Coloro che risvegliano i popoli: Kurt Eggers Se c’è un personaggio emblematico tra coloro che risvegliano i popoli questo è senza dubbio il “poeta-guerriero” in cui s’incarnano il lirismo ed il coraggio, virtù essenziali a chi vuole far sentire la propria voce quando bisogna salvare la patria dal nulla o dal sonno. Affascinato fin dalla giovinezza dall’idea del sacrificio fondante, Kurt Eggers ha voluto che la sua vita fosse l’immagine della sua opera e che il suo messaggio alla gioventù fosse sigillato dal suo stesso sangue. Pochi uomini hanno esaltato con tanta forza il sacrificio della “morte in combattimento”. Poeta, scrittore, drammaturgo, storico, polemista scelse di affrontare il suo destino dalla torretta di un panzer alla testa di una formazione corrazzata di volontari germanici. Ucciso in combattimento nel trentottesimo anno della sua vita Kurt Eggers ha incarnato fino al suo ultimo minuto l’ideale che aveva esaltato nei suoi libri: l’incontro indissolubile tra le due sue vocazioni quella dello scrittore e quella del combattente. Vocazioni unite eternamente, oltre ogni legame di parte, fino ad acquisire un significato eroico essenziale. Nato a Berlino il 10 novembre 1905 il giovane Kurt Eggers non ha nemmeno nove anni quando scoppia la prima Guerra mondiale. Il bambino è affascinato dai racconti di guerra dei più grandi e sogna di diventare anch’egli un soldato. Dagli undici ai tredici anni Kurt riesce ad essere ammesso al veliero-scuola “Berlin”. Ma dopo la disfatta tedesca prende la decisione d’entrare nella scuola per cadetti di Plön. La reazione che egli proverà in quel frangente si ritrova nelle prime pagine del magnifico libro “I proscritti” di Ernst von Salomon più vecchio di Kurt di tre anni. L’adolescente ha mantenuto i contatti con il vecchio comandante della nave-scuola e diviene suo attendente partecipando ai combattimenti contro gli spartachisti nel 1919 e al tentativo di putsch di Kapp nel 1920. Terminate queste esperienze guerresche torna sui banchi si scuola. Non ha ancora sedici anni quando lascia l’aula scolastica per unirsi ad un Corpo Franco che combatte contro i polacchi in alta Slesia nel 1921. Il giovane volontario Kurt Eggers, staffetta della formazione “Schwarze Schar” (Schiera Nera), parteciperà alla battaglia sull’Annaberg luogo simbolo della saga dei Freikorps. Dall’esperienza di questo assalto trarrà il racconto “Von jungen Herzen” ed una poesia: Le grigie file dei morti cospargono le alture Al suo fianco un camerata è morto ed un altro gravemente ferito ma la cima è conquistata. Dai ricordi di queste imprese nsceranno i libri "Der Berg der Rebellen", "Das Kreuz der Freiheit" e il dramma teatrale "Annaberg". Il giovane volontario di sedici anni torna alla sua scuola, ma la sue assenze gli costano l’espulsione. Raggiungege allora una comunità agricola nel Mecklenburg senza aver ottento l’abitur (diploma di maturità). Si arruola in seguito in un reggimento di artiglieria della Reichswehr a Frankfurt sull’Oder ma il piccolo esercito da centomila uomini lo delude e riprende i sui studi. Prima a Berlino, poi a Göttingen e a Rostock prima di ritornare nela capitale. Il volontario dell’alta Slesia studia la biologia, la filosofia, il sanscrito, l’archeologia e, soprattutto la teologia. Impara l’aramaico per approfondire gli studi biblici e si interessa ai marcioniti considerati i primi eretici del cristianesimo. Nell’associazione studentesca ”Burschenschaft Swebia” incontrerà il futuro martire nazionalsocialista Horst Wessel a cui sarà dedicato l’inno del partito (su Wessel vedi http://horstwessel.iespana.es/horstwessel/ ). Nel 1930 diventa pastore luterano in una parrocchia rurale del Mecklenburg. Ma s’interessa più della terra che del cielo e denuncia la miseria dei contadini tedeschi e l’eterna lotta da sostenere contro tutti gli oscurantismi. Le autorità ecclesiastiche si allarmano e lo nominano allora vicario a Berlino. Una delle sue prediche fa scandalo: per il pastore Eggers la verità della gioventù tedesca non si trova nella Bibbia ma nella Nazione! Scegli di lasciare la chiesa e di guadagnarsi da vivere come libero scrittore conoscendo la miseria e la fame. Kurt Eggers si appassiona ad un personaggio che diventerà il modello esemplare del suo pensiero e della sua vita e a cui consacrerà molti libri: Ulrich von Hutten. Questo prodigioso “risvegliatore” del pensiero germanico è poco conosciuto nei paesi latini. Nato nel castello di Steckelberg in Franconia, alla fine del XV° secolo, fugge a sedici anni nell’abbazzia di Fulda dove fa i suoi studi, si reca a Roma dove diviene ostile al cattolicesimo e sostiene un cristianesimo specificamente tedesco. Si unisce a Lutero e moltiplica le lettere ed i pamphlets tanto che è costretto a rifugiarsi in Svizzera dove morirà nel 1523 sull’isola di Ufenau non lontano da Zurigo. L’ex pastore traduce gli scritti di questo ribelle che ha fondato tutta la sua esistenza sull’onore, la fierezza e la forza. Ormai posseduto completamente da questo personaggio straordinario, Eggers diventerà a sua volta un “riformatore”. Riunisce in un breviario eretico le massime dei grandi pensatori tedeschi di tutti i tempi. La preparazione al combattimento – sia spirituale che materiale – è la base del lirismo di questo giovane scrittore che moltiplica i saggi storici, le raccolte di poesia e soprattutto i lavori destinati ai teatri all’aperto Thing. Singolare uomo di lettere, Kurt Eggers si appassiona sia alla mitologia nordica, alle leggende germaniche, alla storia tedesca che al più grande poeta dell’impero cinese Li T’ai Pes paragonando il suo destino a quello del suo amato Ulrich von Hutten. A trent’anni scrive una folgorante autobiografia “Der Berg der Rebellen” (La montagna dei ribelli) in cui fa rivivere i combattimenti dei volontari dei Corpi Franchi di cui ha condiviso avventure e pericoli. Nel 1939 esce il più importante tra i suoi libri, “Der Tanz aus der Reihe”, che si può tradurre come “La danza fuori dai ranghi”. E’ una sorta di autobiografia rivoluzionaria che ambisce a diventare il libro della giovane generazione, quella dei ragazzi che con una quindicina d’anni di meno di lui si preparano a terribili prove cantando: “Oggi ci ascolta la Germania. Domani il mondo intero…”. Negli anni prima della guerra Kurt Eggers non ha smesso di pubblicare libri su libri passando dalla biografia di Bismarck ad un racconto del viaggio di due adolescenti berlinesi verso il mar Baltico passando per il Mecklenburg. Furiosamente egli riunisce pensieri e poemi in brevi antologie in cui la linea direttrice è sempre la stessa : la vita è una lotta e solo i forti possono affrontarla. Kurt Eggers si inserisce pienamente nella linea filosofica di Friedrich Nietzsche, come testimonia questa breve poesia: Da un tempo immemore un popolo Ma quando un popolo Kurt Eggers , che aveva iniziatio la sua “carriera” di scrittore nel 1933, dopo aver abbandonato la sua carica pastorale, pubblica una quarantina di libri in quei sette anni di lavoro intenso. Dopo il suo matrimonio diviene padre di quattro bambini: Jörg, Wulf, Götz e Jens che egli alleva secondo il precetto essenziale: “ Insegnate ai vostri bambini la forza di carattere!” Incaricato dell’organizzazione delle feste e delle cerimonie all’interno del Servizio principale della razza e della colonizzazione nel 1935 egli non aderisce che due anni più tardi al partito nazionalsocialista perché “la politica” non lo interessa molto. All’inizio della guerra, nel 1939, si arruola nell’esercito e combatte come sottufficiale in un’unità anticarro assumendo anche le funzioni di corrispondente di guerra incarico che gli permetterà di scrivere un libro su quest’ennesima esperienza bellica. Smobilitato nel 1940 torna ala suo lavoro si scrittore. Parte nuovamente come volontario nel 1942 fedele al suo pensiero:”Forte è colui che sa vivere all’interno della sua comunità padroneggiando sé stesso.” Si arruola questa volta nella divisione SS Wiking composta da volontari di origine germanica Danesi, Norvegesi, Olandesi, Fiamminghi, Finlandesi, qualche Svedese e Svizzero tedesco. Kurt Eggers arriva nella sua unità nell’autunno del 1942 nel momento in cui la Divisione si riorganizza dopo la terribile ritirata dal Caucaso. Il volontario all’età di 37 anni non è che un semplice sergente (Unterscharführer) ma porta sulla sua giubba nera il nastro della croce di ferro di II classe, la decorazione dell’aquila slesiana, la medaglia di bronzo dei feriti al fronte, l’insegna delle truppe blindate e la croce di ferro di I classe. Viene assegnato alla 2° Compagnia di Panzer del Battaglione corrazzato destinato a diventare presto un reggimento. L’arrivo di quest’intellettuale, che possiede un piccolo apparecchio radioricevitore portatile con il quale comunica col ministero di cui è uno dei responsabili, non manca di suscitare sorpresa. Diviene quello con le relazioni nelle alte sfere ed è chiamato “colonnello” tra i civili. Ma apprende presto il suo mestiere di comandante di carro e il 20 aprile del 1943 viene nominato sottotenente (Untersturmführer) ricevendo il comando di un plotone di cinque carri Panzer IV. In ogni incarico conferma il suo valore. Segue una filosofia nichilista del pericolo che sorprende gli stessi veterani del fronte. Dicono che egli non salga sulla torretta di comandante del suo carro se non dopo aver indossato i suoi guanti pelle grigia. Continua a comporre poemi di guerra: Ecco, là dove noi andiamo c’è la fine di questi giorni Ciò che ha scritto e cantato, la forza, la gioia feroce del combattimento, il cameratismo, il senso del dovere assoluto fino al sacrificio, la presenza familiare della morte, tutto questo è uno stile di vita intenso con una passione terribile e sensuale. Questo singolare ufficiale, che stupisce a allo stesso tempo inquieta i suoi sottoposti, è forse il solo ad amare la guerra per la guerra proprio quando il combattimento sul fronte dell’Est dura da più di due anni e sembra diventare ogni giorno più spietato e più incerto. Il 12 agosto 1943, il plotone Eggers avanza nel paese nemico. Talvolta l’ufficiale canta a squarcia gola e picchia familiarmente sulla calotta del puntatore del suo carro lo Sturmann (caporale) alsaziano “Pablo”, un volontario originario di Colmar. E’ una bella giornata ed i carri viaggiano con tutte le botole aperte. Il plotone Eggers passa non lontano dal margine di una foresta di betulle. Improvvisamente si sentono dei colpi di cannone. Dei pezzi anticarro sovietici colpiscono sul fianco la 2° compagnia del battaglione corrazzato della divisione Wiking! Una granata colpisce il blindato e spezza in due l’ufficiale. Le sue gambe, troncate di netto, ricadono ed inondano di sangue il puntatore e l’addetto al caricamento completamente storditi dal boato dell’esplosione. Il busto di Kurt Eggers viene proiettato a più di otto metri dal suo panzer. Il poeta soldato impiega due ore a morire intanto che infuria la battaglia tra tedeschi e sovietici. I suoi uomini raccolgono i resti del corpo del loro comandante. La sera , il suo comandante fi compagnia, l’ Obersturmführer (tenente) Walter Multhoff, farà, secondo l’usanza, l’inventario delle sue cose. Dei libri, delle lettere, delle fotografie è tutto quello che resta di uno scrittore venuto volontariamente ad riunirsi al mondo dei guerrieri per fedeltà agli ideali della sua giovinezza. Una pagina si stacca e cade a terra. L’officiale la raccoglie. “Das Lied der Kameraden”, il canto dei camerati legge il titolo sopra due dozzine di versi. Multhoff mormora a mezza voce una delle strofe: Quando cade uno tra noi L’ultimo addio dei guerrieri ai loro camerati caduti è descritto da qualche verso, dai i fiori, dai rami di abete sempre verde e dalla tripla salva d’addio dei fucili. Poi l’ultimo verso finale: E’ perciò che noi non piangiamo mai Articolo di Jean Mabire apparso sul n. 20 solstizio d’estate 2004 della rivista francese Terre & Peuple (Terre & Peuple, Bp. 1095, F 69612 Villeurbanne cedex e-mail: contact@terreetpeuple.com sito web: www.terreetpeuple.com ). Informazioni sullo scrittore anche nel sito in lingua tedesca: http://www.leverkusener-aufbruch.com/index01.html Curriculum vitae: BibliografiaAnnaberg Volkschaft Verlag für buch,bühne und film, Berlin, 1933 Kulturkreis Dresden Stadt, Postfach 280131 D 01141 Dresden Nel dopoguerra, nella più grande operazione di censura e distruzione culturale della storia, anche le opere di Kurt Eggers furono messe all’indice. Il 13 maggio 1946 la Commissione Interalleata di Controllo emanò una legge “sull’estirpazione della letteratura a carattere nazionalsocialista o militarista”. Contemporaneamente si creò nella zona di occupazione sovietica un organismo specializzato “Schriften-Prüfstelle bei der Deutschen Bücherei” che intraprese subito la redazione di una nuova lista di libri proibiti (Liste der auszusondernden Literatur). La lista iniziale di 526 pagine comprende 13.223 libri e 1502 giornali proibiti dal 1 aprile 1946. A completamento di questa prima escono altri tre volumi rispettivamente il 1 gennaio 1947 (179 pagine, 4.739 libri e 98 giornali), il 1 settembre 1948 (366 pagine, 9.906 libri e giornali) e il 1 aprile 1952 (circa 700 libri e giornali). In totale furono proibiti poco più di 36.000 libri e periodici editi prima del 1945. Queste liste di proscrizione sono consultabili in quanto ristampate nel 1983 dall’editore antiquario Uwe Berg (Uwe Berg Verlag und Antiquariat, Tangendorferstr. 6, D – 21442 Toppenstedt, Tel. 04173 6625, Fax 04173 6225) o direttamente in rete al sito http://vho.org/censor/tA.html) Traduzione, integrazioni e ricerca bibliografica (nulla in lingua italiana è stato scritto o tradotto dell’opera di Eggert, anche il bel libro di M. Freschi “La letteratura del Terzo Reich” Ed. Riuniti 1997 lo ignora completamente) a cura di Harm Wulf harmwulf2003@libero.it
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JEAN GIONO E "LE CHANT DU MONDE" Il paganesimo di Jean Giono è stato ben identificato da Thierry Maulnier, che scriveva nel 1943, nella sua rubrica del quotidiano "L'action française": "Il signor Giono è uno di quei rari artisti per i quali il grande Pan non è morto e non è ancora pronto a morire". Punto di vista rafforzato da quello di Henry Miller: "Nell'opera di Giono chiunque possiede una dose sufficiente di vitalità e di sensibilità, riconosce subito "le chant du monde". Secondo me questo canto, di cui egli ci dà con ogni nuovo libro delle variazioni senza fine, è molto più prezioso, più commovente, più Questo universo è bagnato di sole, di profumo di timo e lavanda, di canti di cicale. Figlio della Provenza, la sua patria, con la quale ha un profondo legame carnale, Jean Giono è nato a Manosque il 30 Marzo 1895. Suo padre, calzolaio, era anche un po' guaritore. Jean ne erediterà senza dubbio il La sua infanzia, che egli descrive in "Jean le bleu", è il momento di una scoperta meravigliata del mondo. Lui che diventerà, grazie ai suoi testi, un incantatore, è prima incantato, vale a dire è sensibile, intuitivamente, sensualmente, all'incanto del mondo. Il canto del mondo lo porta prima di C'è qualche merito: avendo deciso a sedici anni di lavorare per aiutare i genitori, entra come "sbriga - faccende" al Banco Nazionale di Sconto di Manosque, ove doveva restare per diciotto anni. Per evadere da questo grigiore divora in continuazione e in modo disordinato: "Il libro della giungla", Omero, Virgilio, Stendhal, Dostoevskij, Shakespeare, i poeti tragici greci in una edizione molto popolare a 50 centesimi il volume. Questa copiosa iniziazione alla letteratura gli apre il cammino verso l'universo magico della scrittura. Ma il destino ha preparato per lui, come per quelli della sua generazione, la prova più tragica tra tutte: a venti anni conosce, durante quattro interminabili anni, l'inferno dei campi di battaglia, da Eparges a Verdun (solo undici sono i superstiti della sua compagnia), da Chemin des Dames alla Dal suo matrimonio nel 1920 nasceranno Aline nel 1926 e Sylvie nel 1934. Saranno loro le custodi benevole ma tenaci del rifugio dello scrittore, che è la sua casa, poi, più tardi, della sua memoria. Ritrovando, dopo l'incubo, la sua Provenza, Giono si purifica camminando zaino in spalla sui sentieri degli altipiani spazzati dal vento e si siede, al crepuscolo, davanti al fuoco dei pastori, con i quali parla molto e dei quali saprà raccontare con fervore l'antica e semplice saggezza. Nel 1924 inizia, a dire il vero modestamente, la sua carriera letteraria: il suo amico Lucine Jacques pubblica a proprie spese dei poemi in prosa intitolati "Accompagnés de la flûte", stampati in 300 esemplari dei quali solo 30 furono venduti. Tuttavia qui si ritrova tutto Giono: "Il silenzio a denti Nel 1927, Giono scrive "Nascita dell'Odissea" (decisamente questo provenzale si sente molto vicino a "nostra madre la Grecia"), testo rifiutato da Grasset. che si precipiterà a pubblicarlo nel 1930, perché nel frattempo Giono si è fatto conoscere. Grazie a Gide, che ha diffuso a Parigi tutte le Lassù, sulle rocce, tra i cespugli secchi odorosi o nelle foreste e nell'erba alta, la vita è potente e semplice, il ritmo dei giorni è lo stesso ritmo della natura. I venti avvolgono tutto. Gli alti pianori sono luoghi d'esaltazione, di comunione, agitati da un fremito continuo, da un linguaggio, come le querce di Dodona. Perché la natura parla a quelli che sanno ascoltarla (gli incantatori lo sanno, e Giono è un incantatore). E questo linguaggio afferma che tutto è vita: desiderio, piacere, dolore, L'uomo e gli alberi appartengono allo stesso mondo: "Gli alberi avevano l'odore penetrante di quando sono in amore". E aggiunge: "L'uomo è come il fogliame attraverso il quale bisogna che passi il vento perché questo canti". Il panteismo è la comunione con l'Universo, consiste nel collegarsi al divino dappertutto presente nel mondo, poiché il mondo è divino, e Giono lo sa bene: "I temporali, il vento, la pioggia, non ne gioisco più come un uomo, ma sono io il temporale, il vento, la pioggia". Bisogna qui metter fine allo stupido controsenso operato da Claudine Chonez (Giono, 1956, Le Seuil) quando afferma perentoria: "Non c'è religione in Giono". Due possibilità: o lei non ha letto veramente Giono o confonde (ma non è la sola, perché duemila anni di condizionamento mentale hanno avuto la stessa difficoltà a distinguerli) religione e monoteismo. Sicuramente lo stesso Giono può aumentare la confusione quando dichiara a Jean Carrière (Giono, La Manufacture, 1985): "Ammetto di non essere adatto per Dio". Ma è un errore precisare che il Dio biblico e gli Dei non solo non sono la stessa cosa, ma che sono anche, senza possibilità d'errore, due concezioni perfettamente e irrimediabilmente incompatibili. D'altronde ogni ambiguità sparisce quando Giono si prende la pena di demolire la truffa intellettuale che è la confusione tra ateismo e paganesimo. Egli spiega il suo punto di vista, ed in maniera insistente, dialogando con Christian Michelfelder (Jean Giono et les religions de la terre, 1938, Gallimard): "L'affermazione dell'uomo libero si esprimerà sempre in una sorta di paganesimo molto colorato d'umanesimo. E questo è il motivo per cui sarà un paganesimo umano a salvarci. L'ateo dice no, si accontenta di rifiutare. Ma il pagano desidera, vuole, e quindi distrugge e ricostruisce. Il vero mondo sarà un mondo di pagani. L'umanesimo pagano è la grande affermazione dell'uomo pieno di vita. Resta nell'ateismo qualcosa dell'atmosfera triste delle religioni spiritualiste. Bisogna tuttavia mettere da parte i mistici. Ma il paganesimo libera veramente". Gran lettore di Omero, di Eschilo, di Sofocle, Giono afferma un paganesimo vitale e cosmico per mezzo di numerosi suoi testi. Perché là sono le vere ricchezze (Les vraies richesses, 1937): "Noi siamo degli elementi cosmici". Questa comunione con il cosmo è il messaggio che predica il patriarca di Contadour, in questa comunità fervente e calorosa che ha raggruppato in un luogo solitario una cinquantina di persone tra il 1935 e il 1939. Con la pubblicazione dei "Cahiers de Contadour", ai quali ha collaborato un certo Marc Augier, sedotto dal carattere fortemente influenzato da Nietzsche di un Giono che insegna, come Zarathustra, ai suoi ascoltatori - discepoli: "La soluzione è attuabile attraverso ciascuno". Il divino, Giono lo percepisce nelle stelle (Le serpent d'étoiles), nell'acqua (Colline), nella terra (Que ma joie demeure), questa terra materna e dura, amara e dolce. Ma anche negli animali, questi intermediari tra l'uomo e l'inanimato (o almeno che ha l'aspetto dell'inanimato). Tutto è vita: "Tutti gli errori dell'uomo derivano dal fatto che egli immagina di camminare su una cosa morta mentre i suoi passi s’imprimono in una carne piena di grande volontà". Giono è un autore che scuote dal torpore (alcuni direbbero un iniziato ma è la stessa cosa). Egli ha in effetti la capacità rara di risvegliare il lettore, di farlo passare dall'altro lato dello specchio, con poche parole molto semplici. Lo testimonia Jean Carrière: "Avevo quattordici anni quando ho letto il primo libro di Giono, "Que ma joie demeure". La prima frase resterà per me la chiave di volta della magia, "Era una notte straordinaria". Ogni volta che rileggo quella frase passa in me la stessa piccola scossa, quella di un bambino meravigliato dal respiro delle foreste. La magia funziona ancora oggi. Divento di nuovo lo stesso bambino meravigliato". Stupore: la capacità di stupire è una qualità rara, una ricchezza che proviene dall'infanzia e che pochi hanno la fortuna (o la volontà) di conservare- e che provoca la presa in giro delle "persone serie", vale a dire vecchie (perché l'età non c'entra niente, nel caso specifico molti sono vecchi a vent'anni: poveri loro). Stupore davanti al mondo, davanti alla vita, questo miracolo, perché al contrario di ciò che dice "L'Ecclesiaste" ("Vanità delle vanità, tutto è vanità" Bibbia, Libro dell’Ecclesiaste, Prologo 1,2-11), Giono afferma che "Rien n'est vanité" (“Nulla è vanità”, inedito, presentato da Christian Michelfelder): "Guarda come tutto conta, come tutto prende posto. Perché ci si è lasciati dire che tutto è vanità? L'acqua, e il prato, e il vento, e Yvonne (…) Colui che è solo, in piedi nella notte, canta come un albero ed è tutto sconvolto dalla canzone della sua carne(…) Sono sempre gli stessi che si stupiscono di San Francesco che parla agli uccelli". Perché la vita è un'acqua di sorgente che cola tra le dita. Bisogna vivere ogni istante come se dovesse essere l'ultimo. In Svizzera, spellando un camoscio, Giono medita: "Qui è il mistero della vita e del mondo. E' un po' di succo verde, come una pania tra le mie dita. Ciò che sarò un giorno io stesso nel corso della mia trasformazione tra carne e pianta, tra pianta e pietra, tra pietra e cielo, tra polvere di stella e spermatozoo in cammino nelle spine dorsali". Ecco sorto il tema dell'eterno ritorno, della ruota che gira senza fine, la ruota solare che è simbolo di ogni vita. Una vita che non ha bisogno di giustificazioni, che basta a se stessa come portatrice di senso in sé: "Noi abbiamo dimenticato che il nostro solo scopo è quello di vivere e che, vivere, noi lo facciamo ogni giorno e tutti i giorni e che a tutte le ore del giorno noi raggiungiamo il nostro vero scopo se viviamo". (Rondeur des Jours, 1937). Apollineo per molti tratti della sua opera, Giono è anche, profondamente, dionisiaco, come l'ha ben compreso Christian Michelfelder sottolineando che uno degli obiettivi dello scrittore è quello di "rimettere l'uomo nel seguito di Dioniso". L'eremita di Manosque, del resto, spiega lui stesso ciò attraverso certe immagini evocatrici. Per esempio, per descrivere nella prefazione delle "Vraies richesses" (1936) la montagna, la sua montagna di Lure dice: "Questa montagna di Lure, che si alza nel cielo non come un picco ma come il dorso mostruoso del toro di Dioniso". Davanti a questa montagna l'uomo si sente "messo di fronte alla terra". Si ritrova qui l'influenza di Virgilio, già manifesta dagli "Accompagnés de la flûte": "Sia che discenda nel mezzo dei fiumi del frutteto, o che s’insinui nel canneto, questo respiro che tu credi essere il vento è esalato dal dio seduto lassù, sulla collina, in mezzo alle piante di salvia del cielo". Si pensa all'Eneide, libro VIII: "Su questa collina dalla cima verdeggiante, un dio, quale non si sa, sì, un dio risiede qui". E, dice Giono, bisogna tendere l'orecchio: "E vedi, sotto la sua voce musicale, che goccia a goccia questa sera cola attraverso i pini, commuoversi le piccole gole bianche di questo caprifoglio, ed alzarsi l'onda silenziosa degli ulivi argentati". Giono il meditativo è anche un uomo impegnato civilmente. Fa parte di quelli che, avendo vissuto sulla loro pelle il 14 -18, non vogliono veder tornare la carneficina stupida e fratricida. E' in prima fila nella lotta dei pacifisti quando firma un telegramma intimidatorio a Daladier e Chamberlain, in data 11 settembre 1938. Per questo è arrestato e rinchiuso nel forte di Saint-Nicolas a Marsiglia, il 3 settembre 1939. Nonostante le proteste di qualche coraggioso, tra cui Gide, ci resta fino a novembre. Durante la guerra conduce una vita ritirata scrivendo poco. Ma commette un errore fatale facendo pubblicare una novella sul giornale "La Gerbe" (1). Questo lo porta ad essere arrestato nel 1944 per collaborazionismo da giustizieri improvvisati, e messo in prigione per sette mesi, nel forte di Saint-Vincent, nelle Hautes Alpes. Il comitato centrale degli scrittori, controllato dai comunisti, lo iscrive, naturalmente, nella sua lista nera, destinata ad impedire di esprimersi ormai ad un gran numero di scrittori, tra i quali figurano i più grandi nomi della letteratura contemporanea. Ciò si chiama epurazione. Il crimine di Giono? Tutta la sua opera lo dice: avrebbe potuto essere l'autore della famosa formula "maréchaliste" (del Maresciallo Pétain), "la terra non mente". Si capisce di colpo perché egli abbia potuto essere considerato da alcuni come un elemento particolarmente perverso e pericoloso. Disincantato, Giono si volta verso una nuova tappa della sua opera. I suoi romanzi, che conosceranno un grande successo, sono ormai sprovvisti di ogni aspetto militante. Ma lo fanno affermare definitivamente come un grandissimo scrittore, riconosciuto come tale durante la sua elezione nel 1954 all'Accademia Goncourt (e, segno degli dei, per occupare il posto di Colette). Quindi fa l'esperienza dell'avventura cinematografica, realizzando nel 1960 il suo "Crésus", impersonato da Fernandel. Il mondo del cinema gli affida la presidenza della giuria del Festival di Cannes nel 1961. Giono non è più un maledetto, perché il suo genio ha vinto i mediocri. Dopo la sua morte a Manosque nella notte tra l'8 e il 9 ottobre 1970, la Pléiade gli rende molto in fretta un giusto riconoscimento pubblicando in sei volumi la sua opera romanzesca, tra il 1971 e il 1983. Noi conserviamo nel cuore l'immagine di colui che ci ha risvegliato al canto del mondo. Colui che diceva: "Il poeta deve essere un professore di speranza". E nell'ultima frase dei "Grands Chemins" ci dà la ricetta della speranza: Tratto dal libro di Pierre Vial “Anthologie païenne” Les Editions de la Forêt, Solstizio d’estate 2757 Ab Urbe Condita (2004) 308 pagine, formato 210 x 140, ISBN: 2-9516812-3-2, 23 euro. A lungo si rinfaccerà a Giono la pubblicazione di Deux cavaliers de l'orage nella rivista La Gerbe (1), e Description de Marseille le 16 octobre 1939 ne La Nouvelle revue française (2) di Drieu La Rochelle, ed un reportage fotografico su di lui apparso su Signal (edizione francese del periodico tedesco). A lui sarà imputata anche una certa vicinanza alle idee del regime di Vichy (ritorno alla terra e all’artigianato, esaltazione della giovinezza), idee che Giono veicolava da molti anni. Le idee di Giono si riaffermano nella nuova edizione del 1941 del Triomphe de la vie. Il libro, assai ben accolto dalla stampa della collaborazione, sarà uno dei capi d’accusa per lo scrittore al termine della guerra. Nel 1943 Giono pubblica L’eau vive e Fragments d’un paradis. (1)“La Gerbe, fondato e diretto da Alphonse de Châteaubriant l’11 luglio 1940 reca come sottotitolo “Settimanale della volontà francese”. Con tiratura di 140.000 copie è, dopo, “Je suis partout” la pubblicazione collaborazionista più seguita. I suoi principali redattori sono il corrispondente di guerra Marc Augier, più prossimo al direttore e noto in seguito come Saint-loup, il cattolico monarchico Bernard Fay, l’ex comunista poi doritista Camille Fégy, e diversi altri, tra i quali Alfred Canton, Luois-Charles Lecoc, Louis Thomas, Michèle Lapierre, Jean Passere, Maurice Morel, Aimé Cassar, André Castelot, Claude Cabry. Tra i collaboratori del giornale figura inoltre il quasi intero Gotha della Collaborazione: Jacques Benoist-Méchin, Abel Bonnard, Georges Montandon, Pierre Drieu La Rochelle, Jacques de Lesdain, Ramon Fernandez, Jean Hérold-Paquis, il nipote di Gobineau Clément Serpeille, Armand Petitjean e ancora Jean Anouilh, Henry de Montherlant, Paul Morand, Jean-Pierre Maxence, Marcel Aymé, Dominique Sordet, Pierre Mac Orlan, Maurice Rostand, Jean Giono, Jean de La Varende.”. Da Moreno Marchi “I duri di Parigi. L’ideologia, le riviste, i libri” Ed. Settimo Sigillo, 1997, pag. 67. “L’antesignano ecologista Giono, piuttosto prossimo al governo del Maresciallo” (pag.13) “Al di là dei suoi atteggiamenti intransigenti, o forse proprio per questo, collaborano a “Je suis partout” molti tra i maggiori intellettuali dell’epoca, tra i quali Pierre Drieu La Rochelle, Jean Anouilh, Marcel Aymé, Jean Goino, Pierre Mac Orlan, André Fraigneau, Jean de La Varende, Abel Bonnard. Vi compaiono inoltre alcune lettere di Louis-Ferdinand Céline, secondo la sua abitudine di mantenere rapporti con i giornali solo a livello epistolare, e addirittura, 11 agosto 1941, un racconto Mort subite, dell’italiano Alberto Moravia. Ma…sapeva quest’ultimo che si trattava di una pubblicazione antisemita? E, di converso, sapeva la redazione che si trattava di uno scrittore per metà ebreo?” Moreno Marchi “I duri di Parigi. L’ideologia, le riviste, i libri” Ed. Settimo Sigillo, 1997, pag. 65. (2) “La Nouvelle revue française è una prestigiosa rivista letteraria mensile fondata nel 1909 da Gaston gallimard. Dopo aver interrotto le pubblicazioni per motivi bellici nel luglio del 1940, La Nouvelle revue française ricomparenel successivo dicembre, per volontà e sotto gli auspici dell’ambasciatore ed alto commissario tedesco a Parigi Otto Abetz. La dirige Pierre Drieu La Rochelle. (...) Lo stesso fatto di scrivere o meni sulla NRF rappresenta un termometro della popolarità alla quale è difficile rinunciare. Ecco così che tra scrittori ed intellettuali direttamente impegnati nella politica di collaborazione ed altri, che non lo sono o che vi discordano, su la Nouvelle revue française si ritrova alfine quasi l’intero l’empireo delle lettere francesi: André Gide, Paul Valere, Henry de Montherlant, Paul Léautaud, Marcel Aymé, Paul morand, Abel Bonnard, Paul Eluard, Marcel Jouhandeau, Jean Giono, Ramon Fernandez, alfred Fabre-Luce, jacques Chardonne, Marcel Arland, André Fraigneau.” Moreno Marchi “I duri di Parigi. L’ideologia, le riviste, i libri” Ed. Settimo Sigillo, 1997, pag. 76 Bibliografia italiana: Traduzione, note, bibliografia e iconografia a cura di Harm Wulf.
Associazion des Amis de Jean Giono presso Centre Jean Giono L’uomo che piantava gli alberi Una quarantina circa di anni fa, stavo facendo una lunga camminata, tra cime assolutamente sconosciute ai turisti, in quella antica regione delle Alpi che penetra in Provenza. Questa regione è delimitata a sud-est e a sud dal corso medio della Durance, tra Sisteron e Mirabeau; a nord dal corso superiore della Drôme, dalla sorgente fino a Die; a ovest dalle pianure del Comtat Venaissin e i contrafforti del Monte Ventoux. Essa comprende tutta la parte settentrionale del dipartimento delle Basse Alpi, il sud della Drôme e una piccola enclave della Valchiusa. Si trattava, quando intrapresi la mia lunga passeggiata in quel deserto, di lande nude e monotone, tra i milledue e i milletrecento metri di altitudine. L’unica vegetazione che vi cresceva era la lavanda selvatica. Attraverso la regione per la sua massima larghezza e, dopo tre giorni di marcia, mi trovavo in mezzo a una desolazione senza pari. Mi accampai di fianco allo scheletro di un villaggio abbandonato. Non avevo più acqua dal giorno prima e avevo necessità di trovarne. Quell’agglomerato di case, benché in rovina, simile a un vecchio alveare, mi fece pensare che dovevano esserci stati, una volta, una fonte o un pozzo. C’era difatti una fonte, ma secca. Le cinque o sei case senza tetto, corrose dal vento e dalla pioggia, e la piccola cappella col campanile crollato erano disposte come le case e le cappelle dei villaggi abitati, ma la vita era scomparsa. Era una bella giornata di giugno, molto assolata ma, su quelle terre senza riparo e alte nel cielo, il vento soffiava con brutalità insopportabile. I suoi ruggiti nelle carcasse delle case erano quelli d’una belva molestata durante il pasto. Dovetti riprendere la marcia. Cinque ore più tardi, non avevo ancora trovato acqua e nulla mi dava speranza di trovarne. Dappertutto la stessa aridità, le stesse erbacce legnose. Mi parve di scorgere in lontananza una piccola sagoma nera, in piedi. La presi per il tronco di un albero solitario. A ogni modo mi avvicinai. Era un pastore. Una trentina di pecore sdraiate sulla terra cocente si riposavano accanto a lui. Mi fece bere dalla sua borraccia e, poco più tardi, mi portò nel suo ovile, in una ondulazione del pianoro. Tirava su l’acqua, ottima, da un foro naturale molto profondo, al di sopra del quale aveva installato un rudimentale verricello. L’uomo parlava poco, com’è nella natura dei solitari, ma lo si sentiva sicuro di sé e confidente in quella sicurezza. Era una presenza insolita in quella regione spogliata di tutto. Non abitava in una capanna ma in una vera casa di pietra, ed era evidente come il suo lavoro personale avesse rappezzato la rovina che aveva trovato al suo arrivo. Il tetto era solido e stagno. Il vento che lo batteva faceva sulla tegole il rumore del mare sulla spiaggia. La casa era in ordine, i piati lavati, il pavimento di legno spazzato, il fucile ingrassato; la minestra bolliva sul fuoco. Notai che anche l’uomo era rasato di fresco, che tutti i suoi bottoni erano solidamente cuciti, che i suoi vestiti erano rammendati con la cura minuziosa che rende i rammendi invisibili. Divise con me la minestra e, quando gli offrii la borsa del tabacco, mi rispose che non fumava. Il suo cane, silenzioso come lui, era affettuoso senza bassezza. Era rimasto subito inteso che avrei passato la notte da lui: il villaggio più vicino era a più di un giorno e mezzo di cammino. E, oltretutto conoscevo perfettamente il carattere dei rari villaggi di quella regione. Ce ne sono quattro o cinque sparsi lontani gli uni dagli altri sulle pendici di quelle cime, nei boschi di querce al fondo estremo delle strade carrozzabili. Sono abitati da boscaioli che producono carbone di legno. Sono posti dove si vive male. Le famiglie, serrate l’una contro l’altra in quel clima di una rudezza eccessiva, d’estate come d’inverno, esasperano il proprio egoismo sotto vuoto. L’ambizione irragionevole si sviluppa senza misura, nel desiderio di sfuggire a quei luoghi. Gli uomini portano il carbone in città con i camion, poi tornano. Le più solide qualità scricchiolano sotto questa perpetua doccia scozzese. Le donne covano rancori. C’è concorrenza su tutto. Per la vendita del carbone come per il banco di chiesa, per le virtù che lottano tra loro e per il miscuglio generale dei vizi e delle virtù, senza posa. Per sovrappiù, il vento altrettanto senza posa irrita i nervi. Ci sono epidemie di suicidi e numerosi casi di follia, quasi sempre assassina. Il pastore che non fumava prese un sacco e rovesciò sul tavolo un mucchio di ghiande. Si mise a esaminarle l’una dopo l’altra con grande attenzione, separando le buone dalle guaste. Io fumavo la pipa. Gli proposi di aiutarlo. Mi rispose che era affar suo. In effetti: vista la cura che metteva in quel lavoro, non insistetti. Fu tutta la nostra conversazione. Quando ebbe messo dalla parte delle buone un mucchio abbastanza grosso di ghiande, le divise in mucchietti da dieci. Così facendo, eliminò ancora i frutti piccoli o quelli leggermente screpolati, poiché li esaminava molto da vicino. Quando infine ebbe davanti a sé cento ghiande perfette, si fermò e andammo a dormire. La società di quell’uomo dava pace. Gli domandai l’indomani il permesso di riposarmi l’intera giornata da lui. Lo trovò del tutto naturale o, più esattamente, mi diede l’impressione che nulla potesse disturbarlo. Quel riposo non mi era affatto necessario, ma ero intrigato e ne volevo sapere di più. Il pastore fece uscire il suo gregge e lo portò al pascolo. Prima di uscire, bagnò in un secchio d’acqua il sacco in cui aveva messo le ghiande meticolosamente scelte e contate. Notai che in guisa di bastone portava un’asta di ferro della grossezza di un pollice e lunga un metro e mezzo. Feci mostra di voler fare una passeggiata di riposo e seguii una strada parallela alla sua. Il pascolo delle bestie era in un avvallamento. Lasciò il piccolo gregge in guardia al cane e salì verso di me. Temetti che venisse per rimproverarmi della mia indiscrezione ma niente affatto, quella era la strada che doveva fare e m’invitò ad accompagnarlo se non avevo nulla di meglio. Andava a duecento metri da lì, più a monte. Arrivato dove desiderava, cominciò a piantare la sua asta di ferro in terra. Faceva così un buco nel quale depositava una ghianda, dopo di che turava di nuovo il buco. Piantava querce. Gli domandai se quella terra gli apparteneva. Mi rispose di no. Sapeva di chi era? Non lo sapeva. Supponeva che fosse una terra comunale, o forse proprietà di gente che non se ne curava? Non gli interessava conoscerne i proprietari. Piantò così le cento ghiande con estrema cura. Dopo il pranzo di mezzogiorno, ricominciò a scegliere le ghiande. Misi, credo, sufficiente insistenza nelle mie domande, perché mi rispose. Da tre anni piantava alberi in quella solitudine. Ne aveva piantati centomila. Di centomila ne erano spuntati ventimila. Di quei ventimila, contava di perderne ancora la metà, a causa dei roditori o di tutto quello che c’è di imprevedibile nei disegni della Provvidenza. Restavano diecimila querce che sarebbero cresciute in quel posto dove prima non c’era nulla. Fu a quel momento che mi interessai dell’età di quell’uomo. Aveva evidentemente più di cinquant’anni. Cinquantacinque, mi disse lui. Si chiamava Elzéard Bouffier. Aveva posseduto una fattoria in pianura. Aveva vissuto la sua vita. Aveva perso il figlio unico, poi la moglie. S’era ritirato nella solitudine dove trovava piacere a vivere lentamente, con le pecore e il cane. Aveva pensato che quel paese sarebbe morto per mancanza di alberi. Aggiunse che, non avendo altre occupazioni più importanti, s’era risolto a rimediare a quello stato di cose. Poiché conducevo anch’io in quel momento, malgrado la giovane età, una vita solitaria, sapevo toccare con delicatezza l’anima dei solitari. Tuttavia, commisi un errore. La mia giovane età, appunto, mi portava a immaginare l’avvenire in funzione di me stesso e di una qual certa ricerca di felicità. Dissi che, nel giro di trent’anni, quelle diecimila querce sarebbero state magnifiche. Mi rispose con gran semplicità che, se Dio gli avesse prestato vita, nel giro di trent’anni ne avrebbe piantate tante altre che quelle diecimila sarebbero state come una goccia nel mare. Stava già studiando, d’altra parte, la riproduzione dei faggi e aveva accanto alla casa un vivaio generato dalle faggine. I soggetti, che aveva protetto dalle pecore con una barriera di rete metallica, erano di grande bellezza. Pensava inoltre alle betulle per i terreni dove, mi diceva, una certa umidità dormiva a qualche metro dalla superficie del suolo. Ci separammo il giorno dopo. L’anno seguente, ci fu la guerra del ’14, che mi impegnò per cinque anni. Un soldato di fanteria non poteva pensare agli alberi. A dir la verità, la cosa non mi era nemmeno rimasta impressa; l’avevo considerata come un passatempo, una collezione di francobolli, e dimenticata. Finita la guerra, mi trovai con un’indennità di congedo minuscola ma con il grande desiderio di respirare un po’ di aria pura. Senza idee preconcette, quindi, tranne quella, ripresi la strada di quelle contrade deserte. Il paese non era cambiato. Tuttavia, oltre il villaggio abbandonato, scorsi in lontananza una specie di nebbia grigia che ricopriva le cime come un tappeto. Dalla vigilia, m’ero rimesso a pensare a quel pastore che piantava gli alberi. Diecimila querce mi dicevo, occupano davvero un grande spazio. Avevo visto morire troppa gente in cinque anni per non immaginarmi facilmente anche la morte di Elzélard Bouffier, tanto più che, quando si ha vent’anni, si considerano le persone di cinquanta come dei vecchi a cui resta soltanto da morire. Non era morto. Era anzi in ottima forma. Aveva cambiato mestiere. Gli erano rimaste solo quattro pecore ma, in cambio, possedeva un centinaio di alveari. Si era sbarazzato delle bestie che mettevano in pericolo i suoi alberi. Perché, mi disse (e lo constatai), non s’era per nulla curato della guerra. Aveva continuato imperturbabilmente a piantarle. Le querce del 1910 avevano adesso dieci anni ed erano più alte di me e di lui. Lo spettacolo era impressionante. Ero letteralmente ammutolito e, poiché lui non parlava, passammo l’intera giornata a passeggiare in silenzio per la sua foresta. Misurava, in tre tronconi, undici chilometri nella sua lunghezza massima. Se si teneva a mente che era tutto scaturito dalle mani e dall’anima di quell’uomo, senza mezzi tecnici, si comprendeva come gli uomini potrebbero essere altrettanto efficaci di Dio in altri campi oltre alla distruzione. Aveva seguito la sua idea, e i faggi che mi arrivavano alle spalle, sparsi a perdita d’occhio, ne erano la prova. Le querce erano fitte e avevano passata l’età in cui potevano essere alla mercè dei roditori; quanto ai disegni della Provvidenza stessa per distruggere l’opera creata, avrebbe dovuto ormai ricorrere ai cicloni. Bouffier mi mostrò dei mirabili boschetti di betulle che datavano a cinque anni prima, cioè 1915, l’epoca in cui io combattevo a Verdun. Le aveva piantate in tutti i terreni in cui sospettava, a ragione, che ci fosse l’umidità quasi a fior di terra. Erano tenere come delle adolescenti e molto decise. Il processo aveva l’aria, d’altra parte, di funzionare a catena. Lui non se ne curava; perseguiva ostinatamente il proprio compito, molto semplice. Ma, ridiscendendo al villaggio, vidi scorrere dell’acqua in ruscelli che, a memoria d’uomo, erano sempre stati secchi. Era la più straordinaria forma di reazione che abbia mai avuto modo di vedere. Quei ruscelli avevano già portato dell’acqua, in tempi molto antichi. Alcuni dei tristi villaggi di cui ho parlato all’inizio del mio racconto sorgevano su siti di antichi villaggi gallo-romani di cui restavano ancora le vestigia, nelle quali gli archeologi avevano scavato, trovando ami in posti dove nel ventesimo secolo si doveva far ricorso alle cisterne per avere un po’ d’acqua. Anche il vento disperdeva certi semi. Con l’acqua erano riapparsi anche i salici, i giunchi, i prati, i giardini, i fiori e una certa ragione di vivere. Ma la trasformazione avveniva così lentamente che entrava nell’abitudine senza provocare stupore. I cacciatori che salivano in quelle solitudini seguendo le lepri o i cinghiali s’erano accorti del rigoglio di alberelli, ma l’avevano messo in conto alle malizie naturali della terra. Perciò nessuno disturbava l’opera di quell’uomo. Se l’avessero sospettato, l’avrebbero ostacolato. Era insospettabile. Chi avrebbe potuto immaginare, nei villaggi e nelle amministrazioni, una tale ostinazione nella più magnifica generosità? A partire dal 1920, non ho mai lasciato passare più d’un anno senza andare a trovare Elzélard Bouffier. Non l’ho mai visto cedere o dubitare. Eppure, Dio solo sa di averlo messo alla prova! Non ho fatto il conto delle sue delusioni. E’ facile immaginarsi tuttavia che, per una simile riuscita, sia stato necessario vincere le avversità; che, per assicurare la vittoria di tanta passione, sia stato necessario lottar contro lo sconforto. Bouffier aveva piantato, un anno, più di diecimila aceri. Morirono tutti. L’anno dopo, abbandonò gli aceri per riprendere i faggi che riuscirono ancora meglio delle querce. Per farsi un’idea precisa di quell’eccezionale carattere, non bisogna dimenticare che operava in una solitudine totale; al punto che, verso la fine della sua vita, aveva perso del tutto l’abitudine a parlare. O, forse, non ne vedeva la necessità. Nel 1933, ricevette la visita di una guardia forestale sbalordita. Il funzionario gli intimò l’ordine di non accendere fuochi all’aperto, per non mettere in pericolo la crescita di quella foresta naturale. Era la prima volta, gli spiegò quell’uomo ingenuo, che si vedeva una foresta spuntare da sola. A quell’epoca, Bouffier andava a piantare faggi a dodici chilometri da casa. Per evitare il viaggio di andata e ritorno, poiché aveva ormai settantacinque anni, stava considerando la possibilità di costruirsi una casupola di pietra sul luogo stesso dove piantava. Ciò che fece l’anno seguente. Nel 1935, una vera e propria delegazione governativa venne a esaminare la foresta naturale. C’erano un pezzo grosso delle Acque e Foreste, un deputato, dei tecnici. Fu deciso di fare qualcosa e, fortunatamente, non si fece nulla, tranne l’unica cosa utile: mettere la foresta sotto tutela dello Stato e proibire che si venisse a farne carbone. Perché era impossibile non restare soggiogati dalla bellezza di quei giovani alberi in piena salute. Esercitò il proprio poter di seduzione persino sul deputato. Un capitano forestale mio amico faceva parte della delegazione. Gli spiegai il mistero. Un giorno della settimana seguente, andammo insieme a cercare Elzélard Bouffier. Lo trovammo in pieno lavoro, a venti chilometri da dove aveva avuto luogo l’ispezione. Quel capitano forestale non era mio amico per nulla. Conosceva il valore delle cose. Seppe restare in silenzio. Offrii le uova che avevo portato in regalo. Dividemmo il nostro spuntino in tre e restammo qualche ora nella muta contemplazione del paesaggio. La costa che avevamo percorso era coperta di alberi che andavano da sei a otto metri di altezza. Mi ricordavo l’aspetto di quelle terre nel 1913, il deserto… Il lavoro calmo e regolare, l’aria viva d’altura, la frugalità e soprattutto la serenità dell’anima avevano conferito a quel vecchio una salute quasi solenne. Era un atleta di dio. Mi domandavo quanti altri ettari avrebbe coperto d’alberi. Prima di partire, il mio amico azzardò soltanto qualche suggerimento a proposito di certe essenze alle quali il terreno sembrava adattarsi. Non insistette. “Per la semplice ragione” mi spiegò poi, “che quel signore ne sa più di me”. Dopo un’ora di cammino, dopo che l’idea aveva progredito in lui, aggiunse: “Ne sa di più di tutti. Ha trovato un bel modo di essere felice!” E’ grazie a quel capitano che, non solo la foresta, ma anche la felicità di quell’uomo furono protette. Fece nominare tre guardie forestali per quella protezione e le terrorizzò a tal punto che rimasero sempre insensibili alle mazzette offerte dai boscaioli. L’opera corse un grave rischio solo durante la guerra del 1939. Poiché le automobili andavano allora a gasogeno, non c’era mai abbastanza legna. Cominciarono a tagliare le querce del 1910, ma l’area era talmente lontana da tutte le reti stradali che l’impresa si rivelò fallimentare dal punto di vista finanziario. Fu abbandonata. Il pastore non aveva visto nulla. Era a trenta chilometri di distanza, e continuava pacificamente il proprio lavoro, ignorando la guerra del ’39 come aveva ignorato quella del ’14. Ho visto Elzélard Bouffier per l’ultima volta nel giugno del 1945. Aveva ottantasette anni. Avevo ripreso la strada del deserto, ma adesso, nonostante la rovina in cui la guerra aveva lasciato il paese, c’era una corriera che faceva servizio tra la valle della Durance e la montagna. Misi sul conto di quel mezzo di trasporto relativamente rapido il fatto che non riconoscessi più i luoghi delle mie prime passeggiate. Mi parve anche che l’itinerario mi facesse passare in posti nuovi. Ebbi bisogno del nome di un villaggio per concludere che invece mi trovavo proprio in quella zona un tempo in rovina e desolata. La corriera mi depositò a Vergons. Nel 1913, quella frazione di una dozzina di case contava tre abitanti. Erano dei selvaggi, si odiavano, vivevano di caccia con le trappole; più o meno erano nello stato fisico e morale degli uomini preistorici. Le ortiche divoravano attorno a loro le case abbandonate. Ora tutto era cambiato. L’aria stessa. Invece delle bufere secche e brutali che mi avevano accolto un tempo, soffiava una brezza docile carica di odori. Un rumore simile a quello dell’acqua veniva dalla cima delle montagne: era il vento della foresta. Infine, cosa più sorprendente, udii il vero rumore dell’acqua scrosciante in una vasca. Vidi che avevano costruito una fontana; l’acqua vi era abbondante e, ciò che soprattutto mi commosse, vidi che vicino ad essa avevano piantato un tiglio di forse quattro anni, già rigoglioso, simbolo incontestabile di una resurrezione. In generale, Vergons portava i segni di un lavoro per la cui impresa era necessaria la speranza. La speranza era dunque tornata. Avevano sgomberato le rovine, abbattuto i muri crollati e ricostruito cinque case. La frazione contava ormai ventotto abitanti, tra cui quattro giovani famiglie. Le case nuove, intonacate di fresco, erano circondate da orti in cui crescevano, mescolati ma allineati, verdure e fiori, cavoli e rose, porre e bocche di leone, sedani e anemoni. Era ormai un posto dove si aveva voglia di abitare. Da lì, proseguii a piedi. La guerra da cui eravamo appena usciti non aveva consentito il rifiorire completo della vita, ma Lazzaro era ormai uscito dalla tomba. Sulle pendici più basse della montagna, vedevo i campielli di orzo e segale in erba; in fondo alle strette vallate, qualche prateria verdeggiava. Sono bastati gli otto anni che ci separano da quell’epoca perché tutta la zona risplenda di salute e felicità. Dove nel 1913 avevo visto solo rovine, sorgono ormai fattorie pulite, ben intonacate, che denotano una vita lieta e comoda. Le vecchie fonti, alimentate dalle piogge e le nevi che la foresta ritiene, hanno ripreso a scorrere. Le acque sono state canalizzate. A lato di ogni fattoria, in mezzo a boschetti di aceri, le vasche delle fontane lasciano debordare l’acqua su tappeti di menta. I villaggi si sono ricostruiti poco a poco. Una popolazione venuta dalle pianure, dove la terra costa cara, si è stabilita qui, portando gioventù, movimento, spirito d’avventura. S’incontrano per le strade uomini e donne ben nutriti, ragazzi e ragazze che sanno ridere e hanno ripreso il gusto per le feste campestri. Se si conta la vecchia popolazione, irriconoscibile da quando vive nell’armonia, e i nuovi venuti, più di diecimila persone devono la loro felicità a Elzélard Bouffier. Quando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole. Ma, se metto in conto quanto c’è voluto di costanza nella grandezza d’animo e d’accanimento nella generosità per ottenere questo risultato, l’anima mi si riempie d’un enorme rispetto per quel vecchio contadino senza cultura che ha saputo portare a buon fine un’opera degna di Dio. Elzélard Bouffier è morto serenamente nel 1947, all’ospizio di Banon. |
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Ernst von Dombrowski, l’artista dell’incisione La caratteristica essenziale di quest’artista è di riuscire a catturare l’attenzione dell’osservatore al primo sguardo. I suoi suggestivi quadri, le scene semplici, essenziali, emotive, le figure evocative, i suoi impianti scenici ci portano ad una gioia interiore che emana dalla pura bellezza. Dombrowski lavorò all’incisione del legno con una maestria propria a pochissimi altri artisti. Ha prodotto più di duemila incisioni e, nonostante lo scarso margine d’identità caratteristico di quest’arte grafica, è riuscito a marcare con forza il suo stile peculiare. Nacque il 12 settembre 1896 ad Emmersdorf sul Danubio in Austria ed ebbe lì un infanzia molto speciale grazie al padre scrittore di racconti, poesie ed altri generi letterari. Questo ambiente familiare sarà fonte d’ispirazione per le prime opere del nostro artista. Per motivi di salute del padre, la famiglia fu costretta a diversi trasferimenti, dalla Boemia, nell’est Europa, fino all’Austria. Dombrowski stesso si sposta su differenti latitudini territoriali e regionali, studierà arte a Graz poi a Vienna anche se la sua gioventù è segnata dalla natia Stiria. Appena diciottenne si arruola e combatte nella prima Guerra Mondiale sul fronte polacco e russo. Nel 1924 si trasferisce a Graz dove si sposa. Precedentemente aveva cercato di organizzare le sue attività artistiche a Berlino ma la nostalgia della terra natale lo aveva riportato verso casa. I suoi primi passi nel mondo artistico furono marcati dalle più svariate tecniche grafiche che usò per illustrare libri per l’infanzia, racconti storici e d’avventura. Diversi suoi dipinti hanno per soggetti nudi femminili. Ma con pennello e lapis disegna anche scene politiche, costumi, paesaggi, opere classiche e tutta quella gamma di lavori che un artista svolge per perfezionare il proprio talento. Il suo momento arriva nel 1934 quando finalmente trova la via artistica che ha sempre sognato, dove troverà la sua espressione migliore e che gli permetterà di lavorare e creare un suo stile peculiare: l’incisione su legno. Con certe influenze espressionistiche, Dombrowski si presenterà in diversi concorsi ed incomincerà a farsi conoscere. Dal 1935 al 1938 crea un portfolio di 14 personaggi storici maschili intitolato “Bildnisse deutscher Männer” tra cui appaiono i ritratti di W. von der Vogelweide, U. von Hutten, I. Kant, G. von Berlichingen, Heinrich I (che sarà acquistato dal Capo dello Stato), A. Hofer (queste sei incisioni in lussuosa edizione originale sono disponibili, autografate dall’artista, presso l’editrice Schneider). Sarà la sua prima serie di opere veramente popolari che gli varranno la stima del pubblico e della critica. A partire da queste arriveranno molteplici offerte ed incarichi. Collaborerà con diversi settimanali e riviste illustrando le cose più disparate. Nel 1938 viene nominato professore e direttore di una delle classi di arte grafica all’Accademia di Arti Applicate di Monaco. Diventa responsabile dei servizi culturali per la Stiria. Aumentano le sue esposizioni e le sue opere sono assai richieste. Aumenta la sua proiezione verso una dimensione artistica europea ma la guerra tronca senza appello la sua carriera artistica in quanto viene mobilitato nel 1941 e richiamato come ufficiale sul fronte dell’est. Malgrado ciò una sua esposizione personale con moltissime opere si tiene nel 1943 alla “Junge Kunst im Deutschen Reich” a Vienna con un grandissimo successo. Sfortunatamente lo stesso anno il suo atelier viene completamente distrutto dai bombardieri alleati. Nel 1944 pubblica un libro illustrato, l’ultimo del periodo bellico, intitolato “Herzhafter Soldatenkalender” (calendario dei soldati coraggiosi) la cui edizione sarà completamente distrutta da un altro bombardamento a Francoforte nel 1945. Nello stesso anno, finita la guerra, viene detenuto dagli americani ed internato per circa due anni in un campo di concentramento vicino a Salisburgo. Riprende la sua vita artistica solo nel 1948 quando si trasferisce a Siegsdorf, in alta Baviera, dove costruirà la sua nuova casa. Prosegue il suo lavoro di disegnatore e pittore illustrando prevalentemente libri per bambini. A partire dal 1951 collabora assiduamente alle illustrazioni di diversi calendari annuali quali “Herzhafter Hauskalender”, “Unsere Kinder” e “Freundesgabe”. Negli anni ’50, infine, arrivano i primi riconoscimenti e premi post-bellici: la Medaglia “Erzherzog Johann”, nel 1959 la “Wappenadler” della città di Krems e, nel 1971, il premio Rosegger. Tra gli anni ’70 e ’80 espone in diverse mostre guadagnandosi altri premi. Nel 1982 crea una fondazione in Stiria per aiutare i nuovi artisti. L’anno seguente si tiene una grande esposizione a Salisburgo con oltre 200 incisioni e 140 dipinti. Lo stesso anno gli viene concessa dal Governo austriaco la Gran Croce al Merito della Repubblica. A partire da questo momento e fino al termine dei suoi giorni, riceverà moltissimi altri premi, onorificenze, e menzioni che lo riconoscono e consacrano come uno dei maggiori artisti austriaci di questo secolo. Il suo maggior orgoglio è quello di esser nominato cittadino onorario di Siegsdorf. Alla morte dell’artista il 14 giugno 1985 nella stessa cittadina, la sua opera viene donata alla città di Graz ed alla Fondazione del Heimatmuseum di Traunstein. Il nonagenario artista ci ha lasciato un’opera immensa di qualità straordinaria. Molte dei suoi lavori appaiono come trasposizioni delle opere di Caspar David Friedrich ma incise nel legno. I suoi alberi, i cieli, la natura, i paesaggi desolati ci comunicano molte cose e il romanticismo traspare sempre dai suoi dipinti. Ma allo stesso tempo i segni che Dombrowski incide trapassano il legno per portarci nel tempo reale dal passato storico. Come spesso accade un artista conosciuto (nel suo paese) resta ignoto al resto del mondo. Però di nuovo ci ricordiamo la frase di Graciàn, che affermava che questo non era il suo secolo, molti altri lo saranno, il genio è immortale. Una completa bibliografia dell’artista è presente nel volume di Mortimer G. Davidson “Kunst in Deutschland 1933-1945” Malerei II pag. 270, Grabert Verlag 1992 La casa editrice Rudolf Schneider ha nel suo catalogo buona parte delle opere pubblicate da Ernst von Dombrowski e la ristampa di numerose xilografie dell’artista. Informazioni presso: Rudolf Schneider Verlag, Industriehof 8, D – 31180 Giesen-Hasede Tel. (05121) 770463 Fax (05121) 770303 Nella stessa città è possibile visitare un esposizione permanente con molte opere originali dell’artista L’indirizzo è: Kunstherberge Ernst von Dombrowski, Am Messeschnellweg, D 31180 Hasede, Deutschland Tel. 05121 770634 http://www.kunstherberge-hasede.de/ E-Mail:kontakt@kunstherberge-hasede.de L’orario di apertura è da mercoledì a venerdì dalle 10.00 alle 12.00 o su prenotazione telefonica. Tratto dal n. 10 della bellissima rivista trimestraled’arte, tradizione e cultura “El Barco Vikingo”. Ttraduzione e ricerca iconografica di Harm WulfSono apparsi articoli sugli artisti: W. Petersen, G. Sluyterman von Langeweyde, R. Wagner, F. von Defregger, W. Willrich, F. Staeger, N. C. Wyeth, J. Austen, H. Thoma, A. Kampf, J. de Avalos, R. Warneke, N. Rockwell, W. Kreis. La rivista, una rassegna periodica dell’arte tradizionale, è giunta al 22°numero agosto 2003. Abbonamento per 5 numeri 15 € da inviare a: Javier Nicolàs Ap. de correos 14.215, E - 08080 Barcelona
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Franz von Stuck. Pittore e principe degli artisti Numerosi furono i romantici, i pre-raffaelliti e i simbolisti che trassero ispirazione dalla mitologia greco-romana ma rari furono quelli che, come Franz von Stuck, fecero della loro vita un opera d’arte totale sotto il segno della gran salute della religiosità pagana. Il 23 febbraio 1863 a Tettenweis nella Bassa Baviera da una famiglia cattolica di contadini e mugnai nacque Franz Stuck. Dall’età di sei anni si mette in evidenza nel suo villaggio come autore di caricature. Lascia la famiglia a 15 anni per iscriversi alla Scuola reale d’Arti decorative di Monaco. Questa esperienza formativa di quattro anni gli permetterà di formarsi delle solide basi per la sua futura opera di pittore, architetto, decoratore e scultore. Gli anni seguenti, mentre si guadagna da vivere come illustratore di libri ed autore di caricature per riviste, comincia a dipingere. Di natura gioviale e scherzosa si unisce all’ambiente degli artisti di Monaco senza prendersi troppo sul serio. Nel 1889 espone al Palazzo del Ghiaccio di Monaco per la prima volta tre dei suoi dipinti ad olio: Innocenza, Il guardiano del Paradiso e il Combattimento tra fauni. Le tele sono ritenute provocatrici per i loro temi, i loro colori chiari e la loro tecnica ma Il guardiano del Paradiso ottiene una medaglia d’oro ed un premio di 60.000 marchi. Ritroviamo già nelle tre tele della giovinezza le tematiche predilette di von Stuck: la bellezza conturbante e sensuale della donna (Innocenza), la trattazione a volte irriverente e a volte eroica delle tematiche religiose (Il guardiano del Paradiso) ed infine la mitologia e le divinità antiche, quale il Dio Pan, rappresentate in un ambiente selvaggio e pagano ricorrente nella sua opera (Combattimento tra fauni). La sua prima tela ad olio non è altro che una rappresentazione della Caccia selvaggia, il Wilde Jagd wotanico che supera naturalismo e impressionismo per creare un nuovo stile, un simbolismo mistico di una grandezza primitiva. Erede spirituale del pittore svizzero Arnold Böcklin, nei suoi famosi combattimenti tra centauri e nei suoi fauni maliziosi che godono di una natura risplendente, Stuck andrà più lontano, in una pittura pagana non priva d’ambiguità. Nel 1892 il movimento della Secessione di Monaco viene fondato, tra gli altri da Stuck che concepisce il manifesto con la divinità Atena con l’elmo. La Secessione raggruppa degli artisti che rifiutano i diktat dell’accademia, e riceve un riconoscimento ufficiale quando a von Stuck viene conferito, nel 1893 il titolo di professore. La gioventù si accalca all’esposizione della Secessione per vedere Il Peccato (Die Sunde), senza dubbio l’opera di Stuck che ha ottenuto il maggio successo e clamore. Glorificazione di un Eva avvinta ad un serpente, Il Peccato è un’interpretazione moderna e sviata di un tema giudeo-cristiano. Il nudo corpo femminile splende come un fanale nella cornice dorata che racchiude il dipinto. Questa è un’altra delle caratteristiche dello stile di von Stuck: scegliere delle cornici originali e spesso massicce che si integrano totalmente all’opera dipinta. La maggior parte di queste cornici sono scolpite con cura e si differenziano dalla massa dei prodotti industriali economici, interscambiabili e senza identità. Stuck continua a scioccare per i temi e il genere delle sue opere ( Lucifero, Il Vizio, Sirene, La Guerra…), la polizia proibisce l’esposizione delle fotografie del Bacio della Sfinge. I suoi corsi di pittura sono seguiti specialmente da Kandinsky, Klee e Albers (futuro professore del Bauhaus). Nel 1897 si sposa con un’americana monachense d’adozione, Mary Lindpainter, ed ottiene una medaglia d’oro all’Esposizione d’arte internazionale di Monaco in cui espone tra le altre opere L’amazzone ferita Questa tela, come molte altre di von Stuck, integra la fotografia nel processo di creazione: le modelle fotografate sono stilizzate e ed utilizzate in forma creativa, anche in numerosi ritratti commissionati ed autoritratti dell’artista e della sua famiglia. Senza pudore il pittore si serve anche di modelli fotografici per studiare successivamente i movimenti del corpo maschile. Nel 1898, Stuck fa costruire secondo un suo progetto una casa-atelier a Monaco, la Villa Stuck, in uno stile imponente e neoclassico ispirato direttamente ad un quadro di Böcklin (Villa in riva al mare). Una delle sue più grandi sculture (Amazzone che lancia il giavellotto) troneggerà più tardi davanti alla villa. Tutte le decorazioni interne, compresi i mobili, i quadri e le sculture vengono concepiti da von Stuck. Egli si eleva al rango di “Principe degli artisti” di talento universale tra i migliori artisti europei. I mobili della sua villa ottengono una medaglia d’oro all’esposizione universale di Parigi del 1900. Il principe reggente Leopoldo di Baviera lo nomina cavaliere dell’Ordine al merito della corona bavarese nel 1905. Il titolo nobiliare coincide con l’apogeo della carriera di Franz von Stuck. L’inizio del XX secolo vede la sua aura decrescere, i movimenti del Blaue Reiter, Die Brücke e del Fauves (fr., belve) iniziano a suonare la campana a morte per i simbolisti considerati da questi giovani come dei ruderi ben sistemati. I tempi cambiano… Nel 1914 egli realizza una scultura in rapporto diretto con l’inizio della guerra (I nemici da tutti i lati). Il titolo di questa scultura guerriera è ripreso da uno slogan. Il combattente con la spada appare in numerosi manifesti di propaganda che invitano ai prestiti di guerra. Questa opera di von Stuck riapparirà più tardi in un suo dipinto con i tratti di un Ercole biondo che lotta contro l’Idra a molte teste. Nel 1919 viene tenuto qualche giorno in ostaggio da estremisti di sinistra. L’anno seguente dipinge la L’angoscia dei Nibelunghi ispirato alla mitologia germanica che evoca il pericolo per la Germania vinta dopo la guerra. Continua ad insegnare la pittura rifiutando le tendenze più moderne dell’arte che vede come già contenenti il germe della decadenza. Realizza dei dipinti raffiguranti fauni e ninfe dal provocatorio contenuto erotico, una rappresentazione tragico-eroica di Sisifo e un Pan che suona un flauto. Nella vecchiaia von Stuck s’identifica sempre più con Pan che diviene la sua divinità tutelare. Pan non segue che le sue pulsioni, è lascivo, diretto da Eros all’inseguimento delle belle ninfe, molto legato alla natura, facente parte del lato bestiale di Dioniso. Prova la pittura d’influenza “impressionista” in due quadri ( Bambini con la slitta e Caccia allo struzzo) che saranno acclamati dalla critica dell’epoca. Considerate oggi come anodine queste opere fanno sorridere e mostrano a che punto i gusti sono versatili in materia di moda. Ritornerà dopo questa parentesi al suo stile originario con la rappresentazione di Elena di Troia e delle tre divinità Atena, Era e Afrodite che concludono degnamente una carriera folgorante prima di spegnersi un 30 agosto del 1928. Bibliografia selettiva: Musei Museum Geburtshaus Franz von Stuck Kirchplatz 4 D - 94167 Tettenweis Mostra al Mart Trento,
(Palazzo della Albere, Via Roberto da Sanseverivo 45, 38100 Trento) Opere di von Stuck al sito: http://www.artmagick.com/paintings/date/stuck.aspx Articolo dal n. 16 hiver 2003 di Réfléchir & Agir. Revue autonome de désintoxication idéologique.
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Un inedito: Ma déclaration des droits de l’homme
Françoise Pichard detta Chard è sicuramente uno dei migliori disegnatori d’Europa. Certamente notevolmente superiore ai vari Forattini e Giannelli in circolazione in Italia. Jean Raspail, lapidario, ha scritto di lei: “ Molto più dei suoi colleghi, e io credo pressoché sola nella sua specie, Chard ha il tratto adatto ai tempi che noi francesi viviamo. Un tratto nero, caustico, spietato, talvolta tragico. Ma spesso un tratto geniale.” La sua scarsa fama, come disegnatrice di satira politica, è da attribuirsi solamente alla sua scomoda e scorretta collocazione politica. Nata negli anni ’40 in un villaggio del Loiret, debutta nel 1968 sul settimanale francese Rivarol che ha compiuto 50 anni di gloriosa attività nel 2001. Oltre a quest’impegno settimanale, Chard è nel comitato editoriale della rivista, dal 1982 disegna con cadenza giornaliera sul quotidiano Présent. Periodicamente escono suoi libri a fumetti, volumi illustrati e raccolte dei disegni satirici pubblicati dalle riviste su cui esprime il suo talento geniale. Un inedito di Chard è appena uscito: Ma déclaration des droits de l’homme. Quelle che seguono sono la prefazione di Camille Galic del volume La France métisse de A à Z seguito ideale del famosissimo e purtroppo esaurito l’ABC de la société plurielle apparso, con grandissimo successo nel 1987, e la presentazione dell’ultimo libro Ma déclaration des droits de l’homme di Marcel Signac. Dalla società plurale alla Francia meticcia
Chard : Ma déclaration des droits de l’homme
Di Chard sono stati pubblicati: Ma Déclaration des Droits de l’homme, 12 euro comprese spese di spedizione. E’ possibile richiedere la dedica personalizzata dell’autrice. La France métisse de A à Z, 7 euro comprese spese di spedizione. E’ possibile richiedere la dedica personalizzata dell’autrice. Per tutte le richieste scrivere a: Tutti i libri di Chard, compresi i più vecchi, e moltissimi altri fumetti e testi dell’editoria non conforme possono essere ordinati al sito http://www.libre-diffusion.com/ |
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King Konk è vivo!
R&A: Konk, Lei è nato a Rennes nel 1944. Che cosa è accaduto dopo…? R&A: È un po’ il LIP (nella nota fabbrica di orologi di Besançon, dove nel 1973 fu messo in atto per alcuni mesi un tentativo di autogestione – NdT) di Konk! R&A: Lei ha votato Mitterrand nel 1981? R&A: Oggi, Lei rinnega quelle vignette? R&A: Non è ancora l’episodio revisionista… R&A: E Lei era più libero a “Le Matin” che era quasi il quotidiano del PS all’epoca! R&A: Perché se n’è andato visto che “L’Evènement du Jeudi” non ha chiuso i battenti R&A: In castigo, in un angolo come all’asilo infantile! R&A: Il veleno del rajah aveva colpito ancora! R&A: Le persone a Lei vicine, i Suoi figli gliel’hanno rimproverato? R&A: Ha dei rimpianti? Oppure oggi lo rifarebbe? R&A: Essere libero… R&A: Il fumetto La attira? R&A: Quali sono gli altri Suoi passatempi preferiti a parte il disegno? R&A: È la sindrome di Leonardo da Vinci! R&A: Solo per divertirsi? R&A: È vero che si ha l’impressione che il disegno sia qualcosa che Lei fa perché non ha nient’altro da fare… R&A: E Lei come lavora? Segue attentamente telegiornali e giornali radio? R&A: Suppongo che lei decripti le attualità per la loro parzialità… R&A: Gli umoristi del passato o attuali hanno un’influenza su di Lei? R&A: Politicamente, Lei è cambiato? Lei ha un sentire diverso da quello del ragazzo che era? R&A: Oggi, che cosa La scandalizza di più? R&A: Ma si può ancora credere nella destra, in Sarkozy o Chirac oggi? R&A: Allora perché i Francesi continuano a votare per loro? R&A: Quando si vede tutto ciò che succede con l’immigrazione, l’insicurezza, la disoccupazione, il denaro pubblico mal gestito… Lei capisce che i Francesi non si ribellino di più? R&A: I problemi dell’immigrazione, Lei che cosa ne pensa? R&A: Come vede Lei il futuro in Francia e in Europa? R&A: Il FN, Le Pen, Lei ci crede? R&A: La questione del revisionismo sembra essere cruciale ai Suoi occhi. Perché? R&A: Se Lei dovesse conservare solo un libro, un disco e un film? a Legenda vignetta a : “Mi ricordo bene. Apparteneva a mio nonno”. c Legenda vignetta c: "Siete liberi!" KONK Tout le monde il est français. Edizioni Auda Isarn, 2006, 28 euro spese postali comprese. Il libro può essere richiesto a: Auda Isarn, BP 90825, F 31008 Toulouse cedex 6 http://www.reflechiretagir.com/auda.html Konk uccide. Il numero delle sue vittime morte dal ridere si contano a milioni. In quarant'anni questo disegnatore geniale ha lavorato per L’Express, Le Monde, Le Matin de Paris, L’Evènement du Jeudi, Le Figaro, Valeurs Actuelles, National Hebdo. Una discesa agli inferi che lo ha poco a poco ricondotto nel campo della libertà. Indifferente agli onori ed al guadagno, qualità rara al giorno d'oggi, Konk continua a disegnare spavaldamente quello che pensa sugli argomenti più che mai divenuti tabù: l'immigrazione, la mancanza di sicurezza, i tartufi di sinistra e di destra, la lobby che non esiste e che tutto controlla, il mondialismo e il suoi Frankenstein di Bruxelles,... Più di trecento disegni per un piccolo viaggio verso la fine della Francia che ci fa comprendere, tra il fragore delle risate, la misura della decadenza attuale. Fortemente scosigliato per piagnoni ed etnomasochisti. Il sito ufficiale dell'artista è http://www.konk.org Il suo blog http://www.konktextes.over-blog.com/ Una copiosa raccolta di disegni al sito http://dessins.de.konk.free.fr Vignette di Konk sono presenti nel "Prontuario illustrato del revisionista olocaustico", Edizioni Effepi, 2004, 8 euro, http://www.effepiedizioni.com/ Gli ultimi tre volumi sono disponibili presso l'autore al sito http://www.konk.org Per gli altri bisogna esser fortunati e cercare in: www.amazon.fr Intervista a Konk apparsa sul numero 17 della rivista francese Réfléchir & Agir Revue autonome de désintoxication idéologique – Primavera 2004, pp. 40-43.
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