Nel settembre del 1950 lanciò la controffensiva, occupando Pyongyang, capitale della Corea del Nord, e proseguendo poi verso Nord fin quasi ad arrivare ai confini con la Cina. L'avanzata delle truppe statunitensi verso i propri confini spinse la Repubblica popolare cinese ad intervenire nel conflitto a metà ottobre. L'offensiva cinese, anche se pagata a caro prezzo, portò a quella che probabilmente può essere considerata la peggiore sconfitta militare subita dagli Stati Uniti nel XX secolo. Pyongyang venne liberata il 6 dicembre e il 4 gennaio 1951 le forze delle Nazioni Unite evacuarono Seoul. Di fronte alla pressione cinese, dagli inizi di dicembre MacArthur iniziò a criticare sempre più apertamente la strategia seguita dalla Casa Bianca. Con crescente insistenza e toni isterici richiese vanamente l’autorizzazione ad impiegare l’armamento nucleare e ad allargare il conflitto al territorio della Repubblica popolare cinese, lanciando attacchi aerei contro le basi in Manciuria, imponendo il blocco navale alle coste della Cina e coinvolgendo nel conflitto le truppe di Taiwan. Al limite dell’insubordinazione, a metà marzo MacArthur intimò ai cinesi di ritirarsi immediatamente altrimenti «sarebbero stati costretti a farlo in ginocchio». In questo modo vanificò volutamente un tentativo di negoziato che il presidente americano Harry S. Truman aveva cercato di intavolare subito dopo la riconquista, il 14 dello stesso mese, di Seoul. Questo episodio, e altri di simile tenore, rinforzarono i timori di chi, all'interno del governo statunitense, riteneva che MacArthur stesse cercando volontariamente di portare gli Stati Uniti verso uno scontro su larga scala con la Cina. MacArthur venne rimosso per "grave insubordinazione" dal comando delle forze in Corea l’11 aprile 1951 e sostituito con il generale Matthew Ridgway. Ritornato in America, si ritirò dalla vita militare per dedicarsi a quella politica partecipando, senza successo, alle primarie per la selezione del candidato repubblicano per le elezioni presidenziali del 1952.
11 Theodor Scherer (1889-1951), Generalmajor des Heeres e quindi Generalleutnant, comandante di divisione e capo del "Kampfgruppe Scherer", insignito della Ritterkreuz mit Eichenlaub [Croce di Cavaliere con Fronde di Quercia] il 5 maggio 1942, direttamente dal Führer, è noto, a giusto titolo, come l'eroe di Cholm. All'inizio di gennaio del 1942, l'offensiva tedesca sul Fronte dell'Est subisce un brusco arresto nel settore nord ed i sovietici riprendono l'iniziativa. Due armate sovietiche, la 3a e l'11a, aprono una breccia nelle linee tedesche e l'8 gennaio la 16a armata tedesca del Generaloberst Busch inizia a ritirarsi. Nella zona di Demjansk un intero Corpo d'Armata tedesco viene accerchiato e rimane intrappolato dall'8 febbraio al 21 aprile. Numerose furono le unità tedesche che rimasero intrappolate in sacche, circondate dai sovietici, poiché il fronte tedesco si era ritirato di circa 100 km. I russi, per mantenere l'offensiva, dovevano conquistare la città di Cholm, sul fiume Lovat, strategicamente essenziale. I tedeschi, d'altra parte, non si potevano permettere di perdere la città che era essenziale per le future azioni di alleggerimento del II Corpo d'Armata, che era circondato. Inoltre il Führer riteneva giustamente Cholm un ottimo punto di partenza per ulteriori operazioni offensive e quindi una linea difensiva che non doveva essere ceduta a nessun costo. Le unità tedesche si concentrarono quindi nella piccola città a ritmo serrato. Le comandò il già famoso Generalmajor Theodor Scherer (comandante della 281a Sicherungsdivision) che diede il proprio nome a questo gruppo di unità (il "Kampfgruppe Scherer"). Dai rapporti tedeschi risulta che furono oltre 60 le unità che si concentrarono nella sacca di Cholm. Molti erano reparti sbandati dall'avanzata sovietica, da Reggimenti di Grenadier, ad altri di artiglieria, fino a un reparto di Marina ed addirittura piloti di alianti. Fra i comandanti di reparto distintisi in combattimento vale la pena di ricordare, oltre ovviamente a Scherer, l'Oberstleutnant Johannes Manitius e l'Oberstleutnant Hans Freiherr von Bodenhausen, ambedue decorati. Il numero totale dei soldati tedeschi accerchiati non è mai stato accertato con precisione, alcuni autori parlano di 5.500, altri di 6.200 ed altri ancora di circa 6000. Fra loro anche alcuni civili. L'accerchiamento sovietico si completò il 21 gennaio del 1942. Durante tutta la resistenza, i tedeschi riuscirono a ristabilire il contatto terrestre con le altre truppe sono una volta, nei primi giorni dell'assedio. Poi i sovietici chiusero l'accerchiamento e strinsero il cappio per 105 giorni, fino al 5 maggio 1942, durante i quali, gli eroi -veri- di Cholm resistettero in assoluto isolamento terrestre ai continui attacchi sovietici, in un'area che, nel punto più ampio, era larga appena 2 km e mancava totalmente di protezioni naturali, sottoposti al fuoco costante dell'artiglieria sovietica. La cittadina, che in tempo di pace aveva circa 10.000 abitanti, era divisa in due dal fiume Lovat; le case erano in legno, salvo rari edifici come la Chiesa, che fu usata come punto d'osservazione per la quasi inesistente artiglieria tedesca, che comprendeva qualche PaK [Panzerabwehrkanone] da 3,7, uno da 5 cm e qualche mortaio. Le armi pesanti, comunque, terminarono presto le munizioni e gli uomini del 123o Reggimento di Artiglieria combatterono come fanti. Veri e propri prodigi di abilità vennero compiuti dai piloti della Luftwaffe (Luftflotte 1) che riuscirono ad atterrare su una pista improvvisata lunga appena 1000 metri e che si trovava appena fuori Cholm, a nord-ovest, in piena "terra di nessuno" particolarmente esposta agli attacchi sovietici. La pista, in breve tempo, divenne un vero e proprio cimitero di Junker 52. Un solo esempio: in febbraio sette Ju. 52 tentarono di portare a Cholm dei rinforzi, una compagnia. Cinque apparecchi furono danneggiati al punto da non poter più decollare e i loro equipaggi entrarono a far parte del Kampfgruppe Scherer, come fanti. Ma la Luftwaffe non si diede per vinta ed iniziò ad impiegare anche degli alianti, i Gotha Go. 242, che atterravano la sera tardi o la mattina presto per diminuire i rischi di essere abbattuti dai caccia sovietici, contro i quali non avevano praticamente difesa. I piloti degli alianti riuscirono a portare aiuti preziosi ai camerati a terra e, fra il 9 e il 12 marzo, a sbarcare un intero reparto di Grenadier. E, al termine delle loro missioni, sapevano di dover rimanere a terra a combattere come truppe di fanteria, fianco a fianco agli altri soldati accerchiati. In totale la Luftwaffe compì 2122 missioni su Cholm. Gli eroi di Cholm resistettero ad oltre 100 attacchi di fanteria ed a 42 di carri sovietici. Le vicende più drammatiche furono vissute dai feriti. La Luftwaffe, all'inizio della battaglia, riuscì ad evacuarne circa 700 con due Ju. 52 da trasporto. Un vero successo che non fu più possibile ripetere in seguito, con la battaglia che si faceva sempre più cruenta, la sacca che diveniva più piccola per le ritirate ed interi reparti che venivano oltrepassati dai russi. Il numero dei feriti, inoltre, cresceva di giorno in giorno. Dopo che i sovietici ebbero raso al suolo l'edificio che ospitava la postazione medica -nella parte est della città- i feriti vennero condotti nella zona ad ovest (detta "Haarnadelkurve"), dove però gli edifici erano tutti in legno e senza cantine e quindi, quando le bombe esplodevano non c'era alcun riparo dalle schegge di legno per i feriti, impossibilitati a muoversi. Era frequentissimo che i soldati fossero feriti una seconda o una terza volta, da questi frammenti di legno, prima ancora di essersi ripresi dalle ferite dei combattimenti. In questa situazione estrema deve essere riconosciuto come straordinario anche il comportamento dei due medici militari, i dottori Huck e Ocker. I tedeschi persero il 25% delle truppe in combattimento ed oltre 2200 uomini (circa il 40%) furono feriti. Purtroppo molti dei feriti, sopravvissuti all'assedio, morirono in seguito negli ospedali del Reich, per le ferite riportate. La mattina del 5 maggio 1942 l'assedio fu rotto, grazie all'intervento del 411° Grenadier Regiment, al comando dell'Oberstleutnant Heinrich Tromm e di pochi Sturmgeschützen [i carri senza torretta con un cannone da 75 mm]. Ma la battaglia non era ancora terminata perché i superstiti dovettero combattere ancora fino a metà giugno, insieme ai loro liberatori, per stabilizzare il fronte; ed ebbero altri caduti: fra questi il comandante del Reggimento che li aveva liberati, l'Oberstleutnant Tromm, caduto in combattimento il 18 di giugno. Quando Cholm venne liberata rimanevano appena 1500 uomini in grado di combattere. La città fu tenuta per altri due anni, fino al febbraio del 1944, quando venne abbandonata a seguito del ripiegamento del fronte. Per ricordare la feroce battaglia venne creata una apposita decorazione. Questo è un esempio di eroismo autentico.
12 OKW. Oberkommando der Wehrmacht (Alto Comando della Wehrmacht). L'alto comando delle Forze armate tedesche creato dal Fuhrer nel 1938 aveva il compito di coordinare i comandi delle tre Forze armate: OKH (Oberkommando des Heeres) - Wehrmacht; OKM (Oberkommando der Marine) - Kriegsmarine e OKL (Oberkommando der Luftwaffe) - Luftwaffe. Il comando dell'OKW venne affidato sin dalla sua nascita al generale Wilhelm Keitel che lo mantenne fino alla fine del conflitto coadiuvato dal generale Alfred Jodl come Chef des Wehrmachtführungsstabes (Capo dello Staff). Entrambi furono "giustiziati" a Norimberga.
13 Letteralmente: “da tutte e quattro le direzioni”.
14 Letteralmente: “acquartieramenti”.
15 Letteralmente: “polverizzò in calcinacci”.
16 L'isola di Corregidor -9 km²- è situata a 48 km ad ovest di Manila, proprio all'ingresso della baia. Ha una forma particolare, simile a quella di un girino, con la "coda" che punta ad est. Rocciosa, munita di vaste fortificazioni -Fort Mills-, era nota come "the Rock". Insieme all'isola di Caballo, situata circa 2 km a sud della punta della "coda" di Corregidor, rappresenta un blocco naturale per l'ingresso nella baia di Manila. Sede, fino all'11 marzo 1942, dell'U.S. Far East Command Headquarters (USAFFE), il Q.G. di MacArthur nelle Filippine, ospitò temporaneamente, fino al 19 febbraio, il Governo del Commonwealth delle Filippine. La penisola di Bataan si trova invece sul lato occidentale della baia di Manila, nell'isola di Luzon. La battaglia di Bataan si svolse dal 1° gennaio al 9 aprile del 1942. Le truppe giapponesi, al comando del generale Masaharu Homma, ammontavano a circa 75.000 uomini. Di fronte a loro 30.000 soldati statunitensi e 120.000 filippini, al comando del generale MacArthur. Al termine della battaglia di Bataan, i giapponesi presero 75.000 prigionieri. Le truppe alleate ebbero circa 10.000 caduti e 20.000 feriti. La notte del 12 marzo il generale MacArthur con la famiglia e vari ufficiali dell'USAFFE abbandonò Corregidor su quattro sottomarini diretti a Mindanao e da lì riparò in volo in Australia. Il comando delle truppe americano-filippine passò nelle mani del Lt. Gen. Jonathan Wainwright IV. Da parte giapponese fu particolarmente imponente l'uso dell'artiglieria, con 190 pezzi pesanti, comandata dal generale Kineo Kitajima, che rase al suolo le fortificazioni americane. L'assalto finale alla penisola di Bataan, il 3 aprile, sulla linea Orion-Bagac, trasformò il monte Samat in un vero e proprio inferno. Dopo un bombardamento aereo compiuto da 100 apparecchi ed un altro terrestre di 300 pezzi d'artiglieria, la 4a Divisione e la 65a Brigata giapponese scattarono all'assalto sfondando il centro del fronte alleato e mettendo in fuga le truppe. Su tutta la linea del fronte le unità americano-filippine di sgretolarono disperdendosi. Molte scomparvero nella giungla. Nei giorni successivi l'intera linea difensiva alleata collassò disintegrandosi. L'8 aprile il generale Edward P. King, comandante statunitense di Bataan, vista l'inutilità di una ulteriore resistenza, si offrì di capitolare. La mattina successiva, 9 aprile, il generale King incontrò il generale Kameichiro Nagano e si arrese.
17 La battaglia di Corregidor, del 5 e 6 maggio successivi, fu la logica conclusione di quella di Bataan. Per i giapponesi della 14a Armata imperiale, guidati dal generale-poeta Masaharu Homma, la conquista dell'isola fortezza rappresentava l'ultimo ostacolo prima di rendere Manila, il miglior porto naturale di tutto l'Oriente. L'isola -a due miglia dalla penisola di Bataan-, con la sua formidabile rete di tunnel e il poderoso schieramento di fortificazioni difensive era difesa da 13.000 uomini, truppe statunitensi e filippine. Al termine della battaglia, 11.000 di loro finirono prigionieri, circa 800 furono i caduti e 1.000 i feriti. Fort Mills, nome ufficiale di Corregidor, aveva delle difese tali da renderla realmente imprendibile. Sotto Malinta Hill, per esempio, era stato costruito un tunnel lungo oltre 425 metri, largo poco meno di tre e con 25 passaggi laterali! A nord di questo vi era una altro sistema di tunnel -con altri 12 passaggi laterali- che ospitava un ospedale sotterraneo. Di fronte all'ospedale un nuovo sistema di tunnel -della Marina- collegato a quello principale da un corridoio. Nei tunnel a prova di bomba, che ospitavano, oltre all'ospedale, il Q.G. di MacArthur ed i depositi, si circolava su auto elettriche che correvano su una doppia corsia. Corregidor aveva fra l'altro 56 pezzi d'artiglieria costiera, in gran parte piazzati sul Topside, il punto più alto dell'isola, e 13 batterie antiaeree con 72 pezzi d'artiglieria. Le batterie Smith e Hearn, le più potenti, erano dotate di cannoni da 300 mm con una portata orizzontale di 26,5 km. Oltre a Fort Mills la "difesa" alleata constava dell'isola Caballo -Fort Hughes- a sud di Corregidor, con 13 pezzi di artiglieria costiera e le difese antiaeree; Fort Drum, 4 miglia a sud di Fort Hughes, dove era stata addirittura costruita una "corazzata" in cemento armato, lunga 106 metri e larga 44, con pareti esterne rinforzate in acciaio, munita di quattro cannoni da 350 mm in torrette blindate che guardavano il mare e 6 cannoni da 150 mm in casamatte, oltre alle usuali difese antiaeree; l'ultima, l'isola di Carabao, dove si trovava Fort Frank, era difesa da due cannoni da 350 mm, otto mortai da 300 mm, quattro GPF da 155 mm, insieme alla solite difese antiaeree. Come si vede il nome di "Gibilterra dell'Oriente" dato a Corregidor pareva appropriato. Nonostante ciò, il 5 maggio, le truppe giapponesi comandate dal generale Kureo Tanaguchi, imbarcate su mezzi da sbarco e chiatte, assaltarono l'isola che era stata sottoposta a micidiali bombardamenti fin dal 28 aprile precedente, sia dall'aria -la 22a Brigata aerea del generale Kizon Mikami, che da terra, da parte
dell'artiglieria dell'appena conquistata Bataan. Nei primi due sbarchi -due battaglioni di 790 e 785 uomini- i giapponesi persero gran parte degli effettivi. La situazione si capovolse con l'arrivo di tre carri armati giapponesi che costrinsero gli artiglieri a ritirarsi verso il tunnel Malinta. A quel punto il generale Jonathan Wainwright inviò un messaggio al presidente Roosevelt ("C'è un limite alla resistenza umana, e noi quel punto lo abbiamo da tempo superato") e decise di arrendersi alle 13 e 30 del 6 maggio 1942. Due "eroici" ufficiali americani con la bandiera bianca portarono il messaggio di resa ai giapponesi. Corregidor fu ripresa dagli americani dal 16 al 26 febbraio 1945.
18 1942.
19 Letteralmente: “…e resistenza”.
20 Letteralmente: “costruire”.
21 Letteralmente: “invincibile”.
22 Letteralmente: “cliniche”.
23 Come sempre, la feroce ironia del Ministro coglie nel segno.
24 Solo che re Leonida di Sparta, coi 300 opliti della sua guardia e 7.000 uomini in tutto, resistette fino alla fine ai centomila persiani di re Serse I, uccidendone oltre 20.000 e cadendo in battaglia. Non penso che le parole di Simonide, scolpite sul monumento che oggi ricorda la battaglia del 480 a.C. ("O viandante, annuncia agli Spartani che qui noi giacciam per aver obbedito alle loro parole") sarebbero molto adatte per  l’"atomico" generale U.S.A.
25 Il Museo delle cere di madame Tussaud (Marie Grosholz-Tussaud, 1761-1850) oggi è presente in cinque diverse città: Londra, New York, Las Vegas, Amsterdam e Hong Kong.
26 Anche: “mostra” o “indica”.
27 Letteralmente: “…a chi la dea della storia concederà gli allori…”.
28 Anche: “segnali luminosi”.
29 Anche: “si dissolverà”.
30 Siamo certi che gli Dei ci concederanno questo “scioglimento”….
31 Masaharu Homma (27 novembre 1887- 3 aprile 1946), generale giapponese, fu il vincitore di Corregidor e Bataan. Dopo la resa del Giappone, MacArthur lo fece deportare nelle Filippine dove fu processato e condannato per "crimini di guerra". Fu fucilato il 3 aprile del 1946 nei pressi di Manila.

 
   
 

Dario Wolf (3/12/1901 – 29/7/1971)


L’artista nel suo studio presso Piazza del Duomo a Trento nel 1930

Dario Wolf nacque a Trento il 3 dicembre 1901. Compì con lode gli studi superiori artistici di composizione e di pittura del nudo a Roma, presso l’Accademia inglese di belle arti sotto la guida di Sigismondo Lipinskj. Nel 1924, ancora studente, vinse il premio “Calderon” per il disegno del nudo, per “le sue profonde qualità innate di disegnatore”. Esordì come incisore del legno nel 1921 con “Furor animae” e si affermò come acquafortista con le lastre “Potente-impotente”, “Superstizione” e “Destino”. Fece parte del “Gruppo Romano Incisori Artisti”, composto da venticinque artisti italiani e stranieri, fino al suo scioglimento. Fu definito già allora da Pietro Scarpa, sul “Messaggero” del 1927: “…un esperto dell’arte del bulino”. Si dedicò con amore e rara competenza all’incisione su metallo. Per la tecnica dell’acquatinta, interessante è “Il suonatore di fisarmonica”, grande lastra di zinco del 1957. Fu uno dei pochissimi che si dedicarono all’incisione in acciaio nella tecnica “Schabkunst” o “maniera nera” come attestano “Importante” (1963), “Etiope” (1966), “Vicolo dei Birri” (1968). Efficacissime pure sono le punte secche, vedi “Clementina”, del 1968. Per Dario Wolf, “l’acquaforte è l’arte che più di qualsiasi altra può giovare ad esprimere stati d’animo fugaci, a realizzare i pensieri più intimi e più complessi, ad esprimere la vita delle cose in un’atmosfera reale e irreale che va dalle profondità vellutate delle ombre distese ai lumi avvolgenti incantati” (D. Wolf, Elogio dell’acquaforte nella sua particolare attitudine a rappresentare momenti di vita interiore, in “Annali”, Milano 1955). Per vari anni fu segretario regionale degli “Incisori d’Italia” per le Tre Venezie. Pittore di grande impegno, usò le tecniche più diverse: sanguigna, pastelli, tempera, olio ecc. Eseguì pure grandi affreschi in chiese ed edifici pubblici e privati. Si dedicò anche all’ insegnamento. Morì a Trento il 29 luglio 1971. Per Dario Wolf l’arte deve essere sopra tutto manifestazione di bellezza che, penetrando nella vita delle cose, ne esprima l’intima essenza. Schivo di pubblicità, dedito soltanto a seguire il suo ideale d’artista, Dario Wolf non è entrato nel cerchio delle correnti: è vissuto solo per la sua arte. “L’arte quale mezzo che più di qualsiasi altro può elevare lo spirito umano a far comprendere la vastità e la bellezza del mondo spirituale”. Rita Wolf Prando, nota biografica in “A convegno sul Brenta” Edizioni Il Cavallo alato, 1990, Padova Ulteriori informazioni biografiche e bibliografiche al sito http://www.dariowolf.it/

Dario Wolf, "A convegno sul Brenta" Edizioni Il Cavallo alato, 1990, Padova, 10 euro. Con saggio dell’artista “Sacralità primordiale delle vette” e postfazione di Edoardo Longo “L’antica giovinezza del mondo”. Opera in cinquecento esemplari numerati con sei illustrazioni di Dario Wolf.
La spiritualità più pura e il fascino della montagna nel gioiello poetico dell’artista. Richiedere a Libreria Ar, Largo Dogana Regia, 84121 Salerno Tel/fax: 089 221 226 Indirizzo posta elettronica: libreriaar@tin.it Sito internet: http://www.libreriaar.it/ Chi desidera acquistare i libri segnalati nelle pagine del sito, può richiederli in contrassegno (spese di spedizione complessive: euro 3,00) o effettuare un versamento sul conto corrente postale n. 18849844 intestato alla Libreria Ar, Largo Dogana Regia, 84121 Salerno “A Convegno sul Brenta è un breve ed ispirato racconto che, nelle dense pagine che lo compongono espone la “teoria” tradizionalista dell’artista trentino e costituisce, per dirla con Rudatis, il “testamento spirituale” di Dario Wolf. Il racconto appare semplice: narra infatti di una escursione compiuta dall’autore sul massiccio del Brenta. Ma l’escursione è solo l’aspetto esoterico del racconto di Wolf: in realtà (in un grado immateriale di realtà), ogni immagine che l’autore descrive, qualsiasi pietra, albero,fiore, baratro da lui incontrati, si rarefanno, mutandosi in lettere di un complesso alfabeto, composto di sottili rimandi alla visione della montagna quale scenario privilegiato del Sacro. Ogni pagina è resa più preziosa dalle illustrazioni di Wolf, che scandiscono i paesaggi del racconto ed equivalgono a suggelli del simbolismo della Montagna. In queste immagini artistiche spira quella limpidezza serena che solo il senso arcaico della natura può suggerire, trasformando il mondo fisico alpino in un universo metafisico colmo di Dei”. Pag. 53 di Edoardo Longo “Il fuoco e le vette. Lungo i sentieri dell’arcaica tradizione ariana” Cooperativa Editrice Il ventaglio, 1996, Roma.


Gli Amici, 1924, acquaforte su rame

Pino Prati(1902-1927) valoroso alpinista trentino, autore della prima guida del Brenta del 1926, studente del politecnico di Torino, perito con Giuseppe Bianchi nel 1927 sulla via Preuss del Campanile Basso di Brenta. “Alcuni mesi prima della sua scomparsa Pino Prati si era incontrato con Dario Wolf. Essi erano vecchi amici. Dario Wolf era un artista originalissimo che aveva delle conoscenze esoteriche le quali aprivano le porte alle sue migliori ispirazioni. Per tali sue conoscenze e per la sua natura di artista autentico, egli doveva aver percepito la crisi interiore di Pino Prati. Pertanto egli propose a Pino Prati di rappresentarlo in un quadro. Ho qui vicino una fotografia del quadro. L’intera tragedia è rappresentata in una sintesi che è straordinariamente espressiva. La testa di Pino Prati occupa oltre metà del quadro. La parte inferiore della sua guancia sinistra è lievemente appoggiata ad un nudo cranio le cui occhiaie vuote emergono appena nell’angolo destro del quadro. Al disopra del cranio lungo il lato destro si profila il Campanile Basso di Brenta, proprio dove è avvenuta la tragedia. Il titolo del quadro è “Gli amici”! Mesi prima che avvenga, Dario Wolf ha rappresentato la tragedia con artistica precisione, cioè sentita, identificata e localizzata come fosse una realtà cosmica o Karmica assoluta. Sarebbe oltremodo banale parlare di coincidenza. Non si può non pensare qui alla premeditazione della morte come premeditazione della libertà, secondo il pensiero di Montaigne. Ma questa premeditazione della libertà non ha significato politico, poiché nella mente di Pino Prati la politica non aveva quasi nessun posto. Si trattava di liberazione in senso spirituale. Molti alpinisti hanno nel loro inconscio tale bisogno di liberazione spirituale, anche se non lo sanno. Ed anche se non intendono cosa voleva dire San Matteo quando avvertiva che “ardua è la via che conduce alla vita e pochi la trovano”. Che è un discorso molto alpinistico, anche alla prima impressione. Assieme al quadro “Gli amici” con Pino Prati, ho pure altri lavori di Dario Wolf, tra cui un magnifico Buddho Avalokhita e l’ex libris della biblioteca di Pino Prati in cui è raffigurato esotericamente il mistero della montagna.” Pag. 88 di Domenico Rudatis “Liberazione. Avventure e misteri nelle montagne incantate” Ed. Nuovi Sentieri, 1985 Bologna

"L'ambiente, gli ideali ed il momento storico si congiungono in Pino Prati: l'alpinismo entra in una nuova fase, la montagna diventa per molti luogo di riscatto e di esaltazione, il Campanile Basso rappresenta il punto cardine ove la "disgrazia" e il "sacrificio eroico" giungono con freddo tempismo per eternare un alpinista e la "sua" vetta. I concetti fin qui esposti prenderanno addirittura forma visiva grazie all'opera grafica di Dario Wolf. Egli fu legato a Pino Prati da un'amicizia di lunga data, tanto che quest'ultimo posa anche come modello per l'amico pittore (nella grande tela "I Titani"); li unisce un identico sentire nei confronti della montagna che Wolf trasforma in visioni paurose e cariche di mistero... L'opera pregevole di Dario Wolf risulta attenta e sensibile al fascino della montagna. Anche lui rivolge una particolare attenzione al Campanile Basso: nell'acquaforte dal titolo "Il mito della montagna" (1927) e nelle tavole che accompagnano il volume “A convegno sul Brenta” il Campanile Basso e le torri del Gruppo sono raffigurate non come banali ornamenti, ma come catalizzatori di profondi significati mistici." Pag. 151 di "Ricordi Alpini" di Pino Prati, a cura di Claudio Ambrosi, Ed. Società degli Alpinisti Tridentini. Biblioteca della montagna - SAT, Trento 2006 In copertina: particolare dell’acquaforte “Gli Amici” http://www.sat.tn.it/Home/


- Il pellegrinaggio, 1925, acquaforte ex libris della biblioteca di Pino Prati
- Frontespizio della rivista Atanòr, 1924 di Dario Wolf

Nel 1924 Arturo Reghini (Firenze 12/11/1878 - Budrio 1/7/1946) fonda e dirige Atanòr, rivista di studi iniziatici a cui collaboreranno tra gli altri Julius Evola e René Guénon. La rivista dura un anno e prosegue con la testata Ignis. Dario Wolf disegna il frontespizio della rivista ripetuto in tutti i numeri con diverse colorazioni. “Gli alchimisti denominavano “athanor”, cioè fornace, il luogo in cui operavano le loro trasformazioni metallurgiche: ma cosa ha potuto intuire un lettore attento, che sa “vedere” oltre il linguaggio criptico di quest’arte misteriosa? L’athanor è la nostra interiorità: la radice etimologica deriva da un termine caldeo, Eth hanour, che designa il Fuoco, non quello comune e volgare, ma quello Divino e Metafisico”. L. Valentini Ars regia, la via ermetico-eroica al Divino in Orientamenti n. 5-6 anno VIII, 2005. Richiedere a: nicola.cospito@libero.it

Dalle vette eccelse, 1955, acquaforte su rame

“Dalle vette eccelse, dai ghiacciai immacolati sorge il millenario canto dell’eterna bellezza”
"L'autentica idea delle cose, il loro archetipo ideale, proprio perchè ideale, non può che essere "bello": la forma elaborata dall'artista deve avvicinarsi quindi alla bellezza, la quale tuttavia non ha nulla a che fare con ciò che "piace", ma significa equilibrio formale, perfezione tecnica, nobiltà ed altezza di concetto ispiratore." Pag 25 di Bruno Passamani "Dario Wolf 1901 - 1971 Catalogo mostra 12 maggio - 3 giugno Palazzo Pretorio Trento" Lions Club Trento, 1973
“L’arte non è mai un giuoco: è un dono divino dei più grandi…L’arte che è sempre al di là del vero, è dal vero che prende vita; e la vita delle cose deve esser colta dall’artista, che, con la sua sensibilità, deve far sua la più tenue luce di un ideale superiore di bellezza.” Dario Wolf “Elogio dell’acquaforte nella sua particolare attitudine a rappresentare momenti di vita interiore”, 1955


Il cancro, 1932, acquaforte su rame

“Nel 1932 Wolf si fece un angosciante autoritratto: si raffigurò di profilo, urlante; dietro di lui, un mostro alato: una specie di idra in volo, da cui collo si ramificava una serie impressionante di tentacoli- serpenti , che - passando per la gola - andavano a ghermire il collo dell’autore. L’acquaforte si intitolava “Il cancro”. Un cancro alla gola, a distanza di un quarantennio, divorò la vita di Dario Wolf, uccidendolo nel 1971.” Armando Audoli in "Dario Wolf", Libreria Araba Fenice, Torino, 2004

Furor animae, xilografia, 1921

"Da sempre relegato nelle mura di Trento, città a cui sono vincolate le date estreme della schiva esistenza dell'artista (3 dicembre 1901 e 29 luglio 1971), il nome di Dario Wolf scivola segreto sulle labbra di pochissimi adepti, ed è un nome inconsueto, sorprendente, addirittura per gli specialisti di grafica. Siamo ancora in odore d'iniziazione. Sacrificato senza scampo sull'altare della modernità cieca e intollerante, il sofisticato magistero di Dario Wolf, un vero virtuosismo manuale che gli permise di rendere visibile il proprio sguardo vertiginoso sull'invisibile, gli costò altresì la squalifica dai repertori ufficiali del Novecento figurativo. Ma non lo ignorava, Wolf, il misconoscimento contemporaneo, e non era certo il tipo da nutrire illusioni sulla posterità; era lucido e consapevole, disilluso: "Quello che è ancora più triste constatare - sibilava - è che si attribuiscono qualità dove non esistono e si vedono luccicori di perle dove non c'è che letame nauseante" La si guardi pure l'opera di Wolf, come un tesoro preziosissimo, precluso agli occhi dei più per eccesso di verità e bellezza, ripescato da profondità inusitate, fuori dal tempo e dalla storia." Armando Audoli in "Dario Wolf", Libreria Araba Fenice, Torino, 2004 Richiedere a: Araba Fenice Libri & Arte Via San Tommaso 5 - Torino Tel. 011.538854 libreriaarabafenice@tiscali.it


http://www.dariowolf.it/

Opere di Dario Wolf da vedere:
Pala della cappella del cimitero di Iseo (Trento)
Pala Santa Rita della Chiesa del Santissimo Sacramento di Trento
Santissima trinità della Chiesa di Trambileno alle Porte (Rovereto)
Pala Madonna fra Santi della Chiesa di Matassone di Terragnolo (Rovereto)
Pala di San Michele Arcangelo con Madonna e Santi della Chiesa di Mezzolago in Val di Ledro
Pala Gesù con i Santi Pietro e Paolo della Chiesa parrocchiale di Terragnolo (Rovereto)
Capitello sulla strada nei pressi di Torbole (Riva del Garda)
Affresco Madonna fra Santi sulla casa Pedrotti, in via Santa Croce a Trento
Affresco Santi Virgilio e Antonio Abate di un’edicola a Molveno
Pala San Luigi di Gonzaga della Chiesa dell’Istituto salesiano di Verona
Affresco Via Crucis della Chiesa parrocchiale di Vervò in Val di Non
Affresco Chiesa parrocchiale di Taio in Val di Non
Affresco Madonna dei camosci nella Chiesa del rifugio “Silvio Agostini” in Val d’Ambiez
Affresco della Scuola di Avviamento Professionale di Borgo Valsugana
Affresco della Cappella di Villa Stella di Caldonazzo (Trento)
Affresco del capitello dell’Ing. Ongari a Padergnone (Trento)
Affresco nella Villa Alberini di Caldonazzo(Trento)
Affresco di un capitello a Pietramurata(Trento)
Decorazione con graffito di Villa Vezza a Pescantina (Verona)
Decorazione con graffito della tomba Bonomi di Calavino (Trento)


Giove tonante, 1932 pannello superiore - Guerrieri, 1932 pannello inferiore

La cacciata dei titani, 1932 pannello centrale

La tela “La cacciata dei titani” è inserita in un mobile completo di lunetta (Giove tonante) e predella (I guerrieri).

"L'artista trentino Dario Wolf, mirabilmente dotato e coltivato, ha sviluppato la sua arte in una direzione del tutto indipendente ed interamente personale, restando così all'infuori di ogni moda e tendenza del suo tempo. avendo inoltre conoscenze esoteriche, anche ad un livello sperimentale, i suoi lavori hanno pure spiccatissimi caratteri di originalità." Pag. 111 di Domenico Rudatis “Liberazione. Avventure e misteri nelle montagne incantate” Ed. Nuovi Sentieri, 1985 Bologna

Ricerca bibliografica ed iconografica di Harm Wulf

 
   
 

In ricordo di Reinhold Elstner

Per protesta contro la repressione della “Primavera di Praga” da parte delle truppe sovietiche, lo studente Jan Palach si diede fuoco dopo essersi cosparso di benzina il 16 gennaio 1969 in piazza San Venceslao a Praga. Il suo suicidio divenne il simbolo mondiale della lotta eroica di un popolo contro l’occupazione straniera. Dimostrazioni di massa si organizzarono dopo il sacrificio dello studente. Nel suo zaino fu trovata una lettera che diceva: "Poiché i nostri popoli sono sull'orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l'onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l'abolizione della censura e la proibizione di Zpravy (il giornale delle forze d'occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s'infiammerà." Qualche settimana dopo, il 25 febbraio 1969 un altro studente, Jan Zajic, seguì l’esempio di Palach immolandosi a Praga nella stessa piazza. Il ricordo di entrambi i martiri fu proibito in Cecoslovacchia fino al 1989. Per protestare contro la repressione della Chiesa nella DDR il 18 agosto 1976 il pastore Oskar Brüsewitz si diede fuoco a Zeitz. Anche le sue commemorazioni furono proibite nella Repubblica Democratica Tedesca. Alain Escoffier giovane militante del “Parti des Forces Nouvelles”, decise di sacrificarsi a 27 anni seguendo l’esempio di Jan Palach e Jan Zajic. Il motivo della sua protesta la richiesta di libertà per l’Europa divisa ed occupata. Il 10 Febbraio 1977 Alain Escoffier si uccise facendosi avvolgere dalle fiamme sugli Champs Elysées di fronte alla sede dell’Aeroflot, la linea aerea russa. Per protestare contro il “Niagara di menzogne” sulla storia del popolo tedesco di media, classe politica e magistratura il 25 aprile 1995 alle ore 20 il pensionato Reinhold Elstner si diede fuoco sui gradini della  Feldherrenhalle di Monaco di Baviera. Settantacinque anni, laureato in ingegneria, soldato sul fronte dell’est durante la seconda guerra mondiale, dopo la perdita della conoscenza la sua agonia durerà dodici ore. Aveva lasciato un appello al popolo tedesco in cui riponeva le sue speranze. La commemorazione di Reinhold Elstner sarà proibita nella Repubblica Federale Tedesca. La deposizione di corone o mazzi di fiori nel luogo del sacrificio verrà vietata dalla polizia con la patetica scusa che le manifestazioni alla Feldherrenhalle o ad Odeonplatz possono evocare un preciso periodo storico da rimuovere e condannare (vedi http://www.d-direkt-deutschland.de/els.htm ). Le corone ed i fiori già deposti saranno gettati nei rifiuti per ordine delle autorità. La “giustizia” tedesca, cioè quella dei vincitori, marchierà come “Volksverhetzung”(reato di “sobillazione del popolo”)  la lettera di Reinhold Elstner e ne proibirà la diffusione. A oltre dieci anni dal sacrificio del martire tedesco rendiamo onore alla sua memoria. Nessun passo dei censori possa cancellare il ricordo di chi si è sacrificato per la liberazione del suo popolo e della sua terra. "Vivono eternamente le azioni gloriose dei caduti".Edda


Alain Escoffier - Jan Palach - Jan Zajic - Oskar Brüsewitz


Manifestazione a Monaco il 24 aprile 2005 in ricordo di Elstner

I resti del martire alla Feldherrenhalle di Monaco

 

L’ultima lettera di Reinhold Elstner (1)

Reinhold Elstner
Reichenhaller Str. 7/604
81547 München
Tel. 62 50 66 04

Tedeschi!
In Germania, in Austria, in Svizzera e in tutto il resto del mondo nel mondo: per favore risvegliatevi!
50 anni di interminabile diffamazione, turpi menzogne e la demonizzazione di un intero popolo sono abbastanza;
50 anni di ingiurie mostruose rivolte ai soldati tedeschi e di degenerata complicità all’odio “democratico”, un ricatto permanente che costa miliardi, sono più di quanto si possa sopportare;
50 anni di vendetta giudiziaria sionista sono sufficienti;
50 anni a cercare di creare spaccature fra generazioni di tedeschi, criminalizzando i padri ed i nonni, sono troppi.
E’ incredibile ciò che dobbiamo sopportare in questo “anno del giubileo”. Ci inonda un diluvio di menzogne e di calunnie simile alle cascate del Niagara. Dato che ho già 75 anni, io non posso più fare molto ma posso ancora cercare la morte immolandomi; un’ultima azione che può fungere da segnale per i tedeschi a recuperare le proprie facoltà mentali.
Se, attraverso questo mio atto, anche un solo tedesco si ridesterà, ed a causa di esso ritroverà la strada della verità, allora il mio sacrificio non sarà stato vano.
Ho sentito di non aver altra scelta dopo essermi reso conto che oggi, dopo 50 anni, pare mostrarsi una tenue speranza che la ragione prenda il sopravvento.
Come tutti i profughi, dopo la guerra io ho sempre avuto una speranza, e cioè che quanto è stato concesso agli israeliani dopo 2000 anni, ovvero il diritto di tornare “in patria”, anche ai tedeschi espulsi sarebbe stato accordato di tornare “a casa nel Reich”. Che è successo alla promessa di auto-determinazione che fu promulgata nel 1919 (2), quando milioni di tedeschi furono costretti a vivere sotto un governo straniero?
Ancora oggi sosteniamo questi fardelli, ma siamo NOI i colpevoli di tutte le malvagità!
 
Io sono un tedesco dei Sudeti. Avevo una nonna Ceca e da questo lato anche dei parenti Cechi ed Ebrei, alcuni dei quali sono stati detenuti nei campi di concentramento di Buchenwald (3), Dora (Nordhausen) e Theresienstadt. Non ho fatto parte né della NSDAP né di qualsiasi altro organismo Nazionalsocialista più innocente. Abbiamo sempre avuto i migliori rapporti coi nostri parenti non tedeschi e, se necessario, ci siamo aiutati a vicenda. Durante la guerra il nostro negozio, alimentari e panificio, era responsabile dell’assistenza (4) ai prigionieri di guerra francesi ed agli Ostarbeiter (5) che vivevano in città. Tutti furono trattati lealmente e ciò fece si che alla fine della guerra il nostro negozio non venisse saccheggiato perché i prigionieri di guerra francesi lo difesero finché non furono rimpatriati. I nostri parenti che erano stati prigionieri nei campi di concentramento erano già a casa il 10 maggio del 1945 (due giorni dopo la cessazione delle ostilità), ed offrirono il loro aiuto. Di particolare efficacia fu uno zio ebreo praghese che aveva assistito all’orribile bagno di sangue causato dai partigiani cechi fra i tedeschi rimasti nella capitale Ceca. Nei suoi occhi si poteva ancora vedere l’orrore di quegli assassini a sangue freddo, un orrore tale che, ovviamente, lui, ex-prigioniero del Reich non aveva mai sperimentato durante la propria carcerazione.
Sono stato un soldato della Wehrmacht del Grande Reich tedesco ed ho combattuto, dal primo giorno, sul fronte dell’Est; poi laggiù ho trascorso alcuni anni come prigioniero (6).
Ricordo bene la Kristallnacht del 1938 perché quel giorno incontrai vicino alla sinagoga una ragazza ebrea in lacrime, una ragazza con cui avevo studiato. Ma fui ben più sconvolto quando, in Russia, vidi come tutte le chiese erano state profanate, usate come stalle; vi ho visto i maiali grugnire, le pecore belare, i macchinari strepitare; ma il culmine fu vederle profanate come musei dell’ateismo. E tutto ciò accadeva con l’attiva collaborazione degli ebrei, questa esigua minoranza della popolazione, stretti collaboratori di Stalin, per primi la cricca Kaganovich (7), sette fratelli e sorelle, assassini di massa tali che i presunti killer della SS al confronto si possono definire innocenti.
Dopo il “ritorno a casa” dalla prigionia (che beffa per un profugo! (8)), sono venuto a conoscenza degli avvenimenti nei campi di concentramento tedeschi ma, all’inizio, niente sulle camere a gas né sulle gasazioni.
Al contrario, mi fu riferito che nei campi di Theresienstadt (9) e Buchenwald (Dora) (10) c’erano perfino dei bordelli per i prigionieri.
Quante menzogne ci hanno detto da allora!
Poi, in occasione dei “Processi di Auschwitz (11)”, e non solo a quelli di Norimberga, Herr Broszat dell’Istituto di Storia Contemporanea (12) dichiarò che la cifra dei famosi “sei milioni” era solo un numero simbolico e che non c’erano prove di uccisioni di massa entro le frontiere del Reich, anche con mezzi diversi dal gas; nonostante che per anni siano state mostrate ai visitatori le mai esistite camere a gas di Buchenwald, Dachau, Mauthausen (13) e così via. Bugie, nient’altro che bugie, fino ad oggi!
Ogni cosa mi divenne molto chiara dopo aver letto decine di libri scritti da ebrei e da cosiddetti anti-fascisti. Inoltre, fui in grado di attingere alla mia personale esperienza in Russia. Avevo vissuto per due anni nella città ospedale (14) di Porchow, dove già nel primo inverno, a causa dei pidocchi, era insorto il pericolo di un’epidemia di tifo petecchiale, e tutti gli ospedali e gli alloggiamenti della truppa furono disinfestati con quello che è diventato il "K.Z. Gas" (gas da campo di concentramento), vale a dire lo "Zyklon-B". Qui ho imparato a conoscere le misure precauzionali più severe (15), sebbene non facessi parte delle squadre addette al trattamento con gas degli edifici, tanto che devo bollare come favole TUTTI i libri letti finora che contengono affermazioni sulle uccisioni col gas nel Reich. Questo probabilmente è anche il motivo per cui tutti i rapporti sui campi di concentramento (16), dopo il 1945, sono “riconosciuti dai tribunali” e non hanno bisogno d’essere provati. Ma anche qui le bugie hanno le gambe corte. Sorprende comunque che, dopo che sono sparite le camere a gas nei campi del Reich, nessuno ha notato come siano spariti anche quelli che non sono più stati gasati.
 
Nel 1988 la televisione tedesca (17) presentò una trasmissione su Baby Yar (18), in cui si affermava come qui la SS avesse (naturalmente) ucciso 36.000 ebrei lapidandoli. Nel 1991 una certa dottoressa Kayser scrisse una relazione per la rivista “TZ” di Monaco dichiarando che quegli ebrei erano stati uccisi con armi da fuoco, e che i loro corpi erano stati in seguito bruciati nel profondo crepaccio. Alla richiesta di maggiori dettagli (19), la dottoressa Kayser ha rimandato ad una libreria di Costanza che le ha venduto il libro “Shoah von Baby Yar”. Il giorno in cui quel libro giunse a casa mia, la TV tedesca trasmise un rapporto da Kiev che raccontava delle scoperte di una commissione ucraina: a Baby Yar erano stati rinvenuti i resti di circa 80.000 esseri umani assassinati, tutti uccisi per ordine di Stalin (20) I Tedeschi non ne erano affatto responsabili. Ma ovunque nel mondo si possono ancora trovare monumenti a Baby Yar (21) che incolpano i tedeschi per quegli omicidi (22).
A causa di quanto dichiarato da Herr Broszat, e cioè che siamo stati ingannati sugli avvenimenti relativi ad una dozzina di campi di concentramento situati all’interno del Reich, non credo più neppure alle leggende e alle favole su quanto sarebbe accaduto nei campi della Polonia. E non credo neppure alle accuse post-belliche che dipingono noi tedeschi come una Nazione particolarmente aggressiva. Dopo tutto, fu la Germania che mantenne la pace dal 1871 al 1914, mentre l’Inghilterra e la Francia, le principali democrazie, conquistarono la maggior parte dell’Africa ed estesero le proprie colonie in Asia. Nello stesso periodo gli U.S.A. combatterono contro la Spagna e il Messico, e la Russia guerreggiò contro Turchia e Giappone. Su tali questioni io ritengo il governo degli Stati Uniti particolarmente cinico poiché questo paese per ben due volte si è avventato contro di noi per farci “maturare” verso la democrazia. E questo è il governo la cui nazione ha sradicato gli abitanti originari, ed ancor oggi tratta la propria popolazione nera come cittadini di seconda classe.
 
Nella mia vita ho incontrato ebrei gentili e servizievoli non solo fra i miei parenti ma anche fra i prigionieri di guerra in Russia. A Gorki una professoressa ebrea mi aiutò a ristabilirmi quando mi ammalai di pleurite ed ebbi problemi agli occhi. Ma ho sentito anche cose molto brutte su questa piccola minoranza (23) Non fu proprio Churchill a scrivere sul London Sunday Herald dell’8 febbraio 1920 (24) quanto segue?
“Dai giorni di Spartakus-Weishaupt (25) fino a Marx, Trotzky, Bela Khun, Rosa Luxembourg e Emma Goldmann (26), esiste una cospirazione mondiale occupata a distruggere la nostra civiltà e a ricostruire la società sulla base di uno sviluppo frenato da una invidia malevola e da un impossibile sogno di eguaglianza per tutti…Quella è stata la fonte dell’opera di sobillazione del 19° secolo. Ed ora questa banda di persone fuori dal comune, uscite dai bassifondi (27) delle più grandi città d’Europa e d’America è infine riuscita ad afferrare il popolo russo e, in effetti, a divenire gli indiscussi dominatori di questo regno enorme. Non è necessario sopravvalutare il ruolo che questi Giudei internazionali e per la maggior parte senza Dio hanno giocato…nella nascita del Bolscevismo”.
Probabilmente si potrà ancora citare un vincitore del Karlspreis (28).Nel XVIII secolo, Samuel Johnson (29) ha scritto: “Non so cosa dovremmo temere di più, se delle strade piene di soldati abituati al saccheggio, o stanze piene di scribacchini abituati a mentire”.
Considerando la nostra esperienza dopo il 1918 e dopo il 1945, noi tedeschi dovremmo sapere cosa temere di più!

Monaco, 25 aprile 1995
Reinhold Elstner

Festen Mut in schweren Leiden,
Hilfe, wo die Unschuld weint,
Ewigkeit geschworenen Eiden,
Wahrheit gegen Freund und Feind,
Männerstolz vor Königsthronen.
Brüder, gält es Gut und Blut:
Dem Verdienste seine Kronen,
Untergang der Lügenbrut!

Friedrich von Schiller

Lügenbrut Ignatz Bubis 29 und Genossen

Fermo coraggio nella pesante sofferenza
Aiuto, dove l’innocente piange,
Eternità del giuramento prestato,
Verità di fronte ad amico e nemico,
orgoglio dell’uomo prima dei troni dei re.
Fratelli, valgono il Bene ed il Sangue:
chi merita la sua corona,
la disfatta della genia dei mentitori!

Friedrich von Schiller

Ignatz Bubis (30)  genia dei mentitori ed i suoi confratelli

La lettera di Reinhold Elstner in inglese, tedesco, gaelicoe spagnolo
English http://fpp.co.uk/online/02/03/Elstner_Letter.html
Deutsche  http://www.vho.org/VffG/2000/2/Elstner131f.html
Gaeilge  http://www.exterminationist.com/gaeilge.htm
Español http://www.vho.org/aaargh/espa/REultimacarta.html

Premessa di Harm Wulf. Le note, salvo diversa indicazione, sono a cura del traduttore italiano F. R.

(1) Reinhold Elstner, nato nel 1920, ingegnere chimico in pensione e veterano della Wehrmacht sul fronte dell’est, la mattina del 25 aprile 1995, a Monaco, salì lo scalone del Feldherrnhalle e, dopo essersi cosparso il corpo di liquido infiammabile, si diede fuoco in segno di protesta contro il "Niagara di menzogne" riversato sul suo popolo. Inutilmente soccorso da alcuni presenti, morì dodici ore più tardi. Elstner aveva scritto questa lettera aperta ai giornali per spiegare il suo gesto ma la lettera fu ignorata dalla maggior parte dei media.
(2) L’8 gennaio 1917 il presidente statunitense W. Wilson enumerò i "famosi" quattordici punti ai quali si sarebbe ispirata la sua azione nella futura conferenza per la pace, al termine della I Guerra mondiale. Il quinto punto dice, fra l'altro: "...stretta osservanza del principio che nel risolvere il problema della sovranità gli interessi delle popolazioni in causa abbiano lo stesso peso delle ragionevoli richieste dei governi..."; il decimo, inoltre, recita: "Ai popoli dell’Austria–Ungheria, alla quale noi desideriamo di assicurare un posto tra le nazioni, deve essere accordata la più ampia possibilità per il loro sviluppo autonomo". Nonostante questo -in linea con la mentalità menzognera statunitense ed in spregio del principio dell'autodeterminazione dei popoli, tanto sbandierato da Wilson- col trattato di pace di Saint-Germain (1919) l’intera Boemia venne assegnata allo stato cecoslovacco: le potenze vincitrici sacrificarono così, tout-court, il principio delle nazionalità. Se si fosse proceduto secondo quest’ultimo criterio, la Germania e in misura minore l’Austria, in quanto stati confinanti, avrebbero beneficiato di una tale spartizione. Fu così che, per la prima volta nella storia i tedeschi della Boemia si trovarono al di fuori dei confini delle nazioni di lingua tedesca (Austria e Germania) e divennero una minoranza linguistica nella neonata Cecoslovacchia. Questa aberrante deroga al principio dell’autodeterminazione dei popoli fu decisa come misura punitiva nei confronti della Germania uscita sconfitta dal conflitto, del quale quest’ultima era stata riconosciuta ufficialmente responsabile dal Trattato di Versailles. In secondo luogo, le potenze dell’Intesa avevano concepito la Cecoslovacchia in funzione di baluardo antitedesco e vollero garantire al nuovo stato artificiale un territorio dotato di chiari confini naturali e quindi più facilmente difendibile. Nel 1919 i tedeschi dei Sudeti, pur rappresentando il secondo gruppo etnico più popoloso della Cecoslovacchia (superiore per numero persino agli slovacchi), non ottennero lo status di nazione riconosciuta: ciò portò ad ulteriore malcontento della popolazione di lingua tedesca, che sempre meno si sentì integrata nel nuovo stato, e in definitiva ad un crescente attrito con la maggioranza ceca. Nell’ottobre 1933 Konrad Henlein fondò il partito dei tedeschi dei Sudeti: creato in principio per dare una voce alle istanze autonomistiche locali (preoccupate dalla crescente presenza ceca nei territori germanofoni), il partito divenne presto il ramo cecoslovacco del Partito Nazionalsocialista tedesco.
(3)Buchenwald è una località della Turingia. Gli alleati entrarono nel campo il 13 aprile 1945.
(4) Dalla versione tedesca: “Betreuung”.
(5) Lavoratori stranieri.
(6) Nel testo originale Elstner usa “Gefangener” (“prigioniero”) per “Wiedergutmachung” (“riparazioni di guerra”).
(7) Il più noto dei quali era Lazar Moiseyevich Kaganovich (1893–1991), ebreo, nato a Kabany, oggi in Ucraina. Fedelissimo di Stalin è noto, fra l'altro, per l'Holodomor ucraino, cioè la terribile carestia che nel 1932-1933 condusse alla morte per fame milioni di ucraini, in seguito alla politica di collettivizzazione forzata da lui promossa in collaborazione con Vyacheslav Molotov. Di lui si rammenta anche la sanguinosa repressione dello sciopero degli operai di Ivanovo-Voznesensk, nel 1932; la distruzione sistematica dei più antichi monumenti moscoviti, come la Cattedrale di Cristo Salvatore; le bestiali sofferenze inflitte ai popoli del Kazakhstan, del Kuban, della Crimea, del basso Volga ancora a causa della collettivizzazione forzata e la repressione dei kulaki in Ucraina, nella Russia centrale e nel Caucaso del Nord (45.000 deportati -l'intera popolazione- solo in quest'ultima zona). Nel 1951 suo figlio Mikhail sposò Svetlana Dzhugashvili, figlia di Stalin. La sorella di Lazar, Rosa, fu –secondo alcune fonti- la terza moglie di Stalin mentre il fratello maggiore Mikhail Kaganovich fu commissario dell'industria pesante.
(8) In seguito alla sconfitta tedesca nella II guerra mondiale il Sudetenland venne restituito alla Cecoslovacchia e la popolazione di lingua tedesca dei Sudeti venne espulsa in massa. In questo modo circa tre milioni di profughi si riversarono nella Germania postbellica e furono rimpiazzati da cechi e slovacchi. Oggi gli ex territori di lingua tedesca dei Sudeti fanno parte della Repubblica Ceca.
(9) Theresienstadt (in ceco Terezín) attualmente fa parte della Repubblica Ceca. Il campo è noto per il film documentario "Theresienstadt. Ein Dokumentarfilm aus dem jüdischen Siedlungsgebiet" (Terezin: Un documentario sul reinsediamento degli ebrei).
(10) Dora Mittelbau, a 20 km da Nordhausen -in Turingia- era in realtà una struttura industriale dove fu trasferita, per motivi di sicurezza, la fabbricazione di missili da Peenemünde, in Pomerania, a causa dei bombardamenti alleati. La struttura era quasi completamente sotterranea -in caverne e tunnel, collegate fra loro da una ferrovia scartamento ridotto- sotto le colline Kohnstein, nel massiccio del Sudharz. Il campo fu invaso dagli americani il 15 aprile 1945.
(11) Auschwitz (in polacco Oswiecim) si trova a circa 60 chilometri ad ovest di Cracovia. Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche entrarono nel campo.
(12) Martin Broszat, storico bavarese, direttore dell’Institut für Zeitgeschichte di Monaco e antinaz(ionalsocial)ista, il 19 agosto del 1960 scrisse a un quotidiano di vasta diffusione, "Die Zeit" che "Né a Dachau né a Bergen-Belsen né a Buchenwald sono mai stati gassati ebrei o altri detenuti. La camera a gas di Dachau non è mai stata portata a termine e messa "in servizio". Centinaia di migliaia di detenuti, morti a Dachau o in altri campi di concentramento situati all'interno delle frontiere dell'ex Reich (ossia delle frontiere tedesche del 1937), furono vittime soprattutto delle catastrofiche condizioni igieniche e di approvvigionamento: nei soli dodici mesi dal luglio 1942 al giugno 1943, 110.812 persone morirono di malattie e di fame in tutti i campi di concentramento del Reich, secondo le statistiche ufficiali della SS....". In pratica Broszat smentiva Norimberga, i suoi "testimoni", le sue "prove evidenti", per tutti i lager della Grande Germania. Si limitava a confermare la tesi della gasazione per i lager posti in Polonia, sorvegliati allora -nel 1960- dalle milizie comuniste, rigorosamente vietati agli storici indipendenti. I “guai” sono incominciati quando la cortina di ferro è caduta, gli archivi di Mosca si sono aperti, Auschwitz ha smesso di essere un oggetto lontano non identificato. Leuchter e Rudolf hanno fatto perizie tecniche per trovare tracce di sterminio per gas e -da autentici criminali quali sono- non le hanno trovate. (vedi Il Caso Faurisson e il revisionismo olocaustico, Graphos, 1997, p. 77).
(13) Mauthausen è una piccola cittadina dell'Alta Austria, a circa 20 chilometri ad est di Linz. Il campo venne occupato nel maggio 1945 dall'11a divisione corazzata U.S.A.
(15) Nel testo tedesco Elstner usa “Lazarett”, cioè “ospedale militare”.
(16) Nell’uso del gas per la disinfestazione.
(16) Scritti dalle “vittime”. (Nota del traduttore dal tedesco).
(17) Nel testo tedesco Elstner specifica il nome della trasmissione: "Kennzeichen D" della ZDF (la tv tedesca).
(18) Un burrone nei pressi di Kiev, in Ucraina. (Nota del traduttore dal tedesco).
(19) Letteralmente: “A richiesta” oppure “A domanda” (“Auf Nachfrage”).
(20) Prima del 1941. (Nota del traduttore dal tedesco).
(21) Dmitrij Šostakovic, nel 1962, scrisse la tredicesima sinfonia, per basso, coro e orchestra in la bemolle maggiore, dedicandola alle "vittime del nazismo di Baby Yar", la sinfonia utilizza cinque testi del poeta sovietico Evgenij Aleksandrovic Evtusenko. La sinfonia è meravigliosa, il ricordo delle vittime doveroso, peccato che quando la sinfonia venne eseguita la prima volta, sul palco principale ci fosse uno dei responsabili morali dell'eccidio, Krushev.
(22) Il Presidente Clinton visitò Baby Yar il 10 maggio 1945 e parlò, di fronte a una menorah, degli ebrei che i tedeschi avevano presumibilmente ucciso lì. Una totale menzogna. (Nota del traduttore dal tedesco).
(23) In realtà Elstner usa “Menschengruppe”, ovvero “gruppo umano”.
(24)  http://fpp.co.uk/bookchapters/WSC/WSCwrote1920.html
(25) Adam Weishaupt (1748-1811), tedesco, il 1° maggio del 1776, coll'aiuto di Adolph von Knigge, formò la società segreta che in seguito sarebbe divenuta l'Ordine degli Illuminati. All'interno dell'Ordine adottò il nome di "fratello Spartacus".
(26) Emma Goldman, ebrea, nacque a Kovno, in Russia, il 27 giugno 1869 ed emigrò negli U.S.A. nel 1885. Anarchica, pacifista, collaborò con Alexander Berkman nel movimento sindacale statunitense. Espulsa dagli U.S.A., dopo un processo, e deportata in Russia, sposò in seguito un gallese ed ottenne così la cittadinanza britannica. Fu presente in Spagna durante la Guerra civile. Morì a Toronto il 14 maggio del 1940.
(27) Letteralmente: “inferi” (“Unterwelt”).
(28) Il Karlspreis (Premio internazionale Carlomagno della città di Aachen) è uno dei premi europei più prestigiosi, assegnato ogni anno, dal 1950, dalla città tedesca di Aachen (cioè Aquisgrana, nella Renania settentrionale). Il premio è intitolato a Carlomagno, che risiedette ed è sepolto in quella città. I vincitori lo ricevono il giorno dell'Ascensione e la cerimonia si svolge in municipio. Winston Churchill lo ricevette nel 1956. Con questa frase Elstner allude al fatto che nella “libera e democratica” Germania sono oggi in vigore molti tabù, in particolare nel campo politico e in quello storico. Perfino citare delle frasi di Churchill del 1920 può condurre una persona in galera per “aver incitato all’odio contro un altro gruppo (razziale)”, vale a dire gli ebrei. La veridicità della dichiarazione non è sufficiente per la difesa. (Nota del traduttore dal tedesco).
(29) Samuel Johnson (Lichfield, Inghilterra, 18 settembre 1709 - Londra, 13 dicembre 1784), letterato inglese di grande importanza. Fu poeta, saggista, biografo, lessicografo, ma soprattutto critico letterario.
(30) Ignatz Bubis è stato presidente dell’influente del “Juden Zentralrat”in Germania dal 1992 al 1999. In questo ruolo ha diretto molte campagne contro l’antisemitismo. Trasferitosi dopo la guerra a Francoforte sul Meno si è dedicato al commercio degli immobili ed è diventato un importante esponente della comunità ebraica della città. Nella commedia "Der Müll, der Tod und die Stadt ", il regista tedesco Rainer Werner Fassbinder allude ad "un ebreo ricco" che ha approfittato del suo status per la speculazione immobiliare e scopi politici. Molti hanno considerare questa descrizione come un attacco a Bubis. Per reazione, Bubis ed altri membri della Comunità ebrea di Francoforte hanno occupato il teatro di Schaubühne, impedendo la rappresentazione dell’opera. E’ sepolto per sua volontà in Israele.

 
   
 

Adolf Wissel
di Harm Wulf

Nasce il 19 aprile 1894 a Velber presso Hannover da una famiglia contadina, figlio più giovane di tre fratelli dell’agricoltore Heinrich Wissel. Gli altri due fratelli sono Heinrich (1890 – 1945), che erediterà la fattoria paterna proseguendo l’attività, e Kuno (1891 – 1919), morto a soli 28 anni per le conseguenze di ferite di guerra.
Dopo la Grundschule a Velber, Adolf inizia i suoi studi presso la scuola d’arti decorative (Kunstgewerbeschule) di Hannover, dove segue i corsi dal 1911 al 1914. Nel 1916 parte soldato per il fronte della prima Guerra mondiale. Termina la sua formazione dal 1922 al 1924 all’Accademia d’Arte di Kassel con il pittore Curt Witte. Il suo sviluppo artistico è influenzato anche da Carl Bantzer, che è il direttore dell’Accademia negli anni in cui Adolf inizia i suoi studi.
Dal 1924 non lascerà mai più la sua città natale. Dipinge svariate opere dedicate alla vita dei contadini (ritratti, figure, gruppi) e rappresenta la vita rurale della Bassa Sassonia in uno spirito vicino a quello völkisch. Subisce anche l’influsso della Neue Sachlichkeit. Esegue i ritratti di Wilhelm Raabe e di Alexander von Humboldt per le scuole omonime. Realizza anche dipinti murali per la Landesbank, per il municipio e l’ufficio del ministero della cultura della Bassa Sassonia nella città di Hannover. Il 1 aprile 1933 riceve il premio Tramm della città di Hannover ed il 1 aprile dello stesso anno entra nel NSDAP. Nel 1934 si sposa con Ella, una ragazza di Cussebode, vicino alla fattoria del fratello, dove Adolf organizza il suo atelier. E’ presente con 21 opere alla Grosse Deutsche Kunstausstellung dal 1937 al 1944, che per la maggior parte rappresentano la vita del popolo e ritratti di contadini: Jungbäuerinnen e Bauerngruppe nel 1937, Bäuerin, Bildnis e Häkelndes Bauernmädchen nel 1938, Kalenberger Bauernfamilie nel 1939, Alter Bauer, Bildnis, Landschaft mit Kühen e Feldarbeit nel 1940, Heuernte, Damenbildnis, Jungmädel e Mädchenbildnis nel 1941, Dr. Arthur Menge, Ernte e Bildnis nel 1942, Kalenberger Bauernmädchen, Bäuerin e Bauer nel 1943. Delle 21 opere se ne sono salvate 13, di cui 11 oggi di proprietà di privati (7 a Hannover, 2 nello Schleswig-Holstein e 2 in Baviera). Le uniche due visibili e di proprietà pubblica sono il ritratto del Dr. Arthur Menge nel Municipio nuovo di Hannover e Kalenberger Bauernfamilie nel deposito dell’Oberfinanzdirektion a Monaco.

Hitler acquista nel 1938 il suo quadro Bäuerin per la somma di 6.000 Reichmarks e nel 1939 Kalenberger Bauernfamilie. Molti dei suoi lavori, tra cui il famoso Bauerngruppe, vengono anche acquistati dal 1937 dal ministro per l’agricoltura Walther Richard Darré. Il quadro Bauerngruppe, iniziato nell’estate del 1934 e terminato nel 1935, rappresenta la cerchia familiare dell’artista: sua moglie Ella Wissel (originaria del villaggio di Cussebode nel Wendland in cui fu realizzata l’opera) è vicina al padre a destra e guarda l’osservatore, sulla sinistra un vicino con il figlio. Il 30 gennaio 1938 riceve da Adolf Hitler il titolo di professore. Sempre nel 1938 partecipa alla Biennale di Venezia. Nello stesso anno il suo Bäuerin appare il primo agosto nella copertina della rivista nazionalsocialista Frauen Warte. Nel 1941 esegue il ritratto del Dr. Arthur Menge sindaco di Hannover dal 1925 al 1937. Nel 1943 nell’ambito degli scambi culturali italo tedeschi prende parte alla mostra Menschen und Landschaften Niedersachsens organizzata nella città di Cremona dall’Ente autonomo manifestazioni artistiche che pubblica anche il catalogo Uomini e paesaggi della Bassa Sassonia. Esposizione d’opere d’arte di artisti germanici - Cremona dal 6 al 20 giugno del 1943. Dopo il suo rientro in Germania, tutti i quadri dell’esposizione e le sue opere Bauerngruppe e Heuernte finiranno distrutti in un bombardamento aereo dell’ottobre 1943. Dal 1944, come altri 130 pittori, scultori e grafici fa parte del Künstler im Kriegseinsatz. Dopo la fine della guerra non subisce un particolare ostracismo forse per la natura rurale di gran parte della sua produzione. Lavora come ritrattista e nel l951 la Humboldtschule organizza una grande mostra retrospettiva. La stampa regionale ne festeggia il 65°, 70° e 75° compleanno come artista che ha dipinto i paesaggi della terra natale. Adolf Wissel muore a Velber il 17 novembre 1973. Nell’anniversario della nascita l’anno seguente viene organizzata una mostra commemorativa delle sue opere presso l’Historichen Museum di Hannover.
Per una visione completa dell’opera dell’artista, purtroppo riprodotta in bianco e nero, vedi il libro di Ingeborg Bloth Adolf Wissel. Malerei und Kunstpolitik im Nationalsozialismus, Gebr. Mann Verlag, Berlin, 1994, ISBN 3-7861-1740-3


Copertina - Kalenberger Bauernfamilie, 1938


Bauerngruppe, 1935 - Kalenberger Bauernmädchen, 1943


Selbstbildnis, 1930 - Bildhauer August Waterbeck, 1932


Jungmädel, 1941 - Kalenberger Bauernmädchen, 1937


Bäuerin, 1938

 
   
 

Napoli '44

“Entrato a Napoli nel 1943 con la Quinta Armata, il giovane ufficiale inglese Norman Lewis si trovò stupefatto al centro della città delle signorine e degli sciuscià, scena mobile della prostituzione universale, oltre che di un’arte consumata dell’inventarsi la vita dal nulla. Come non bastasse, fu subito adibito a funzioni di polizia, quindi costretto a constatare ogni giorno le turbolenze, i fantasiosi maneggi e gli imbrogli che si celavano tra vicoli e marina. E capì subito che, di quanto gli accadeva, era il caso di prendere nota. Così, facendo della sua qualità principale, il “saper entrare e uscire da una stanza senza che nessuno se ne accorga”, un fatto di stile, Lewis si aggira in una Napoli trasformata dalla guerra in un immenso, miserabile mercato nero – e registra tutto sui suoi taccuini. Mentre i colleghi si dedicano alla maldestra realizzazione di piani fantasiosi, come quello di far passare le linee ad un gruppo di prostitute sifilitiche per diffondere l’epidemia nel Nord occupato, lui indaga su figure e avvenimenti che gli paiono, al momento del tutto normali: signore in cappello piumato che mungono capre fra le macerie, statue di santi preposti da una folla in deliquio a fermare l’eruzione del Vesuvio, professionisti in miseria che sopravvivono impersonando ai funerali un aristocratico e imprescindibile “zio di Roma”, ginecologi deformi specializzati nel restauro della verginità, nunzi apostolici che contrabbandano pneumatici rubati, e così via. I taccuini che Lewis tenne in quel periodo finirono poi per costituire questo libro, di cui il minimo che si può dire è che mai un occhio tanto sobrio e preciso si era posato su una realtà così naturalmente folle e sgangherata. E questo ne fa “un’esperienza unica per il lettore così come deve esserle stata un’esperienza unica per chi lo ha scritto”.

Questa la breve nota editoriale che presenta un'opera assolutamente consigliata a quanti hanno creduto o credono alla ormai consunta retorica della “liberazione”. Per anni i mass-media, scuola, università, opinionisti allineati hanno spacciato la sconfitta militare e l’occupazione straniera come un trionfo del popolo sulla dittatura. Con uno zelo degno di miglior causa, in buona o malafede imbonitori d’ogni risma ci hanno propinato lo schema che si ripete infinitamente: gli americani che rappresentano il bene, un nemico sempre demoniaco da distruggere senza pietà o scrupoli, mille scuse e pretesti per giustificare invasioni, bombardamenti etici, embarghi terapeutici, torture orribili, soppressione dei diritti più elementari ma sempre, ovviamente, per il trionfo della giustizia. Ogni tanto alla rigida cappa del controllo mediatico sfugge qualche scheggia. Napoli ’44, presentato come un romanzo ed uscito nel 1978 ci mostra il lato oscuro di un paese occupato ed incapace di difendersi che si vende ai vincitori anima e corpo. Con una forza evocativa pari e forse superiore a quella de La pelle di Curzio Malaparte i taccuini di Lewis sono anche un efficace documento storico. La testimonianza assolutamente oggettiva ed attendibile, visto il ruolo rivestito dall’autore, di quello che può succedere ad una Nazione che perde il bene più prezioso: la propria sovranità.

Norman Lewis, Napoli ‘44, Edizioni Adelphi, Milano 1993.

Harm Wulf

Alcuni passi dal libro:

28 settembre 1943
Ricoverato al 16° Evacutation Hospital americano di Paestum con la malaria – forse una ricaduta, ma più probabilmente una nuova infezione. Il dottore mi ha informato che gli acquitrini della zona sono ancora malarici, e le zanzare, che si ritiene abbiano falcidiato la fiorente colonia greca dell’antichità, attive come sempre. La maggior parte dei pazienti ha ferite da combattimento, e da molti di loro ho avuto conferma della storia che avevo trovato davvero incredibile, e cioè che alle unità combattenti americane gli ufficiali hanno dato ordine di colpire a morte i tedeschi che tentino di arrendersi. Pag. 27.

4 ottobre 1943
Qualche chilometro prima di Napoli città, la strada si allarga in una specie di piazza, dominata da un vasto edificio pubblico semiabbandonato, ricoperto di manifesti e con i vetri delle finestre infranti. Qui si erano fermati molti camion, e anche il nostro conducente si è portato sul bordo della strada e ha tirato il freno. Uno dei camion trasportava approvvigionamenti dell’esercito americano e i soldati, immediatamente raggiunti da molti di quelli che viaggiavano sul nostro camion, gli si affollavano intorno, cercando di arraffare tutto quello su cui riuscivano a mettere le mani. Quindi reggendo ciascuno una scatola con la razione, si riversavano all’interno del municipio, facendo scricchiolare i vetri di cui era cosparso il pavimento. Li ho seguiti, ritrovandomi in uno stanzone in cui si accalcava una soldataglia tumultuante. Quelli che stavano in fondo spintonavano per avanzare, incitando sguaiatamente gli altri; ma se si raggiungeva il fronte della folla, l’atmosfera si faceva più calma e assorta. Le signore sedevano in fila, a intervalli di circa un metro l’una dall’altra, con la schiena appoggiata al muro. Vestite con abiti di tutti i giorni, queste donne avevano facce comuni, pulite e perbene di massaie, di popolane che vedi in giro a spettegolare o a fare la spesa. Di fianco a ognuna era appoggiata una fila di scatolette, ed era evidente subito che aggiungendone un’altra si poteva far l’amore con una qualsiasi di loro, lì, davanti a tutti. Le donne rimanevano assolutamente immobili, in silenzio, e i loro volti erano privi d’espressione, come scolpiti. Potevano star vendendo pesce, non fosse che a quel luogo mancava l’animazione di un mercato del pesce. Non un incoraggiamento, non un ammicco, niente di provocante, neppure la più discreta e casuale esibizione di nudità. I più animosi, con le scatolette in mano, si erano fatti avanti, fino alla prima fila, ma ora, di fronte a quelle madri di famiglia, donne coi piedi per terra spinte fin lì dalle dispense vuote, sembravano esitare. Pag. 32.

5 aprile 1944
Nell’ultimo bollettino del Bureau of Psychological Warfare si dice che a Napoli quarantaduemila donne esercitano, occasionalmente o con regolarità, la prostituzione. Questo su una popolazione femminile nubile che si aggira intorno a centoquarantamila. Pare incredibile. Pag 137.

28 maggio 1944
Nuove brutalità delle truppe coloniali francesi. Ogni volta che prendono una città o un paese, ne segue lo stupro indiscriminato della popolazione. Di recente tutte le donne di Patrica, Pofi, Isoletta, Supino e Morolo sono state violentate. A Lesola, caduta in mano degli Alleati il 21 maggio, hanno stuprato cinquanta donne, e siccome non ce n’erano abbastanza per tutti hanno violentato anche i bambini, e persino i vecchi. Stando a quanto viene riferito, i marocchini di solito aggrediscono le donne in due – uno ha un rapporto normale, mentre l’altro la sodomizza. In molti casi le vittime hanno subito gravi lesioni ai genitali, al retto e all’utero. A Castro dei Volsci i medici hanno curato trecento vittime di stupro, e a Ceccano gli inglesi, per proteggere le donne italiane, sono stati costretti a creare un campo sorvegliato da guardie armate. Molti di questi nordafricani hanno disertato e stanno attaccando paesi a grande distanza dalle linee. Dagli ultimi rapporti risulta che si sono fatti vivi nelle vicinanze di Afragola, aggiungendo un terrore nuovo a quello già causato dalle innumerevoli scorrerie di saccheggiatori. Oggi sono andato a trovare una ragazza di Santa Maria a Vico che si diceva fosse impazzita dopo la violenza subita da parte di una numerosa banda di nordafricani. Vive sola con la madre (anch’essa ripetutamente violentata), e in totale miseria. Le sue condizioni erano migliorate, e si comportava in modo assennato, con molta grazia, anche se non poteva camminare per via delle lesioni subite. Carabinieri e Polizia dicono che secondo i medici è pazza, e che se ci fosse stato un letto disponibile l’avrebbero ricoverata in manicomio. Sarà molto difficile, a questo punto, che possa mai trovare marito. Ci si trova di fronte alla sanguinosa realtà di quello stesso orrore che spingeva l’intera popolazione femminile dei paesi della Macedonia a gettarsi dai dirupi piuttosto che cadere in mano degli invasori turchi. Un destino peggiore della morte: in effetti era proprio questo. Pag. 172.

13 agosto 1944
Oggi si è presentata in ufficio una ragazzina sudicia e lacera, che ha detto chiamarsi Giuseppina. Questa dodicenne dall’aria molto sveglia non ha voluto dirmi di sé altro che l’età, che i suoi genitori erano stati uccisi nel grande bombardamento e che vive “sotto una casa” lungo il fiume. Ci sono centinaia di maschietti nelle sue condizioni, orfani scalzi, laceri e affamati, che in un modo o nell’altro tirano avanti, e riempiono i vicoli con le loro risate, ma Giuseppina è stata la prima bambina abbandonata che io abbia visto. Mi ha detto di essere venuta per la coperta, come al solito. Non sapevo cosa risponderle. Le coperte, in questa Italia in rovina, sono una forma di valuta, e piuttosto pregiata, se si considera che il prezzo di un buon articolo australiano o canadese equivale alla paga settimanale di un operaio. Le ho detto che non avevo coperte da darle, e ho proposto un pacco di biscotti, che lei ha rifiutato con garbo. “Non è più il posto di Polizia?” mi ha chiesto. Le ho risposto di si, che lo era, e lei mi ha detto che l’uomo di prima – chiaramente il mio predecessore canadese – le dava una coperta una volta alla settimana. Solo allora ho capito il tragico significato delle richiesta, e che quella creaturina ancora acerba, tutta pelle e ossa era una prostituta-bambina. Pag 195.

23 settembre 1943
…Comunque, accantonando ogni questione sui miei errori personali, sono arrivato alla conclusione che, in cuor suo, questa gente non deve poterne proprio più di noi. Un anno fa li abbiamo liberati dal Mostro Fascista, e loro sono ancora lì, a fare del loro meglio per sorriderci educatamente, affamati come sempre, più che mai fiaccati dalle malattie, circondati dalle macerie delle loro meravigliose città, dove l’ordine costituito non esiste più. E alla fine cosa ci guadagneranno? La rinascita della democrazia. La fulgida prospettiva di poter un giorno scegliere i propri governanti in una lista di potenti, la cui corruzione, nella maggior parte dei casi, è notoria, e accettata con stanca rassegnazione. In confronto, i giorni di Benito Mussolini devono sembrare un paradiso perduto. Pag. 222.

 
   
 

Gino Boccasile

La prima opera completa sui manifesti di propaganda della Repubblica Sociale Italiana 1943 - 1945 Testi e biografie in italiano, francese, tedesco e inglese. Opera completa di Gino Boccasile e Dante Coscia con biografie.  Ernesto Zucconi "Repubblica Sociale. I manifesti" Novantico editrice - Ritter, 2002, paginre 205 a colori, costo 45,00 Euro Richiedere a: Ritter Casela Postale 17191 - 20170 Milano Tel. 02 201310 www.ritteredizioni.com NovAntico Casella Postale 28 - 10064 Pinerolo Tel. 0121 74417 www.novantico.com


Furio Arrasich "Boccasile. Catalogo delle cartoline" Edizioni La Cartolina, 1993, Roma, 15,00 euro reperibile presso: Vaccari srl Via M. Buonarroti 46 41058 Vignola (MO) Telefono 059 771251 E-mail: info@vaccari.it

Boccasile politico militare
Boccasile pubblicitaria
Boccasile Erotica (V.M. 14 anni)
Copertine su "Avanguardia" (Tutte lle copertine di Gino Boccasile apparse sulla rivista settimanale delle SS italiane "Avanguardia europea".)

Boccasile su "Avanguardia"
Boccasile - Rivista SS italiane "Avanguardia"

Selezione dei disegni di Gino Boccasile apparsi sulla rivista settimanale delle SS italiane "Avanguardia europea" che dal secondo numero si chiamerà semplicemente "Avanguardia". Il primo numero del settimanale il 16 marzo 1944 e terminò col numero 16 del 21 aprile 1945. La direzione e l'amministrazione della rivista era in Viale Monte Santo 3 a Milano. Gino Boccasile, ufficiale delle SS italiane, collaborò con disegni, illustrazioni, vignette e la rubrica fissa "L'angolo di Boccasile" fino all'ultimo numero. L'immagine 20 (Boav20.jpg), l'unica umoristica della serie, è un reperto storico: si tratta dell'ultimo lavoro di Boccasile (pubblicato nel numero 16 dell'anno 1945) da "Avanguardia".

Editoriale del primo numero di Avanguardia di Felice Bellotti

Per la bandiera
Questo settimanale esce all’insegna della Nuova Europa. Senza equivoci, senza riserve, senza tentennamenti. L’Europa di domani per la quale ci battiamo è un’Europa che sia una comunità di popoli nella quale i più forti siano garanti dei diritti dei più deboli, i più ricchi i responsabili del benessere dei più poveri, mentre, a loro volta i più deboli e i più poveri collaborino con la loro lealtà e cono il loro lavoro al progresso morale, culturale e materiale del Continente. I ponti con il passato sono tutti bruciati. I barbari d’oltremare hanno dimostrato di avere in odio non già la sola cultura germanica, come volevano e vogliono pertinacemente dare da bere, ma tutta la civiltà europea. Questo perché i principi morali e sociali della vecchia ma immortale Europa, figlia di Roma, sono inconciliabili colle loro materialistiche dottrine, che si riassumono in una irrefrenabile smania di ricchezze, di dominio e di prepotenze. Italia, Belgio, Francia, Grecia, Norvegia, e non solamente la Germania, presentano colle loro città distrutte e con le centinaia di migliaia di vittime innocenti la documentazione di questa barbarica furia distruttrice. La criminale per quanto traballante alleanza tra le potenze anglosassoni e la Russia bolscevica ne offrono una riprova morale. L’America di Roosevelt per carpire all’Europa il dominio spirituale e morale del mondo non sa far di meglio che tentare di distruggerla. La spaventosa vacuità delle sue dottrine materialistiche non può pretendere che di trionfare sul nulla. E questo nulla cercano di realizzare i banditi dell’aria che distruggono e assassinano ad un tanto all’ora. Solo così la Casa Bianca potrà sperare di ereditare la millenaria gloria del Campidoglio e del Vaticano, la bolgia aurea della City e la cultura della Germania. Barbaro è questo nemico d’oltremare, barbaro nel senso più esatto della parola, cioè straniero alla nostra mentalità, alla nostra tradizione e alla nostra morale. Mai in nessun cervello italiano avrebbe potuto germogliare il satanico progetto di distruzione che hanno partorito, dopo una plurimillenaria quanto vile e viscida evoluzione, i cervelli giudaici che rintanati nelle loro auree casseforti guidano incoscienti sicari sulle vie della loro ignobile quanto impossibile rivincita. Ma l’Italia sola non può resistere all’urto, il popolo italiano è impotente a sostenere la violenza di tanta satanica e criminale pressione . Unicamente in un’Europa unita, solidale, nella quale gli odi e i rancori, tanto atavici quanto inutili e dannosi, siano definitivamente sepolti, la nostra Patria può trovare la sua possibilità di vita, di pace e di benessere. L’inutile e disonorante tradimento di un indegno re e di un avido fellone ha spezzata l’alleanza militare dell’Asse, gettando nel fango della suprema onta mille gloriose bandiere e milioni di prodi soldati. Un immeritato ed ingiusto disprezzo grava sul nostro popolo e sul nostro nome e Dio ci perdoni se osiamo dire a viso aperto che questo disprezzo è legittimo. Lo scherno irride alle nostre aquile prostrate dal tradimento. Mai nessun popolo, nella storia del mondo, ha perduto tanto in una sola volta. Ma l’invisibile vincolo ideale che unisce i popoli di Italia e di Germania, dal quale è nato l’Asse e per il quale aspramente si lotta in tutto il globo, vive, ancora, più che vivere trionfa. La nostra rivoluzione sociale continua, trionfa nei paesi “democratici” dove gli esosi plutocrati sono costretti a patteggiare col proletariato, promettendo molto di più di quanto intendano poi mantenere, trionfa perfino nella bolgia bolscevica, dove mirabolanti decreti tendono a far rispuntare il pelo sui purulenti eczemi che infettano l’orso russo. Trionfa, l’idea non possono perdere gli eserciti. Dio ha posto ai nostri confini il popolo tedesco. Per un avvenire di pace e di benessere, perché ogni vent’anni la gioventù non vada a farsi macellare sui campi di battaglia e la Nazione non sia trascinata nella rovina, occorre che italiani e tedeschi davano d’accordo. Noi siamo ancora in tempo per generare, unitamente ai nostri alleati germanici, la nuova Europa. Essi ci onorano oggi consegnandoci di nuovo quelle armi che il tradimento ci aveva strappato di mano. Se sapremo farne uso, se sui campi di battaglia noi dimostreremo che quella di Badoglio è stata un’aberrazione di pochi e non la vigliaccheria dei più, allora l’Italia potrà ancora rientrare a testa alta nel consesso delle Nazioni europee. Ma perché tutto questo si avveri, occorre sapere scrollare l’onta. La capacità di lotta si misura dalla capacità di sofferenza. Bisogna quindi affrontare sacrifici materiali e morali immensi, bisogna accettare l’umiliazione ed espiare. Occorre per prima cosa che gli italiani la smettano di uccidersi tra loro mentre gli eserciti di tutte le nazionalità si battono sul territorio nazionale. E’ ben triste lo spettacolo di questo popolo che si dice intelligente e che continua ad insozzarsi di vergogna e del disprezzo di tutto il mondo in un inutile, ridicola lotta per il dominio di una Patria che, di fatto, è in mano allo straniero, alleato o nemico che sia. E’ grottesco che siano dei “ribelli” alla macchia che vivono di rapine o di saccheggio o – peggio ancora – di mendicità verso lo straniero o verso gli ereditari nemici del proletariato, credendo con un “eroismo” da romanzo d’appendice di mascherare la loro sostanziale vigliaccheria. Per gli uomini di coraggio c’è posto al fronte non nei nascondigli delle valli alpine. Per gli uomini di coraggio, quali che siano le loro idee, l’azione è una sola: combattere a viso aperto. Combattere per scacciare un nemico che è sbarcato nella nostra Patria non già per forza o per valore , ma unicamente per frode, combattere per dimostrare ai nostri alleati che le prime vittime del tradimento di Badoglio siamo noi, popolo italiano, e per dimostrare al mondo che gli italiani non si meritano il disprezzo che li circonda oggi. Solo così, con lealtà ed onore, noi potremo risalire la corrente e fare in modo che i nostri figli non abbiano a vergognarsi di essere italiani. Non è degno di vivere in libera nazione un popolo che non abbia dignità, un popolo che non sappia combattere e morire in difesa della terra, della famiglia, della Fede, della casa e delle donne. Tutte cose che, fuse insieme, costituiscono la Patria. Il destino di un popolo è sempre stato nelle mani dei suoi soldati. Il popolo italiano deve collaborare con la Germania per la creazione di una Nuova Europa, deve collaborare coi nostri alleati romeni, finlandesi, slovacchi, ungheresi, bulgari, con quelle correnti francesi, belghe, danesi, norvegesi ed olandesi che vivono per il nostro stesso ideale, con gli spagnoli ricattati, con quei pochi svizzeri e svedesi che non si sono lasciati incantare dagli specchietti o dall’oro anglosassone. Questo affinché a tutto il Continente sia assicurato un avvenire di libertà, d’onore, di benessere e di pace. Nel nostro caso collaborare è sinonimo di combattere. Combattere colla forza della disperazione per inghiottire il groppo che da troppi mesi ci stringe la gola, per potere alzare di nuovo gli occhi in faccia al mondo, per la bandiera!

Selezione dei disegni di Gino Boccasile apparsi sulla rivista settimanale delle SS italiane "Avanguardia europea"

 

La matita eretica di Gino Boccasile
di Harm Wulf

Gino Boccasile era nato nel centro di Bari, in via Quintino Sella, il 14 luglio 1901. La famiglia Boccasile era composta da Angelantonio Boccasile rappresentante di profumi e dalla moglie Antonia Ficarella. La prima giovinezza dell’artista fu segnata da un terribile episodio, la perdita di un occhio: Gino era andato a giocare con gli amici in un cantiere edile e una goccia di calce viva lo colpì nell’occhio sinistro, mentre stava bevendo ad una fontanella. Dopo aver manifestato una precoce attitudine per il disegno terminò gli studi presso la scuola d'Arti e Mestieri nella città natale. Alla morte del padre, anche per evitare di pesare sulla madre, decise di lasciare Bari e si trasferì a Milano. Dopo qualche difficoltà iniziale la sua abilità grafica lo aiuta ad essere assunto nello studio grafico Mauzan-Morzenti, dove inizia a disegnare anche figurini e modelli d’abiti da donna. Subito impone il suo stile personalissimo: le vetrine che espongono i suoi lavori sono affollate dalle signore che ne decretano successo e notorietà. "La Gazzetta del Mezzogiorno" in una nota del 13 giugno 1929, del corrispondente milanese, faceva conoscere ai baresi quanto fosse diventato famoso il loro concittadino, impostosi nel campo della moda. Fra l'altro diceva: “...ora la tecnica e la moda impongono i grandi cartoni disegnati e coloriti da maestri, così pieni di movimento, che il pubblico si sofferma a guardarli con visibile compiacimento. In quest’arte che si dice difficile per la misura e il tono, a Milano, ha conquistato il primo posto, il pittore barese Boccasile, ormai arbitro delle eleganze figuriste della capitale della Lombardia”. Dopo l'articolo apparso su "La Gazzetta" gli organizzatori della prima Fiera del Levante del 1930 gli commissionarono una serie di cartoline per commemorare l’avvenimento. Ora Boccasile è abbastanza conosciuto e può contare su un largo pubblico d’ammiratori. I suoi disegni sono riprodotti su numerose riviste specializzate “Sovrana”, "l'Illustrazione", "Fantasie d'Italia", dettando legge nei gusti delle donne, ma anche illustrando nelle stesse, novelle e racconti. Rispetto alla vita grama degli inizi milanesi le cose andavano meglio, ma i suoi obiettivi erano altri. Per richiesta di Achille Mauzan che si era trasferito e che rimarrà in sud America per molti anni, decide di partire per l'Argentina, ma il soggiorno a Buenos Aires dura poco. Gino Boccasile, Gi Bi come si firmava e come lo chiamavano gli amici, aveva conosciuto la sua futura sposa, Alma Corsi, che gli avrebbe dato 2 figli: Bruna e Giorgio. Subito dopo il rientro a Milano, riparte per Parigi. Qui realizza alcune eccellenti copertine della rivista "Paris Tabou” e gli viene dedicata una personale. Espone anche un paio di quadri al Salon des Indèpendants nel 1932. Anche il soggiorno nella capitale francese dura poco. Rientrato a Milano, costituisce con l'amico Franco Aloi, un’agenzia di pubblicità, la "Acta" in Galleria del Corso, dando finalmente sfogo alla sua vena creativa, quell'incredibile potenziale comunicativo di cui era dotato e che non avrebbe avuto pari. La genialità del suo tratto, delle sue immagini, riuscivano ad attrarre il frettoloso passante e a comunicargli in un attimo il messaggio per cui erano state create. Una comunicazione visiva di pronta presa con i personaggi che, ancora oggi, sembrano balzare, esplodere dal manifesto. Forte di queste innate qualità e della dura gavetta fatta, inizia l’attività di grafico ed illustratore collaborando con i periodici La Donna (1932), Dea e La Lettura (1934), Bertoldo (1936), Il Milione (1938), L'Illustrazione del Medico (1939), Ecco, Settebello e Il Dramma (1939) e disegnando molte copertine di libri per gli editori Mondatori e Rizzoli. Per l’editore Mondatori illustra svariati volumi della serie Romanzi della Palma e realizza le copertine dei Romanzi di Cappa e Spada. Adesso è affermato illustratore, caricaturista, e cartellonista pubblicitario autodidatta ma la popolarità arriva con la Signorina Grandi Firme. La ragazza che apparve sulle copertine dai toni rosa pastello della rivista Le Grandi Firme, periodico letterario fondato e diretto da Pitigrilli (Dino Segre) e trasformato in rotocalco settimanale da Cesare Zavattini (all'epoca direttore editoriale della Mondadori) dopo la vendita della testata ad Arnoldo Mondadori. Tra i collaboratori vi è Rino Albertarelli, il quale chiese all'amico Gibì di realizzare un bozzetto per la copertina della nuova rivista. Zavattini appena visionata la creatura di Boccasile, si rende conto di aver trovato quello che cercava. Dall'aprile 1937 al settembre 1938 (quando la testata fu soppressa dal governo) il successo fu davvero notevole, la Signorina Grandi Firme entrò nel patrimonio culturale comune degli italiani (l'omonima canzone ed un concorso la renderanno ancora più popolare); il disegnatore riuscirà a disegnarne anche qualche breve striscia umoristica prima della forzata interruzione. Le donne disegnate da Boccasile avevano delle caratteristiche abbastanza precise. Cosce tornite erano sostenute da esilissime caviglie. Glutei perfetti e giunonici coronavano vitini di vespa piccolissimi: le caratteristiche forme che colpiscono le “valvole mascoline” come lui stesso definiva gli impulsi erotici. Antonio Faeti le descrive così: “Le sue donne escono dagli inibenti confini di raso, della seta, delle lane di cui sono fasciate, poiché sembrano letteralmente in procinto di far esplodere le superfici tese e lucenti sotto cui s’indovina una carne prepotente e soda, compatta e tersa come il marmo di una statua”. Le sue modelle venivano dalla strada: l’artista le incontrava in tram o in piscina a Milano. In un’intervista Boccasile affermava: "…a proposito delle mie copertine, molti si domandano dove trovo modelle con così belle gambe, ho già detto che considero le gambe come la cosa più importante nella donna, per me il corpo femminile non è altro che il resto delle gambe.”. A proposito della sua passione per il gentil sesso, nell’articolo “Io e le donne” apparso su Le Grandi Firme del 1 luglio 1937 affermava: “Sono un pittore ottimista, perché vedo la vita dal suo lato più suggestivo: le belle donne…Nulla è più eloquente di un paio di belle gambe.”. Disegna, oltre alle copertine di "Le Grandi Firme", manifesti pubblicitari e cartoline per l'agricoltura, la tutela del risparmio, il lavoro, le associazioni combattentistiche con persone di fattezze forti, gioiose e vigorose tipiche del suo stile. Siamo ancora nel periodo pacifico delle grandi riforme agrarie, delle imponenti bonifiche e della volontà del regime di raggiungere l'autosufficienza alimentare: i committenti sono le Compagnie Assicuratrici contro il pericolo di grandine e incendio, le Casse rurali, le associazioni agricole. Sicuramente Boccasile in questo tipo di lavori ha da parte dei committenti meno libertà d’espressione che in quelli pubblicitari ma anche in questi lavori lascia il segno. Con lo scoppio del conflitto, complice il Ministero della Guerra che lo designa grafico propagandista, la sua opera si orienta verso la propaganda bellica: tocca a Gino Boccasile disegnare i nostri combattenti, le nostre armi, le gesta dei soldati. Dalle esaltanti vittorie iniziali alle prime dure sconfitte: il duca D'Aosta, seppure con l'onore delle armi, deve porre fine all’eroica resistenza all'Amba Alagi, e Boccasile gli dedica il manifesto "Ritorneremo". Siamo nel 1942, le truppe italo-tedesche sono in marcia verso Mosca. Viene pubblicata una serie di dodici cartoline a firma Boccasile che descrivono le atrocità dei bolscevichi e le sofferenze del popolo russo oppresso dal regime comunista: sono le cartoline più crude dell’intera produzione di Boccasile. A Milano, dopo l'8 settembre, Boccasile non esita: aderisce alla Repubblica Sociale Italiana ed ottiene un incarico presso l'ufficio propaganda. Viene nominato tenente delle SS italiane e continua incessantemente a produrre manifesti in uno studio protetto da militi armati. L’odio cresce e la guerra civile divampa: Boccasile non ammorbidisce le sue posizioni politiche ma anzi le radicalizza. I suoi manifesti parlano da soli: nessuna pietà per traditori e ribelli, resistenza armata all’invasore anglo-americano unico mezzo per riscattare l’onore dell’Italia infangato dal tradimento. Sembra che sia lo stesso Mussolini a volerlo al suo fianco negli anni della Repubblica Sociale Italiana. In questo periodo i suoi manifesti divennero celebri icone per l’Italia che non si era arresa e continuava a combattere. Si racconta che il grande disegnatore abbia lavorato fino all'ultimo, con i militi della SS italiana che facevano la guardia intorno alla stanza in cui elaborava i suoi progetti. Il ruolo di grafico della propaganda bellica e politica ed il grado di ufficiale delle SS gli costeranno alla fine della guerra un processo. Viene arrestato, incarcerato e processato per collaborazionismo subendo, in seguito, l'epurazione e una sorta d’esilio editoriale. Assolto per non aver commesso reati, resta emarginato per alcuni anni, molti potenziali clienti hanno paura della sua firma. Riprende la sua attività dal 1946 soprattutto con la grafica pubblicitaria cambiando leggermente stile. Disegna alcune cartoline per il nuovo MSI e per associazioni degli ex combattenti ma anche disegni erotici molto espliciti per un editore inglese e per l’editore francese Lisieux per il quale illustra “Teofilo il satiro”. Anche dopo il Fascismo, Gino Boccasile disegnò l'Italia: fu sempre lui, dopo aver avviato una sua agenzia di grafica, ad invadere i muri delle città e delle campagne con le pubblicità di quei giorni. Dal Formaggino Mio alla lama Bolzano, dal Ramazzotti alle moto Bianchi, e poi ancora il dentifricio Chlorodont, le calzature Zenith, la “Riunione adriatica di Sicurtà”, lo Yogurth Yomo, i profumi Paglieri, lo shampoo Tricofilina, tutto era firmato Boccasile. Oltre alla produzione pubblicitaria (ebbe noie censorie a causa del manifesto della Profumi Paglieri con una ragazza a seno nudo coperto in seguito da un velo o da ghirlande), Boccasile disegnò per i settimanali Incanto, Paradiso e La Signorina Sette, dove ripropose le sue celebri bellezze femminili. Fra i suoi ultimi lavori sono da citare la bellissima conchiglia con rosa realizzata per il Maggio di Bari del 1951. Morì prematuramente a Milano il 10 maggio 1952 per un attacco di bronchite e pleurite, mentre stava illustrando Il Decamerone. Completato da tavole di Albertarelli, Bertoletti, De Gaspari e Molino il capolavoro di Boccaccio fu pubblicato dalle milanesi Edizioni d'Arte nel 1955. Della morte dell’artista si accorsero in pochi e molti addirittura si rallegrarono per quel lutto. Era uno straordinario artista del disegno ma anche un dannato che aveva scelto la parte sbagliata ed era rimasto fedele alle sue idee. Gino Boccasile merita di essere conosciuto perchè ha insegnato l'arte di comunicare col disegno e perchè i suoi manifesti hanno parlato meglio di molti scrittori del suo tempo. Tutta la vasta produzione grafica di guerra di Gino Boccasile si trova nel volume dedicato ai manifesti della Repubblica Sociale Italiana curato da Ernesto Zucconi (Ernesto Zucconi Repubblica Sociale. I Manifesti Novantico Editrice – Ritter 2002 rilegato, a colori, testi in italiano, francese, tedesco ed inglese, 208 pagine, formato 21 x 29,7 cm 45,00 €, edizione su cd-rom 20,00 €, richiedere alla libreria: La Bottega del Fantastico Via Plinio Caio Secondo 32, 20129 Milano Telefono: 02 201310) http://www.ritteredizioni.com/

Tutte le cartoline di Gino Boccasile con le quotazioni del mercato antiquario sono contenute in
Furio Arrasich Boccasile. Catalogo delle cartoline Ed. La Cartolina, 1993, 15,00 euro

Ordinabile presso: Vaccari srl - Via M. Buonarroti, 4641058 Vignola (Mo) Telefono 059.77.12.51 Fax (++39) 059.76.01.57 http://www.vaccari.it/home2.htm

Una rassegna dei lavori politici, pubblicitari ed erotici di Gino Boccasile è inserita nell’interessante sito www.thule-italia.com nella sezione dedicata all’arte http://www.thule-italia.com/arte.html

Bibliografia e raccolte grafiche:
Gino Boccasile La signorina Grandi Firme, Milano, 1981 (1937), Longanesi
Ernesto Zucconi Repubblica Sociale. I Manifesti Milano, 2002, Novantico Editrice-Ritter
Giuliano Vittori C’era una volta il Duce: il regime in cartolina Roma, 1975, Savelli
Roberto Guerri Manifesti italiani nella Seconda Guerra Mondiale Milano, 1982, Rusconi
Giovanni Boccaccio Il Decamerone Milano, 1955, Edizioni d’Arte con 101 tavole di Boccasile
D. Villani Storia del manifesto pubblicitario, 1964, Omnia, Milano
M. Gallo I manifesti nella storia del costume, 1972, Mondatori, Milano

 
   
 
Hermann Hendrich
di Harm Wulf

Hermann Hendrich: Leben und Werk di Elke Rohling

Copertina rigida, 104 pagine, numerose illustrazioni a colori e bianco e nero. Testo in tedesco ed inglese, Selbstverlag Werdandi, 2001. IBSN 3-00-008228-X

Questo bel libro è frutto dell’entusiasmo e della passione di una persona. Qualche anno fa, Elke Rohling ebbe l’idea di formare un’organizzazione no-profit per raccogliere e diffondere il lavoro artistico del pittore tedesco Hermann Hendrich e per preservare i suoi templi dell’arte totale per le generazioni future. Il risultato di questo impegno è stata l’associazione culturale Nibelungenhort che ha prodotto questo libro, un CD dallo stesso titolo e un grosso sforzo per diffondere l’opera di Hendrich. Insieme a Fidus, Franz Stassen, e Ludwig Fahrenkrog, Hermann Hendrich fece parte di quel gruppo di artisti e pittori che furono fortemente ispirati dall’idea wagneriana del Gesamtkunstwerk. Essi condivisero la passione per l’eredità germanica trasmessa dalle fiabe e dalle saghe dell’Edda che influenzò molti movimenti mistici, esoterici ed artistici del tempo. Persero parte a quella temperie culturale che, anche attraverso la pittura simbolista, la letteratura sull’idea della natura mistica, e i movimenti della riforma della vita, cercarono di ricreare un nuovo paganesimo alla fine del 1800. In contrasto con le precise linee Art Nouveau di Stassen, Hendrich scelse una tecnica più espressionista che seppe magistralmente rappresentare leggende e paesaggi impregnati di misticismo. Spesso le sue figure sfumano e divengono parte stessa del paesaggio nella sua inscindibile totalità. Il suo ritratto di Odino nella luce del tramonto degli Dei ci mostra un Dio solo, avvolto dalle tenebre, mentre i fuochi del Ragnarök brillano distanti. In contrasto con i piani grandiosi ma mai realizzati di Fidus e Fahrenkrog per la creazione di templi architettonici, Hendrich riuscì a realizzare le sue idee per dare alla sua arte una sede stabile e pubblica: il Nibelungenhalle di Königswinter e il Walpurgishalle di Thale sono i due esempi più conosciuti e famosi. Per aumentare la diffusione del libro il prezzo è, per un libro d’arte con molte illustrazioni a colori e bianco e nero, assai contenuto. I testi sono in tedesco ed inglese. Nel volume sono presenti in separati capitoli i progetti architettonici che coinvolsero l’artista, un’esaustiva carrellata sui suoi quadri più famosi, una biografia e bibliografia completa ed un autoritratto biografico scritto dallo stesso artista. Speriamo che la visione di questo libro spinga al Wandrelust verso i templi di Hendrich coloro che volessero rendere omaggio al suo eccezionale lavoro artistico. Alla fine del XVIII secolo e negli anni seguenti molti circoli artistici furono caratterizzati dall’egemonia di una visione puramente razionalista del mondo che comportava da un lato la rottura e la perdita dei valori religiosi e dall’altra una carenza nella comprensione integrale della realtà. La vita moderna con la sua crescente meccanizzazione, il rapido traformarsi dei valori e degli stili di vita, che si manifestavano anche con la diffusione di nuove concezioni metafisiche e religiose, segnavano dei profondi cambiamenti che erano particolarmente evidenti nell’arte e nella letteratura di quel periodo. Bernahard Juchmann descriveva così questa atmosfera nella sua introduzione del libro di presentazione del “Halle Deutscher Sagenring”: “ L’inquietudine e la frenesia della nostra epoca in cui le forze ferree della meccanizzazione distruggono molti luoghi dell’arte offriamo con le opere di Hendrich un eremo in cui le giovani generazioni possano dedicarsi alla riflessione e alla memoria nella contemplazione.”. Una delle reazioni a questo crescente senso d’incertezza, un senso di minaccia provocato dalle rapide trasformazion,i fu l’interesse per la mistica. Al cambio del secolo nel mondo dell’arte si manifestò una simultanea tendenza a ritornare ai temi del Romanticismo e specialmente alla ripresa dell’interesse per il sacro, il mito, le antiche saghe. In questo spirito si può comprendere il lavoro artistico di Hermann Hendrich. La sua opera è ispirata dal neoromanticismo e dal simbolismo che manifestò le sua vitalità alla fine del XIX secolo. I suoi dipinti sono spesso caratterizzati dallo sforzo costante di non rappresentare solo l’immagine oggettiva del soggetto ma anche la sua verità nascosta, esoterica che si rivela allo stesso artista attraverso il percorso contemplativo. Nonostante il considerevole successo raggiunto alla fine del secolo scorso Hermann Hendrich sembra esser stato completamente dimenticato dal mondo dell’arte tedesca contemporanea. Nella maggior parte delle enciclopedie dell’arte il suo nome non è nemmeno menzionato e, quando lo è, le informazioni riportate sono spesso incomplete o completamente errate. In aggiunta a ciò non è disponibile in commercio nessuna monografia sul suo lavoro. Solo in pochissime pubblicazioni vengono mostrati i suoi dipinti: una selezione degli artisti della regione tedesca dello Harz o lo splendido lavoro antologico dedicato al riscontro artistico dell’opera di Richard Wagner (J. Mota- M. Infesta “Das Werk Richard Wagners im Spiegel der Kunst” Grabert Verlag 1995 grabert.verlag@t-online.de ). Ma nessuna di queste pubblicazioni va oltre una presentazione generica. Oltre ai due famosi templi dell’arte il Nibelungenhalle di Königswinter e il Walpurgishalle di Thale in cui i suoi affascinanti dipinti sono accessibili al pubblico, solo una strada a Berlino (Heringer Strasse che porta alla Hendrichplatz) ed una targa sulla sua casa natale di Heringen ricordano il pittore. Conseguentemente a ciò, dalla sua morte,la ricca produzione artistica di Hendrich non ha avuto il meritato riconoscimento. Il lavoro non si esaurisce ai dipinti ad olio e agli acquarelli ma comprende i grandi dipinti per cui furono costruiti i templi testimonianze viventi della sua immensa passione per la mitologia germanica e per il Romanticismo. Questo libro è la prima monografia completa dedicata all’artista dalla sua morte nel 1931 e cerca di riportare su Hendrich l’attenzione del pubblico. Nonostante le accurate ricerche sulla vita e le opere di Hendrich molti aspetti rimangono sconosciuti. Un numero considerevole dei suoi dipinti fu distrutto durante l’ultima guerra; molti dei suoi dipinti giovanili furono esposti e venduti negli USA e non se ne conosce più la localizzazione. In indice completo delle opere mancanti non è stato compilato: nel testo abbiamo inserito un indice temporaneo e presumibilmente incompleto. Malgrado queste circostanze si sono elencate le opere principali ma anche la biografia resta incompleta. Gli uffici civili dei luoghi dove Hendrich ha vissuto spesso non hanno fornito informazioni utili e molti documenti sono stati distrutti dalla guerra. Anche in mancanza di dati concreti si è cercato di fare un lavoro biografico nella maniera più accurata possibile ma errori non possono essere esclusi. Per quanto riguarda i dipinti si è cercato di farne un elenco completo elencando anche gli schizzi da cui provengono. Hendrich faceva molti schizzi che spesso diventavano un quadro solo quando i disegni erano diventati popolari sulle riviste o nelle esposizioni. La sua ossessione per la pittura ci è mostrata dal fatto che spesso egli usava la tela nei due lati specie quando l’ispirazione lo portava a rappresentarsi una variazione del soggetto che stava dipingendo. Molte informazioni di questo libro sono state fornite da persone che hanno conosciuto personalmente Hendrich. L’uso di queste fonti ha comportato il problema che molte di queste fonti erano in rapporti di stretta amicizia con l’artista o erano ferventi ammiratori dell’opera di Richard Wagner come lo era lo stesso Hendrich. Spesso essi trovavano nei lavori di Hendrich il riflesso di uno stato ideale dell’essere e così il loro giudizio perdeva di oggettività. L’idea di questo libro su Hendrich è nata dal desiderio di avere e fornire ad altri maggiori informazioni sull’artista dopo la visita dei famosi templi dell’arte il Nibelungenhalle di Königswinter e il Walpurgishalle di Thale. L’intenzione del libro è quella di costruire un ponte tra la passata popolarità dell’artista e l’attuale stato di assoluta dimenticanza della sua opera nei tempi moderni, in cui, da un lato il suo nome affonda sempre più nell’oblio e da un altro lato si assiste ad una forte tendenza verso il ritorno ai valori del passato e alla riscoperta delle proprie radici culturali che possono riconoscersi anche attraverso i lavori di Hendrich. Questo lavoro non vuole essere un lavoro accademico. Sarebbe meglio considerarlo una prima traccia, un’introduzione ad un lavoro artistico che sarà sempre più difficile da trovare ed ammirare: sappiano quanti avranno la possibilità di contemplare questi dipinti nella tranquillità della riflessione di quanti duri sforzi di ricerca è costato.
Indice: Prefazione, H: Hendrich, il suo lavoro, il Walpurgishalle di Thale, il Nibelungenhalle di Königswinter, la sala Hendrich nella casa Kehden a Kiel, la Halle Deutscher Sagenring nel Burg an der Wupper, H. Hendrich la mia vita e il mio lavoro, indice, bibliografia.

Il costo del libro comprese le spese di spedizione è di 25 euro da inviare a: Werdandi Selbstverlag, Postfach 1231, D - 48727 Billerbeck, E-Post: ElkeRohling@aol.com http://www.nibelungen-hort.de (il sito sarà attivato tra circa un mese)