Come il presidente Truman licenziò MacArthur

Durante la guerra di Corea, il generale MacArthur, in più di un'occasione, si mostrò favorevole all'utilizzo dell'arma atomica per stroncare l'intervento cinese a fianco dei nordcoreani.
Potrebbe cortesemente chiarire i motivi per i quali il presidente Truman (che nulla ebbe a obiettare nei casi di Hiroshima e Nagasaki) si rifiutò sempre di prendere in considerazione questa opzione, arrivando persino a destituire il generale MacArthur?

Stefano Leonzio

Caro Leonzio,
quando le truppe della Corea del Nord invasero la Corea del Sud e conquistarono Seul, il generale Douglas MacArthur era il comandante delle forze americane in Estremo Oriente.
A Tokio, dove fu per alcuni anni una sorta di proconsole degli Stati Uniti, aveva un potere imperiale e lo esercitava con narcisistico compiacimento.
Il presidente Harry Truman conosceva il suo stile e lo considerava una «primadonna ». Ma quando alcuni dei suoi migliori consiglieri gli suggerirono di metterlo a riposo e di affidare il comando a un altro generale, Truman preferì evitare un gesto che sarebbe stato criticato da una larga parte della pubblica opinione.
Mise in chiaro, tuttavia, che intendeva evitare l’estensione del conflitto alla Cina, il coinvolgimento delle forze nazionaliste di Chiang Kai-shek o, peggio ancora, quello dell’Urss.
MacArthur avrebbe dovuto astenersi da giudizi politici e limitarsi a fare la guerra.
All’inizio i rapporti tra il presidente e il generale furono buoni. MacArthur propose un’operazione rischiosa (lo sbarco di un forte contingente americano sulla costa occidentale della Corea, a Inchon) e Truman, nonostante le riserve di alcuni suoi consiglieri, approvò il piano. Quando l’operazione dette buoni risultati e permise la riconquista di Seul, riconobbe i meriti di MacArthur e gli fece le sue congratulazioni.
Vi fu persino un incontro tra i due, su un’isola del Pacifico, durante il quale il generale trattò Truman «alla pari », come se l’Estremo Oriente fosse la sua casa e il presidente degli Stati Uniti soltanto un ospite. Lo accolse con la camicia aperta sul collo, un berretto vecchio e sporco (era diventato il suo segno distintivo) e, invece del saluto militare, una cordiale stretta di mano.
Il clima cominciò a guastarsi quando 260.000 «volontari» cinesi, il 28 novembre 1950, attaccarono improvvisamente le forze dell’Onu e costrinsero gli americani a ritirarsi nuovamente oltre Seul. MacArthur sostenne che occorreva cambiare strategia e colpire la Cina: 30 o 40 bombe atomiche sulla Manciuria e sulle principali città della Repubblica popolare.
Truman respinse la proposta e preferì attendere che il generale Ridgeway, a cui era stato affidato il comando delle truppe sul campo, riorganizzasse le forze armate in Corea e guadagnasse tempo. I successi di Ridgeway resero MacArthur sempre più irritato e impaziente. Da Tokio l’ambasciatore degli Stati Uniti riferì che aveva ora un altro piano: separare la Corea del Nord dalla Manciuria disseminando scorie nucleari lungo il fiume Yalu.
La goccia che fece traboccare il vaso fu uno scambio di lettere del generale con Joe Martin, capo dell’opposizione alla Camera dei rappresentanti.
Martin fece un discorso in cui attaccò ferocemente Truman e ne mandò copia a MacArthur.
Nella sua risposta il generale dette la sensazione di approvare il tono e gli argomenti del parlamentare. Sostenne che occorreva chiamare in campo le forze nazionaliste di Chiang e sconfiggere il comunismo in Asia. Era una dichiarazione di guerra alla Cina.
Quando Martin decise di dare alla stampa la risposta di MacArthur, Truman non ebbe esitazioni e, d’accordo con i suoi principali consiglieri, decise di destituirlo. L’11 aprile 1951 il Washington Post annunciò, con un titolo che occupava tutta la prima pagina: «Truman licenzia MacArthur». Con quella decisione Truman raggiunse tre obiettivi. Evitò lo scoppio della terza guerra mondiale. Riaffermò la prevalenza del potere politico sul potere militare. Dimostrò che la bomba atomica era l’arma della dissuasione e il suo maggiore valore strategico consisteva nell’impedire che altri ne facessero uso.

Sergio Romano
Corriere della sera, 08 settembre 2007

 
   
 

Esibire il marchio

Caro Romano, un Papa a bordo e Alitalia realizza uno dei migliori investimenti promozionali; infatti ciò garantisce al marchio di circolare sugli schermi televisivi di tutto il mondo.
Non si può non convenire con questa affermazione con la quale lei ha contrapposto la razionalità del business alla perplessità di un lettore per l’uso gratis della compagnia da parte del pontefice.
Però, senza voler essere irriverenti per l’accostamento, una tale logica dovrebbe valere anche quando noi portiamo in giro la griffe dell’emporio dove facciamo la spesa. Invece il sacchetto, con il nome del supermercato in bella vista, ci viene fatto pagare.

Bruno Faccini

Mi sembra ancora più
grave che molte grandi ditte di moda vendano abiti e oggetti in cui il loro nome è esibito vistosamente.
Sono riusciti a convincere il compratore che il loro marchio è un segno di distinzione e di nobiltà. Hanno vestito il cliente con la loro livrea e ne hanno fatto un lacchè.

Sergio Romano
Corriere della sera, 08 settembre 2007

 
   
 

Europa e Turchia: perché i tempi non sono maturi

Mi trovo in Turchia per lavoro e, da qui, mi viene da pensare ai dibattiti talvolta accesissimi che si fanno in Italia sulla inclusione o meno di questo Paese nella Ue. L’Unione Europea sta diventando (o ritornando) sempre più - dopo le bocciature alla nuova Costituzione di Francia e Olanda - una grande comunità «economica» altamente integrata e, in questo contesto, non vedo francamente ragioni per non includere anche questo grande Paese. Sul versante politico poi, scorgo qui una Turchia moderna dove i tumulti religiosi non appartengono alla gente la quale vive, pur con convinzioni religiose palesemente diverse, in totale armonia. Vogliamo davvero chiudere alla Turchia le porte dell’Europa, ribadendo in tal modo il criterio religioso come criterio di appartenenza, con tutti i disastri che ciò ha portato e sta portando nel mondo? Vogliamo correre anche un minimo rischio che la Turchia, una volta rifiutata, venga attratta dal gorgo dell’islamismo radicale?

David Cambri

Caro Cambri,
il rischio a cui lei allude nell’ultimo quesito della sua lettera è reale.
La Turchia è al centro di tre grandi aree: l’Europa, il Medio Oriente arabo, il Caucaso e l’Asia centrale. In ciascuna di queste tre regioni ha grandi interessi e forti ambizioni.Mail suo desiderio di entrare nell’Unione Europea ha prevalso sinora su ogni altra considerazione e le ha suggerito di non far nulla che potesse pregiudicare il buon esito della sua candidatura. Ne ha dato una prova convincente, ad esempio, adattando la sua politica curda, sia pure gradualmente, agli inviti e alle sollecitazioni che le venivano dai Paesi europei. La condanna a morte di Ocalan, leader dei curdi secessionisti, non è stata eseguita.
L’uso della lingua curda è tollerato.
Alcuni rappresentanti della comunità curda sono stati eletti al Parlamento nazionale. E il premier Erdogan ha resistito sinora alle pressioni degli ambienti militari che vorrebbero stroncare la guerriglia curda distruggendo le basi di cui dispone all’interno del Kurdistan iracheno. Gli islamici moderati del partito di Erdogan sanno che la politica del pugno di ferro, cara alle forze armate e al nazionalismo radicale, chiuderebbe alla Turchia, forse definitivamente, le porte dell’Unione Europea.
Ma se l’Europa la respingesse, i suoi governi diverrebbero, nello stile e nei metodi, schiettamente mediorientali e asiatici.Eil suo islamismo diverrebbe probabilmente sempre meno moderato e democratico.
Temo tuttavia che l’Europa, in questo momento, sia condannata, per almeno tre ragioni, a una sorta di impotenza. In primo luogo alcuni Paesi (soprattutto la Francia e l’Austria, ma anche altri che si esprimono con maggiore prudenza) sono contrari al suo ingresso nell’Unione. Il predecessore di Nicolas Sarkozy alla presidenza della repubblica francese, Jacques Chirac, promise ai suoi connazionali che un eventuale trattato di adesione sarebbe stato sottoposto con un referendum alla ratifica popolare. Ed è difficile immaginare che la società francese, in questo momento, sia disposta ad approvarlo.
In secondo luogo la Turchia sta attraversando una fase delicata di cui nessuno può prevedere l’esito. La fase è cominciata quando Erdogan, con una mossa azzardata, ha deciso d’infrangere il tacito «compromesso storico» che il suo partito aveva pattuito con il capo dello Stato e le forze armate del Paese: il governo agli islamici, la presidenza della Repubblica ai laici. Lo scontro si è svolto democraticamente in parlamento, nei comizi, nelle urne, ed è stato vinto dal partito islamico moderato del premier. Ma non sappiamo ancora se i laici siano veramente disposti ad accettare la sconfitta. E l’Europa, in questa situazione, non può che stare alla finestra.
Esiste infine, caro Cambri, un’ultima ragione che ha assunto in questi anni una particolare importanza.
Le vicende politiche hanno dimostrato che l’allargamento del 2004 ha reso questa Europa troppo eterogenea e difficilmente governabile. Se l’Unione fosse destinata a essere soltanto economica, come lei sembra credere, potremmo, senza troppo preoccuparci delle conseguenze, accettare a bordo un altro passeggero.
Maesiste ancora nel continente un gruppo di Paesi che non ha rinunciato a desiderare per l’Unione un futuro politico e federale.
Può darsi che la soluzione del problema esiga la creazione di due Europe: una più piccola e politica, di cui farebbero parte soltanto i «federalisti», e una più grande, ma prevalentemente economica, di cui potrebbe fare parte anche la Turchia.

Sergio Romano
Corriere della sera, 09 settembre 2007

 
   
 

I rapporti Usa-Iran

Caro Romano, concordo pienamente con la risposta che ha dato, e vorrei aggiungere un corollario: quale Paese rinuncerebbe ad avere un arsenale nucleare, sentendosi minacciato dalla presenza di potenze che il proprio arsenale non hanno alcuna intenzione di dismetterlo? Il caso iraniano mi pare emblematico, giacché immagino che il regime di Teheran persegua almeno l'obiettivo minimo di sopravvivere in quanto tale e dunque senta l'esigenza di mettersi ai ripari contro un eventuale attacco che periodicamente viene sbandierato da più di un esponente della classe politica statunitense. Mi sbaglio?

.......

Il governo iraniano sostiene che il suo programma nucleare ha scopi esclusivamente pacifici. Manon c’è dubbio che l’arma nucleare sia stata effettivamente sinora soprattutto un deterrente e che il possesso della «bomba» renderebbe qualsiasi pressione americana meno efficace.
Per convincere Teheran ad abbandonare il programma occorrerebbe che l’America voltasse pagina e trattasse con l’Iran condizioni di sicurezza per l’intera regione. Ma non sembra che questa presidenza americana sia disposta a farlo.

Sergio Romano
Corriere della sera, 09 settembre 2007

 
   
 

Carceri di tipo nuovo

Caro Romano, sapendo che non è possibile a un semplice cittadino, quale io sono, fare una domanda al governo, mi rivolgo per chiedere: dato che da anni si lamenta la inadeguatezza dello spazio nelle carceri e il proliferare dei delitti, non sarebbe opportuno costruirne di nuove? Si eviterebbe il compromesso dell'indulto che, come si è visto, ha poi portato a ripetere efferati delitti, e si renderebbe più umano e civile lo stato detentivo, obbligo e distintivo di ogni nazione che si rispetti.

Massimo Mattei

Credo che lei abbia ragione. L'indulto fu una cattiva soluzione anche e soprattutto perché dimostrò che il sistema penitenziario non era in grado di aggiornarsi e parve quindi a molti una dichiarazione d'impotenza. Occorrono nuove carceri e occorrono soprattutto carceri di tipo nuovo, costruite tenendo conto delle differenze che esistono tra i diversi reati e le persone che li hanno commessi.

Sergio Romano
Corriere della sera, 10 settembre 2007

 
   
 

Le ragioni dell'uso

Caro Romano, ho letto che le bombe di Hiroshima e Nagasaki sono state lanciate a guerra praticamente finita. Può confermarlo? E allora, se questo è vero, qual è il reale motivo per cui sono state lanciate, causando inenarrabili sofferenze?

Carlo Paoletti

La guerra non era finita ed esisteva ancora a Tokyo un partito deciso a continuarla. Sulle ragioni dell'uso della bomba atomica esistono almeno due tesi. Secondo la prima, Truman ne avrebbe autorizzato l'uso per evitare il prolungamento di un conflitto in cui avrebbe perso la vita un numero considerevole di soldati americani. Secondo l'altra, la bomba sarebbe stata usata per verificarne l'efficacia e dimostrare la potenza degli Stati Uniti. La prima tesi mi sembra, tutto sommato, più verosimile della seconda.

Sergio Romano
Corriere della sera, 11 settembre 2007

 
   
 
Elogio della monarchia, ma non in Italia

Parlare di monarchie oggi appare fuori moda: ne sono rimaste poche, e i poteri dei sovrani appaiono limitati.
Tuttavia nei Paesi dove l’istituzione resiste, si notano alcune differenze ed elementi positivi fondamentali, anche se si effettua un paragone con le repubbliche più avanzate.
In Gran Bretagna la monarchia è un collante che ha preservato, fino a oggi, il Paese da molte spinte indipendentiste. In Spagna il re ha evitato molti guai da parte delle minoranze e ha impedito il golpe. Nei Paesi nordici la monarchia sta bene a tutti e nessuno pensa di eliminarla. Anche in questi Paesi abbiamo recenti esempi di sovrani illuminati come Baldovino e la dinastia degli Orange. In Giappone l’imperatore ha evitato la catastrofe del dopoguerra e ha probabilmente contribuito alla resurrezione del Paese.
Del resto un Kaiser forte avrebbe impedito il disastro del nazionalsocialismo e la frammentazione del Paese dopo la sconfitta. In Thailandia, anche recentemente, il re è intervenuto per espellere un pericoloso dittatore. Mi obietterà che i Savoia hanno perso la guerra e anche la dignità. Ma ciò è accaduto anche in Belgio e nei Paesi Bassi, ma i sovrani sono tornati egualmente sul trono.
Se poi guardiamo ai costi, anche il sovrano più dispendioso costa di gran lunga meno del Quirinale... In sostanza, caro Romano, non crede che l’istituzione monarchica sia ancora molto più attuale di quanto comunemente si pensi?
Probabilmente va modernizzata e preservata ove esiste. Del resto il Papa è anche oggi un monarca.

Mauro Luppoli

Caro Luppoli,
in «The Queen» (La regina), il film di Stephen Frears su Elisabetta II apparso anche in Italia, vi è un interessante dialogo, nei giorni successivi alla morte della principessa Diana, fra il premier e sua moglie.
L’argomento è il tono fortemente critico di molti commenti della stampa britannica sull’apparente freddezza con cui la regina ha reagito alla scomparsa della nuora. Cherie Blair, di cui molti a Londra conoscono i sentimenti anti-monarchici, pronuncia una battuta sarcastica e sprezzante sulla famiglia reale.Mail marito (cito a memoria) risponde che non gli piace assistere al pubblico linciaggio di una dignitosa signora.
Tony Blair avrebbe potuto aggiungere che la classe politica britannica non ha alcun interesse a modificare un sistema costituzionale ormai perfettamente adattato, soprattutto dopo la morte della regina Vittoria, alle proprie esigenze. A Buckingham Palace vi è un re (o una regina) che apre il Parlamento, passa in rassegna le truppe ed esporta nel mondo, con le sue visite, il folclore dell’antica grandezza imperiale.
Al n. 10 di Downing Street vi è un uomo (o una donna) che deve rendere conto della sua linea politica alla Camera dei Comuni, ma dispone di poteri che fanno schiattare d’invidia Silvio Berlusconi e Romano Prodi. Se il Primo ministro vuole sciogliere il Parlamento e indire le elezioni, la regina firma il decreto di scioglimento. Se vuole annunciare solennemente al Paese il suo programma di lavoro per i mesi successivi, la regina legge diligentemente di fronte alle Camere riunite il discorso preparato dai collaboratori del premier.
Se vuole fare della Gran Bretagna il maggior laboratorio sperimentale biologico del mondo, come è accaduto in questi anni con leggi che provocherebbero in Italia traumatiche battaglie istituzionali, il premier ne informa Elisabetta II per grandi linee nel corso dell’udienza settimanale prevista dalle consuetudini britanniche.
Il vero sovrano, nel Regno Unito, non è l’erede degli Hannover e dei Sassonia-Coburgo, divenuti Windsor in omaggio al sentimento nazionale durante la Grande guerra.Èil Primo ministro.
Ma è un sovrano pro tempore, pronto ad andarsene, se gli elettori non vorranno trattenerlo, alla fine di ogni legislatura.
Qualcosa del genere è accaduto, con una larga gamma di varianti, in molti altri regni. La sinistra si è accorta che la monarchia non è più, come in passato, il vertice di una organizzazione a rete, composta dall’aristocrazia terriera, le forze armate, la diplomazia e altri interessi conservatori della nazione. È semplicemente una sorta di Gran Notaio che conferisce legittimità e decoro ai passaggi importanti della vita costituzionale e frena, come lei ha giustamente osservato, eventuali spinte separatiste.
Instaurare un regime repubblicano là dove la monarchia svolge bene queste funzioni sarebbe una inutile perdita di tempo e, forse, un salto nel buio.
Non sono d’accordo con la sua lettera invece, caro Luppoli, là dove lei sostiene che fra il comportamento dei Savoia e quello delle altre monarchie europee non vi fu, durante la guerra, una grande differenza, e lascia intendere che anche la nostra famiglia reale avrebbe potuto restare sul trono. Vi furono anche altrove comportamenti ambigui e contestabili (come quello di Leopoldo III, re del Belgio), ma nessun’altra dinastia ebbe le responsabilità dei Savoia. Sono quindi repubblicano per ragioni simili a quelle per cui il mazziniano Francesco Crispi si dichiarò monarchico dopo la nascita del Regno d’Italia.
Quando dovette spiegare il suo cambiamento, Crispi disse: «La monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe». Io credo che la repubblica ci abbia (mediocremente) uniti e che la monarchia ci avrebbe irrimediabilmente divisi.

Sergio Romano
Corriere della sera, 12 settembre 2007

 
   
 

I crimini di Stalin

Caro Romano, a proposito del rapporto Pospelov sui crimini di Stalin, nonostante il legittimo dubbio che molti a Mosca fossero interessati alla sua diffusione, perché questo fu sempre disconosciuto dai vertici del partito come lo stesso Kruscev conferma nelle sue memorie?

Sergio Carrara

Se avesse pubblicamente riconosciuto l’autenticità del rapporto, la dirigenza dell’Urss avrebbe dovuto sconfessare Stalin, condannarne la memoria, perseguire tutti i collaboratori e complici del dittatore, rimettere in discussione due decenni della storia sovietica.
Preferì adottare una via prudente. Stalin fu rimosso dal mausoleo della piazza Rossa e sepolto lungo le mura del Cremlino. Molti prigionieri del gulag vennero liberati. Alcune vittime vennero riabilitate.
Ma il grande processo al passato non venne mai celebrato.
Per molti aspetti questo è il trattamento che i comunisti cinesi hanno deciso di riservare a Mao.

Sergio Romano
Corriere della sera, 12 settembre 2007

 
   
 

La Biagi e gli attacchi di sinistra ad Angius
Le leggi dettate dall'ideologia

di Sergio Romano
Gavino Angius, senatore di Sinistra democratica (il gruppo che si è staccato dai Ds di Piero Fassino e non intende collaborare alla creazione del Partito democratico) ha dichiarato al Corriere che l’attacco di Rifondazione comunista contro la legge Biagi sul mercato del lavoro è «sbagliato e strumentale (...) figlio di una degenerazione propagandistica che ha del grottesco». Non è vero, secondo Angius, che quella legge abbia prodotto un’ondata di precariato: «In questi anni il lavoro regolare, ancorché flessibile, è aumentato per milioni di giovani. Merito della legge Treu e in parte anche della Biagi. In questo modo si è contrastato in parte il lavoro nero. Perciò eliminare queste leggi sarebbe un’operazione folle». Nella sostanza questi paiono argomenti ragionevoli, sostenuti nelle scorse settimane da studiosi e uomini politici di diverso colore, spesso con dati comparativi sulla situazione italiana e quella di altri Paesi dell’Unione Europea. I sostenitori di tesi opposte dovrebbero replicare con altri argomenti e soprattutto con altri dati statistici.
Ma le parole di Angius al Corriere hanno il vizio di provenire da un senatore di sinistra, vale a dire da un uomo che dovrebbe affermare esattamente l’opposto. Scatta così ancora una volta il meccanismo delle contrapposizioni ideologiche e soprattutto dei sospetti. Con un articolo di Rita Gagliardi, Liberazione, quotidiano di Rifondazione comunista, si chiede quali siano le reali intenzioni di Angius. E’ «uno spregiudicato uomo di manovra »? E’ una quinta colonna del Partito democratico? E’ un tenace avversario della «Cosa Rossa», la nuova formazione che dovrebbe nascere dall’incontro tra Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi e Sinistra democratica? Appartiene a quella schiera di socialdemocratici europei (Blair e Brown, per esempio) che sono diventati centristi, liberisti, social- liberali? Non si rende conto che la battaglia contro la legge Biagi è «una grande insostituibile battaglia di civiltà»?
Nulla di nuovo, soprattutto in un Paese in cui i principi sono più importanti delle soluzioni, gli slogan contano più degli argomenti e le leggi sono buone soltanto quando si conformano ai dettati dell’ideologia. In queste eterne «grandi manovre» tra forze che si fanno e si disfano in nome del Vero e del Giusto, Treu e Biagi sono soltanto campi di battaglia, munizioni per la lotta, strumenti per mettere alla prova l’ortodossia del dissidente e dell’eretico. La vittima di questa ennesima faida italiana è l’economia nazionale. Dovremmo parlare delle ragioni per cui una legge, probabilmente utile negli anni Settanta (lo Statuto dei lavoratori), sia poco adatta a regolare un mercato che le nuove tecnologie e la globalizzazione hanno radicalmente cambiato. Dovremmo chiederci quale siano le esigenze del Paese oggi e come sia possibile conciliare la domanda di stabilità dei lavoratori con il bisogno di flessibilità delle imprese.
Dovremmo verificare i risultati di una legge con le cifre alla mano, fare i necessari aggiustamenti, tenere d’occhio i risultati piuttosto che gli schemi intellettuali. Ma la politica italiana, a sinistra come a destra, preferisce i proclami ideologici e le reciproche accuse. Divinizzata dalla destra al di là dei suoi meriti, la legge Biagi viene ora demonizzata da una sinistra massimalista che ignora i suoi risultati e non tiene conto dei suoi limiti. Questa politica non vuole cittadini elettori. Vuole soltanto seguaci credenti e obbedienti, sempre pronti a manifestare e a contro-manifestare. Peccato che altri Paesi nel frattempo abbiano altri metodi di lavoro e allunghino con il loro passo la distanza che li separa dall’Italia.
Corriere della sera, 19 agosto 2007

 
   
 

I tormenti del Partito democratico
Intellettuali silenziosi

di Sergio Romano
Il Partito democratico sta nascendo con difficoltà e sarà probabilmente, anche se i suoi creatori sperano di battezzarlo con una forte partecipazione popolare alle primarie per la scelta del leader, il risultato di una intesa «al vertice» fra consigli d'amministrazione. Ma vuole ridurre il numero dei partiti e semplificare la scena politica italiana: un obiettivo che potrebbe favorire un progetto analogo nel centrodestra e che dovrebbe essere condiviso da chiunque desideri una democrazia in cui gli elettori possano scegliere fra programmi distinti.
Dovrebbe interessare in particolare tutti quegli intellettuali (artisti, studiosi, scrittori) che hanno lamentato in questi anni l'impotenza della sinistra e sono saliti sul palcoscenico, all'epoca dei girotondi, per manifestare pubblicamente la loro irritazione verso gli apparati dirigenti dell'opposizione di allora. Ma gli intellettuali, in questa fase della politica nazionale, sono assenti. Qualche studioso attento (Gianfranco Pasquino ad esempio) esprime la sua preoccupazione con osservazioni puntuali cui i Ds e la Margherita dovrebbero prestare attenzione. Ma la maggioranza dell'intellighenzia nazionale se ne sta in disparte, scettica e imbronciata, come se l'operazione fosse troppo grigia e burocratica per meritare commenti e adesioni.
E' uno spettacolo cui non siamo abituati. Viviamo in un Paese dove per un intero secolo, dalla Voce
di Prezzolini sino alla grande mobilitazione anti- berlusconiana degli ultimi anni, gli intellettuali sono stati sempre «impegnati », se non addirittura organici e militanti. Hanno firmato manifesti, hanno scritto poesie di intonazione politica, hanno offerto la penna e il pennello alla Causa, hanno accettato candidature parlamentari, hanno dibattuto e disquisito sui giornali. Ma la nascita del Partito democratico non sembra appassionarli. Per questa nuova creatura della politica italiana vi è più interesse fra gli «uomini della strada» di quanto non ve ne sia fra coloro che venivano chiamati
maîtres à penser esi consideravano la coscienza critica della nazione.
Se questa indifferenza segnalasse il declino dell'intellighenzia come ordine sacerdotale, poco male. Confesso di non avere mai capito perché un letterato, un professore universitario, un attore o un regista cinematografico debbano essere più autorevoli, quando è in gioco la politica nazionale, di un imprenditore, di un professionista o di un operaio. Se questa categoria di saccenti onnicompetenti lo avesse infine capito e badasse d'ora in poi soltanto a fare bene il proprio mestiere, tanto meglio. Ma temo che il loro silenzio, in questo caso, sia dovuto alla natura del partito che sta nascendo.
Non amano il Partito democratico perché ha il grave difetto, ai loro occhi, di non essere ideologico. Si entusiasmano per i «partiti-religione» — come furono fascismo, comunismo e cattolicesimo di sinistra — perché offrono all'intellighenzia una cattedra ideologica da cui impartire consigli, lanciare ammonimenti, disegnare scenari futuri. Vogliono essere custodi del Libro, oracoli, consiglieri del principe. Vogliono rendere servizi a chi li ripagherà dando soddisfazione alla loro insaziabile vanità. Ma un partito senza ideologia, realista e pragmatico, deve navigare a vista fra gli scogli della realtà e può scegliere i propri consiglieri, quando ne ha bisogno, soltanto fra esperti e tecnici di specifiche discipline. Il fatto che gli intellettuali manifestino malumore, quindi, è un buon segno. Significa che il progetto ha qualche possibilità di andare in porto.
Corriere della sera, 12 agosto 2007

 
   
 

Veltroni e la riforma della Costituzione
Il paradosso italiano

di Sergio Romano
Per candidarsi alla guida del Partito democratico, Walter Veltroni avrebbe potuto limitarsi al discorso di Torino: un buon programma, pieno di indicazioni interessanti e condito di qualche inevitabile enfasi retorica. Ma con l’articolo apparso nel Corriere del 24 luglio ha preferito dire al Paese che i problemi dell’Italia sono anzitutto costituzionali. Non è sufficiente, e neppure onesto, proporre soluzioni economiche e sociali quando l’autore del programma sa che il sistema politico non gli permetterà di realizzarle. Se la democrazia italiana attraversa una fase difficile e i suoi esponenti stanno perdendo il consenso della nazione, molto è dovuto al divario che separa ormai le promesse dai risultati, le parole dai fatti.
L’elettore è stanco di partiti e governi che gli garantiscono programmi attraenti e gli servono ogni giorno compromessi mediocri o, peggio, l’opposto di quello che avevano preannunciato. Veltroni ha avuto il merito di comprendere che il programma economico e sociale andava completato con un programma di riforme istituzionali. Anziché attendere un altro momento o un’altra sede, ha deciso che non si può essere candidati alla guida di un partito, in questo momento, e trascurare il nodo cruciale della crisi italiana, la causa della distanza che ci separa ormai dalle maggiori democrazie occidentali. Dietro i molti problemi che non riusciamo a risolvere, se non con misure insufficienti e grande ritardo, vi sono il bicameralismo perfetto, l’insabbiamento in Parlamento delle misure governative, gli scarsi poteri del premier, le norme che favoriscono la proliferazione dei gruppi parlamentari e la piaga dei piccoli partiti, per i quali sopravvivere è più importante che governare. In queste condizioni un altro programma di 281 pagine sarebbe un’offesa al buon senso degli italiani. Veltroni, naturalmente, ha corso un rischio.
Puntualmente, nei giorni seguenti, sono giunte le prime reazioni negative: un articolo di Andrea Fabozzi sul manifesto del 26, in cui è detto che la cura somministrata dal sindaco di Roma assomiglia a una «dose di veleno», e un editoriale di Piero Sansonetti su Liberazione dello stesso giorno, in cui la riforma costituzionale è definita «gollista». Vi saranno altre reazioni, certamente, anche sul versante opposto. Chiunque sostenga che l’Italia ha bisogno di essere governata verso la modernità è inevitabilmente destinato a scontrarsi con coloro a cui questo sistema politico offre una quota di potere assurdamente superiore alle loro dimensioni. Esistono tuttavia anche quelli che riconoscono la necessità di una grande riforma, che l’hanno più volte auspicata e che hanno addirittura, come l’ultimo governo di centrodestra, cercato di realizzarla.
Si chiamano, per restare nell’orbita dei leader, Amato, Berlusconi, D’Alema, Fassino, Fini, Prodi, tutti convinti, per averne fatto diretta esperienza negli anni passati al governo, che il sistema politico italiano è uno dei peggiori in Europa e certamente il meno adatto a tenere il passo con quelli dei nostri maggiori partner. Ma l’ennesimo paradosso italiano vuole che ciascuno di essi, quando è messo alle strette, scelga di tirare avanti alla giornata con i propri alleati, anche se ostili alle riforme, piuttosto che ricercare un accordo più largo con coloro che le desiderano.
Esiste insomma un «partito della nuova Costituzione» che rappresenta la maggioranza del Paese ma è tenuto in ostaggio da una minoranza conservatrice di sinistra e di destra. Oggi, dopo l’articolo di Veltroni, c’è sul tavolo delle riforme il suo decalogo. E’ ora che gli altri accettino di sedersi e lavorare insieme alla modernizzazione del sistema politico.
Corriere della sera, 29 luglio 2007

 
   
 
Il friulano non è la lingua di una minoranza

Il Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia si appresta ad approvare in via definitiva un disegno di legge imposto da Illy, incalzato a sua volta da Rifondazione Comunista, che sancisce l'insegnamento obbligatorio del friulano nelle nostre scuole se non espressamente rifiutato dai genitori. Un gioco politico, in vista delle elezioni regionali del prossimo anno, volto a soddisfare le richieste degli autonomisti friulani e a sorpassare il Movimento Friuli e la Lega Nord. Chissà quanti genitori distratti e non informati troveranno i propri figli iscritti a scuola di friulano, che dovrebbe in seguito sostituire l'italiano nell'insegnamento di tutte le materie. Non si riesce a immaginare i costi di questa dittatura linguistica, che prevede l'arruolamento di un esercito di 8 mila docenti e una miriade di testi scolastici tali da conservare le numerose varianti lessicali se non si vuole ricorrere a un friulano standardizzato.
Trova giusto che il Friuli volti le spalle all'Italia e alla lingua di Dante, Leopardi e Manzoni?

Antonio Napolitano, Trieste

Caro Napolitano, ricordo ai lettori che la legge regionale sull'insegnamento del friulano è giustificata, secondo il presidente del Friuli-Venezia Giulia Riccardo Illy, dalla legge nazionale n. 482, approvata nel 1999, che promuove la valorizzazione delle lingue minoritarie parlate nella penisola, e dall'art. 6 della Costituzione in cui è scritto: «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche». In un articolo pubblicato dal Corriere del 18 settembre, uno dei maggiori linguisti italiani, Tullio De Mauro (storico della lingua e ministro della Pubblica istruzione dall'aprile del 2000 al giugno del 2001), ha raccontato che la legge nacque, anche se con grande ritardo, da un suo studio del 1974 sullo stato delle minoranze linguistiche in Italia. Un primo progetto legislativo fu approvato dalla Camera dei deputati, ma si insabbiò al Senato e dovette attendere, per diventare legge dello Stato, ancora dieci anni. De Mauro, quindi, è favorevole alla decisione del Friuli- Venezia Giulia e lo ha detto anche in una intervista al Piccolo di Trieste del 5 settembre. Sa che esistono «problemi pratici, di organizzazione, perché un istituto scolastico si metta in grado di offrire questo servizio ad allievi, famiglie e cultura del luogo: scegliere insegnanti in grado di impartire l'insegnamento di una materia in friulano e, in generale, in una lingua diversa da quella abituale nell'insegnamento scolastico; formare opportunamente gruppi di allievi che accettino l'impresa». Ma crede che il «gioco valga la spesa». Io invece, caro Napolitano, non ne sono sicuro. Non mi sembra giusto, anzitutto, sostenere che l'insegnamento pubblico del sardo e del friulano sia implicitamente previsto dall'art. 6 della Costituzione. Non credo che sardi e friulani (per fare due esempi spesso ricordati negli ultimi anni) possano considerarsi minoranze, nel senso in cui la parola è stata generalmente utilizzata per le popolazioni che hanno un'altra patria di riferimento o non appartengono alla storia unitaria del Paese di cui sono cittadini. Sardi e friulani hanno dato a questo Paese un grande numero di parlamentari, uomini di Stato, generali, magistrati, imprenditori; e non hanno mai avuto bisogno per le loro carriere pubbliche e private di una particolare protezione. Non credo, in secondo luogo, che l'insegnamento pubblico di una lingua arcaica, priva di qualsiasi importanza veicolare, debba considerarsi una responsabilità dello Stato e delle sue autorità locali. Riccardo Illy osserva che l'insegnamento del friulano è «aggiuntivo», non sostitutivo. Ma «aggiungerà » al bilancio regionale una spesa supplementare e comporterà un impegno finanziario che potrebbe essere utilizzato per altri scopi. Al Workshop Ambrosetti, che si è tenuto come ogni anno a Cernobbio nei primi giorni di settembre, il presidente del Friuli-Venezia Giulia ha illustrato i programmi della sua regione e ne ha sottolineato il carattere mitteleuropeo. Ma non sarebbe meglio, allora, insegnare, oltre all'inglese, soprattutto il tedesco e lo sloveno? Vi è infine un'ultima considerazione che mi sembra, sotto il profilo umano, particolarmente importante. Il Friuli non appartiene ai friulani. Appartiene a coloro che vi abitano e vi lavorano, quale che sia la loro origine, rispettandone lo stile e l'etica. Non mi sembra giusto mettere queste persone nella condizione di scegliere, per i loro figli, l'insegnamento del friulano o l'esonero. Non mi sembra giusto creare una distinzione fra coloro che parlano il friulano e coloro che non lo parlano, fra gli «interni» e gli «esterni».

Sergio Romano
Corriere della sera, 14 settembre 2007

 
   
 

Parlare in tedesco

Caro Romano, è vero che Adenauer, De Gasperi e Schuman, padri della moderna Europa, parlavano tra loro in tedesco? Se così fosse sarebbe davvero curioso: comunicavano tra loro nella lingua della nazione sconfitta.

Francesco Valsecchi

De Gasperi era stato parlamentare austriaco a Vienna e a Innsbruck, e Robert Schuman conosceva il tedesco perché era alsaziano. Era naturale quindi che usassero la lingua con cui ciascuno dei tre aveva grande familiarità. Aggiungo che il tedesco non era la lingua di una nazione sconfitta. Era la lingua di una grande cultura europea.

Sergio Romano
Corriere della sera, 14 settembre 2007

 
   
 

La marcia su Roma

Caro Romano, ho letto un libro di Indro Montanelli, «L'Italia in camicia nera», dedicato ai primi anni del fascismo, dove racconta come la «gloriosa marcia su Roma» dell'ottobre 1922, tanto decantata dal regime del ventennio, fu praticamente svuotata di ogni significato data l'assegnazione dell'incarico, il 30 ottobre, a Mussolini, da parte del re, di formare il nuovo Governo. Il duce fu comunque costretto a far entrare le bande fasciste (intorno a 70.000 persone) nella capitale dove si abbandonarono a gozzoviglie di ogni genere per poi sfilare, il mattino del 31 ottobre, davanti al re che dovette anche applaudirle dal balcone del Quirinale. Vorrei sapere se concorda con questa ricostruzione di Montanelli circa quell'episodio.

Renato Cimino

Montanelli ha ragione. Qualche sera fa abbiamo visto alla televisione, in un programma curato da Nicola Caracciolo, la sfilata dei fascisti di fronte al Quirinale. A fianco del re, se non sbaglio, vi erano in quella occasione il generale Diaz e l'ammiraglio Thaon de Revel, vale a dire i maggiori rappresentanti delle forze armate.

Sergio Romano
Corriere della sera, 14 settembre 2007

 
   
 

Beppe Grillo e il carnevale della politica

Vorrei chiederle come si sente da giornalista riguardo all’approccio che l’informazione ha avuto nei confronti del ben noto V-day. L’organizzazione dell’evento è partita a giugno, e per i tre mesi seguenti l’epurazione di qualsiasi informazione al riguardo è stata, come dire, scientifica, da parte di tutti (televisioni e giornali, destre e sinistre). Nel momento in cui milioni di italiani direttamente o indirettamente si sono riuniti in tutto il mondo (le parlo da Londra) per manifestare il loro dissenso, è iniziata una scientifica demolizione delle ragioni alla base dell’evento. Si cerca di mistificare con l’accusa di populismo quando si sono fatti nomi e cognomi, proposte e direzioni. E cosa ne pensa del fatto che, credo per la prima volta, la rete sia riuscita a bypassare completamente tutti gli altri media, a organizzarsi in maniera perfetta, a autoinformarsi? Dico questo non perché siamo arrabbiati per la mancanza di informazioni né amareggiati per le mistificazioni. Siamo usciti dall’8 settembre con una sicurezza in più, quella di non aver più bisogno di questa informazione. Mi piacerebbe avere il suo punto di vista, non tanto sui contenuti ma sul rapporto tra media e popolazione dopo il V-day.

Simone Querzoni

Caro Querzoni,
non posso parlare per il giornalismo italiano. Ma posso cercare di spiegarle le ragioni per cui l’iniziativa di Beppe Grillo non mi è piaciuta e per cui anche oggi, sollecitato dalla sua lettera, ne parlo con molto disagio.
Gli sconfinamenti politici di attori, teatranti e umoristi appartengono, da Aristofane in poi, alla storia delle democrazie occidentali. Il partito dell’Uomo Qualunque, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, venne fondato da un commediografo (Guglielmo Giannini) e godette per qualche tempo di un successo sensazionale. Quando ho letto che Fausto Bertinotti, in questi giorni, ha riconosciuto il ruolo di Grillo («colma un vuoto ») mi è tornato alla mente che anche Palmiro Togliatti, tra la fine del 1946 e gli inizi del 1947, cercò di abbozzare un dialogo con il leader dei qualunquisti.
Vi sono stati da allora altri sconfinamenti. Negli anni Cinquanta, Leo Longanesi, geniale editore, scrittore, artista e disegnatore satirico, cedette per un brevissimo periodo alla tentazione della politica e permise la formazione di un movimento che si sarebbe intitolato, dal nome del suo settimanale, «Circoli del Borghese». Più recentemente abbiamo avuto Nanni Moretti e i suoi girotondi. E negli ultimi due decenni in Francia (un Paese con cui abbiamo in comune poche virtù e molti difetti) vi è stato il caso di due chansonniers-cabarettisti di origine italiana che sembrarono sul punto di candidarsi alla presidenza della Repubblica.
Il primo era Yves Montand, il secondo Michel Colucci, meglio noto con la pseudonimo di Coluche.
Ciascuno di questi casi presenta le stesse caratteristiche. Il «teatrante» ha una grande capacità di comunicazione, mette alla berlina la classe politica, risveglia le frustrazioni e i risentimenti di una parte della società. Il fenomeno assomiglia per molti aspetti al carnevale, vale a dire a quella parentesi, nel corso dell’anno, in cui è permesso di trasgredire e sovvertire le regole della vita civile. La irresistibile ascesa del comico-politico dura generalmente qualche mese o pochi anni e si spegne quando il pubblico si stanca di ascoltare sempre le stesse battute o si accorge che nessuna soluzione politica potrà mai venire dal mondo dell’avanspettacolo.
Così accadrà, suppongo, anche nel caso di Beppe Grillo.Ma il carnevale in questa occasione è stato particolarmente plebeo e volgare. Per coloro che cercano di raffreddare i bollori e le intemperanze della politica italiana, lo spettacolo di Bologna è stato sconfortante. Il successo di Grillo dimostra indubbiamente che la classe politica italiana ha perduto gran parte della sua credibilità.
Ma dimostra altresì che vi sono in tutti noi sentimenti beceri e forcaioli che un tribuno del palcoscenico può risvegliare.
Vengo infine alla sua domanda.
Credo che lei abbia ragione.
La«rete» ha creato una informazione alternativa che ha un alto grado di spontaneità e auto-organizzazione.
I mezzi d’informazione tradizionali dovranno tenerne conto e fornire al lettore, sempre di più, le inchieste, le analisi e le riflessioni che i blog non possono dare.

Sergio Romano
Corriere della sera, 13 settembre 2007

 
   
 

Il taglio delle risorse

Caro Romano, a proposito dei tagli che vengono invocati praticamente da tutti (ministro Padoa-Schioppa, economisti, commentatori politici, opinionisti, ecc.) vorrei che mi spiegasse una cosa che non riesco proprio a capire. Premesso che, come tutti riconoscono, in Italia una delle priorità assolute è il funzionamento dei servizi pubblici essenziali (giustizia, scuola, trasporti, sanità, ecc.) il cui standard è nettamente al di sotto rispetto agli altri Paesi europei, come è possibile migliorare l’efficacia e l’efficienza di questi servizi se vengono tagliate le risorse a loro destinate? Per esempio, come è possibile accelerare i processi, se si riducono i fondi e le risorse nel comparto giustizia (meno personale, computer, mezzi, ecc.). Come è possibile far funzionare meglio i trasporti, se vengono tagliati i fondi ?
Lo stesso dicasi per la sanità, e per l’istruzione. Forse è un mio limite, ma non riesco a capire il meccanismo per cui, riducendo le risorse, i servizi automaticamente funzioneranno meglio.

Ettore Paolino

di principio, sono giuste.
Ma dietro la richiesta di fondi si nasconde spesso il desiderio di non affrontare il problema degli sprechi e delle inefficienze di cui ogni ministero è responsabile.
Tenendo stretti i cordoni della borsa il ministro dell’Economia spera probabilmente di costringere i colleghi a usare meglio il denaro di cui dispongono.

Sergio Romano
Corriere della sera, 13 settembre 2007

 
   
 
Putin, i suoi ragazzi e la grande patria russa

Le scrivo a proposito dei movimenti giovanili in Russia e per chiederLe un parere.
È possibile che tutto quello che accade in quel Paese sia per forza di cose manipolazione, propaganda o ritorno al passato? Seguo la Russia da poco, e magari sono un ingenuo, ma chiedo: come mai è così difficile ammettere in Occidente che la Russia abbia intrapreso un percorso suo, che non è come il nostro, ma semplicemente «à la russe»? Ne è un esempio il sito www.noputin.com e il movimento di quelli che camminano senza Putin (Iduscie bez Putina) di segno opposto rispetto al movimento su cui si è maggiormente soffermata in questi tempi l'attenzione della stampa. Si afferma spesso che la Russia non abbraccia tutti i valori occidentali. Io credo di no, credo che i nostri valori vengano declinati alla russa. Ciò non toglie che deficit in termini di democrazia ne esistano, fra cui, in particolare, polizia corrotta e arbitraria e stampa tutt'altro che libera. Ma non dimentichiamo che le persone con mentalità da guerra fredda esistono non solo in Russia, ma anche nella nomenklatura occidentale. Il livello del confronto è elevato, i toni aspri, ma si sbaglia in due. E ha ragione il commissario europeo Peter Mandelson, secondo cui i dissapori nascono dalle diverse percezioni e interpretazioni degli anni '90, che hanno suscitato aspettative sbagliate.

Valerio Fabbri

Caro Fabbri, ricordo ai lettori che il movimento giovanile voluto da Putin, di cui lei parla nella sua lettera, si chiama Nashi (i nostri), ha un forte carattere patriottico e appartiene a quella che lo storico americano Paul Kennedy (intervistato da Ennio Caretto per il Corriere del 30 agosto) ha definito una «rivoluzione culturale». Si tratterebbe in altre parole, secondo lo storico americano, di una istituzione comparabile alla «Hitler Jugend» con cui il Führer decise di «plasmare» la gioventù germanica. Kennedy, scrive Caretto, non si spinge sino a paragonare Putin a Hitler, ma osserva «che oggi ai nashi s'insegnano, oltre ai valori tradizionali, anche la diffidenza per lo straniero che minaccia lo stile di vita russo». Per lo studioso di Yale è allarmante in particolare «il fatto che decine di migliaia di nashi controlleranno il voto e condurranno sondaggi alle elezioni del prossimo dicembre e marzo » (le prime per il rinnovo della Duma, le seconde per l'elezione del presidente, ndr). I Nashi, caro Fabbri, non piacciono neanche a me, soprattutto perché mi ricordano, piuttosto che la Hitler Jugend, i «pionieri» dell'epoca sovietica e i balilla dell'epoca fascista. Aggiungo che non mi piacerebbero nemmeno se assomigliassero soltanto ai boy scout perché diffido di tutti i movimenti giovanili in cui s'intravede il rischio della manipolazione e la voglia dell'«uomo nuovo ». Ma riconosco che Putin ha una preoccupazione a cui le classi dirigenti europee sono generalmente poco sensibili. Vuole preservare e ribadire la continuità della grande patria russa, da Ivan il Terribile a Pietro il Grande, dalla Grande Caterina ad Alessandro II (lo zar che liberò i servi della gleba), dalla rivoluzione d'Ottobre alla creazione dello Stato sovietico. Mentre noi europei occidentali siamo disposti a tollerare che nelle nostre scuole si parli male del Risorgimento, del colonialismo, degli imperi europei in Africa e in Asia, Putin vuole restituire alla coscienza nazionale la maggior parte del passato russo. Persegue questa politica, naturalmente, perché è stato comunista, colonnello dei Kgb, membro sin da giovane di una classe dirigente a cui lo Stato sovietico aveva conferito autorità e prestigio nel mondo. Ma credo che abbia altri motivi più politici e ideali. Non può rinunciare allo Stato nazionale. Non può correre il rischio di intaccare la legittimità di una creazione storica che è il risultato di una continua accumulazione imperiale, dal Granducato di Moscovia all'Urss, dal Dnepr ucraino all'Ussuri cinese. La Russia è troppo grande, troppo eterogenea e ineguale, troppo insidiata da potenziali movimenti secessionisti, perché il sovrano a Mosca (chiunque egli sia) possa permettersi il lusso di trattare il passato nazionale con la sprezzante noncuranza con cui è stato trattato nelle democrazie occidentali. Temo che Putin, in molte circostanze, abbia perseguito il suo obiettivo con una certa brutalità e abbia dato mano libera a collaboratori spregiudicati. Ma credo che l'Europa potrà meglio formulare le sue riserve e preoccupazioni soltanto se nel frattempo avrà cercato di capire i problemi che il presidente russo deve affrontare.

Sergio Romano
Corriere della sera, 15 settembre 2007

 
   
 
Lo sviluppo del Kurdistan e l'industria italiana

Si è tenuta in questi giorni a Erbil- regione curda dell'Iraq- una manifestazione fieristica tutta italiana a cui hanno partecipato ottanta aziende tra grandi, medie e piccole. Numerosi contratti, con le dovute garanzie di pagamento, sono stati siglati tra i nostri operatori e gli imprenditori e i trader locali. Questa Fiera è stata organizzata da una impresa privata italiana specializzata nell'organizzazione di tali eventi e io ho rappresentato ufficialmente il nostro Paese nella cerimonia di inaugurazione. Il successo non è stato solo economico ma anche di immagine generale per l'Italia e la sua economia. L'evidenza della relativa tranquillità e del grande sviluppo in atto nella regione mi sono stati confermati durante i colloqui privati che ho potuto avere sia con il presidente Massoud Barzani che con molti ministri del locale Governo regionale. Ho respirato un'aria di discreto ottimismo per gli sviluppi futuri anche per ciò che riguarda il resto dell'Iraq. Ciò soprattutto grazie agli accordi recentemente sottoscritti in Bagdad dalla maggior parte delle varie componenti della società irachena. Il futuro si annuncia quindi migliore per quel martoriato Paese e anche per i nostri interscambi con quella regione.

Dario Rivolta, Camera dei Deputati

Caro Rivolta, il Kurdistan iracheno è un paradosso politico ed economico. Ha due partiti familiari e tribali (quello dei Barzani e quello dei Talabani) che hanno combattuto una sanguinosa guerra civile alla fine degli anni Novanta e amministrano ora due distinte regioni del Paese. Non ha un sistema fiscale (nessuno praticamente paga le tasse). Ha petrolio, ma non controlla gli oleodotti. Ha un Pil (prodotto interno lordo) difficilmente calcolabile. Ed è circondato da Paesi che lo tengono d'occhio con diffidenza. Ma ha un forte sentimento nazionale, irrobustito dalle persecuzioni dell'epoca di Saddam, e una forza militare (circa duecentomila peshmerga) che è di gran lunga la più efficace e disciplinata, dopo il corpo di spedizione americano, dell'intero Iraq. I due patriarchi della politica curda (Massoud Barzani, presidente della regione di Erbil, e Jalal Talabani, presidente dello Stato federale iracheno) si sono rappacificati e hanno deciso di giocare nella stessa squadra. I ministri sembrano essere preparati e intelligenti. La pubblica amministrazione è pletorica, ma svolge bene o male i suoi compiti. Un ultima osservazione, particolarmente importante: mentre le altre province irachene sono sconvolte dalla violenza pubblica e privata, il Kurdistan è complessivamente tranquillo e bene amministrato. Gli industriali e i banchieri se ne sono accorti. Le compagnie petrolifere hanno già negoziato contratti per il giorno in cui la regione potrà più liberamente disporre delle proprie ricchezze. L'aeroporto internazionale di Erbil è stato costruito da imprese turche e britanniche. L'intercambio con la Turchia è fiorente. E l'inviato speciale dell'Economist, durante un viaggio recente nella capitale della regione, ha incontrato petrolieri norvegesi, banchieri libanesi, mercanti del Dubai. È utile quindi che anche gli industriali italiani si siano accorti dell'esistenza di un interessante mercato potenziale. Quando al "discreto ottimismo " del presidente Barzani, caro Rivolta, non ne sono sorpreso. I curdi sono tenaci, hanno fiducia in se stessi e un comprensibile interesse a disegnare, nei loro rapporti con i visitatori stranieri, un futuro corrispondente alle loro aspettative. Male sorti dell'Iraq non sono nelle loro mani e, a giudicare dalla prudenza con cui il generale Petraeus ha descritto nel suo rapporto la situazione del Paese, nemmeno in quelle degli americani.

Sergio Romano
Corriere della sera, 16 settembre 2007

 
   
 

Tribunali speciali?

Caro Romano, potrebbe essere una soluzione nella lotta alle organizzazioni mafiose l'istituzione di tribunali speciali,da collocare in luoghi chiave, che si occupino esclusivamente di reati di mafia, in modo tale da rendere più snelle e veloci le operazioni giudiziarie?

Piergiorgio Stella

L'art. 102 della Costituzione dice: "La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario. Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura". Un tribunale della mafia, se mai si vorrà costituirlo, dovrà tenere conto di queste norme.

Sergio Romano
Corriere della sera, 16 settembre 2007

 
   
 

Gli intrecci tra finanza e politica
Minimizzare è un errore

di
Sergio Romano
Massimo D’Alema ha ragione quando deplora queste intercettazioni telefoniche, appese come panni sporchi alle finestre del Paese di fronte allo sguardo «trascurato» della magistratura. Non è bello che una conversazione privata, soprattutto se non contiene indizi di reato, venga ascoltata, trascritta e gettata in pasto alla pubblica opinione. È grave che queste intrusioni surrettizie nella vita privata degli italiani stiano diventando lo strumento preferito della magistratura inquirente. Ed è ancora più grave che servano ad accrescere l’instabilità politica di un’Italia già così faziosa e litigiosa.
Ma temo che il vicepresidente del Consiglio, in questo caso, non abbia colto il punto. Certe intercettazioni assomigliano a una delazione anonima e dovrebbero suscitare un moto di sdegno. Ma se apro una lettera anonima e scopro che contiene informazioni importanti per la sicurezza e il buon governo del Paese, debbo forse stracciarla per ragioni di principio? Posso deplorare l’uso eccessivo delle intercettazioni e il modo in cui vengono divulgate. Posso auspicare una legge che protegga la vita privata degli italiani da questi pubblici linciaggi. Ma non posso ignorare che la lettura di certe conversazioni e di alcuni verbali d’interrogatorio (come quello di Stefano Ricucci sui legami esistenti fra le scalate dell’estate del 2005) ha spalancato le finestre del palazzo e ha rivelato l’esistenza di rapporti su cui è necessario fare chiarezza.
Abbiamo scoperto anzitutto che esiste al vertice del Paese, fra gli uomini della politica e quelli degli affari, una familiarità non meno «indecente» dello spettacolo a cui D’Alema ha fatto riferimento nella sua intervista al TG5. Quando trattano con i loro amici, alcuni leader di partito, membri del governo e parlamentari parlano il linguaggio del bar, della caserma e dello stadio. Non è semplicemente una questione di stile e di buona educazione. Il linguaggio, in questo caso, dimostra che non hanno il sentimento della loro dignità e della distanza che dovrebbe sempre esservi, anche in un sistema democratico, fra coloro che rappresentano interessi pubblici e coloro che rappresentano interessi privati.
Abbiamo scoperto, in secondo luogo, che alcune conversazioni vanno molto al di là della semplice informazione. Posso capire che un uomo politico non voglia apprendere dai giornali, all’ultimo momento, la notizia di una fusione o di una acquisizione che modifica il panorama della finanza nazionale. Ma vi sono circostanze in cui sembra diventare un interessato collaboratore. Accade quando il segretario dei Ds Piero Fassino chiede al presidente di Unipol Giovanni Consorte come comportarsi con il presidente della Banca Nazionale del Lavoro Luigi Abete quando questi gli farà visita, di lì a poco.
Accade quando il senatore Nicola Latorre accetta di trasmettere a Fassino i ringraziamenti dell’immobiliarista Stefano Ricucci per un non specificato favore. E accade infine quando D’Alema sembra essere il tramite di un contatto fra Consorte e il parlamentare europeo dell’Udc Vito Bonsignore per una questione di azioni della Bnl detenute da un’azienda della famiglia di quest’ultimo. È probabile che in nessuno di questi casi vi sia l’ombra di un illecito. Ma l’opinione pubblica ha il diritto di chiedersi se e quali interessi si nascondessero dietro una tale pasticciata confusione di ruoli. Non è tutto.
Dalla lettura di queste intercettazioni gli italiani hanno appreso che nei tre grandi arrembaggi del 2005 (alla Bnl, alla Banca Antonveneta e alla Rcs-Corriere della Sera) gli stessi finanzieri facevano i loro affari ora con la sinistra, ora con la destra. E hanno il diritto di chiedersi se i grandi partiti siano sempre pronti a litigare in pubblico, ma sempre altrettanto disposti a perdonare le loro rispettive colpe in privato.
Corriere della sera, 16 settembre 2007 17 giugno 2007

 
   
 
Quando politici e diplomatici parlano per non dire

Spesso leggendo libri di storia recente, ho notato che alcuni articoli di trattati internazionali si prestano a divergenti se non opposte interpretazioni per via del diverso significato delle lingue dei contraenti.
So che in passato la lingua diplomatica era il francese e ora l'inglese, ma lo spessore dei dizionari di tali lingue è diverso da quello dell’italiano.
Mi diceva tra l’altro un vecchio amico che la nostra lingua era «tremenda» per la precisione dei vocaboli e che ciò induce una certa diffidenza nei nostri riguardi nei consessi internazionali.
Alfredo Aschettino

Gradirei una sua risposta a una mia curiosità: esiste un documento o una qualsiasi fonte da cui rilevare le cento più frequenti parole che ricorrono nei discorsi dei nostri politici? Glielo chiedo perché ormai come tanti altri cittadini sono stanco di ascoltare sempre gli stessi proclami.
Enzo Nardozza

Alfredo Aschettino, Enzo Nardozza

Cari Aschettino e Nardozza,
le vostre lettere pongono quesiti diversi,ma pur sempre linguistici, e si prestano a una risposta comune. Non credo che esistano lingue più «precise» di altre.
E temo che in diplomazia, come in politica, il linguaggio sia spesso deliberatamente impreciso.
Talleyrand, se non ricordo male, diceva che la lingua era stata data agli uomini affinché potessero meglio nascondere il loro pensiero.EGeorge Orwell, autore di uno dei migliori romanzi politici del Novecento («1984»), scrisse un giorno: «Il linguaggio politico è costruito in modo da conferire alle bugie l’apparenza della verità e da far sembrare solido ciò che è soltanto aria».
Non è sorprendente quindi che i trattati internazionali si prestino spesso a differenti interpretazioni.
Il trattato di Uccialli, che l’Italia firmò con lo Stato etiopico nel maggio 1889, conteneva un articolo in cui era scritto che il negus si sarebbe servito del governo italiano «per tutte le trattative d’affari con altri governi». Ma la versione amarica dello stesso articolo dichiarava che il negus «può trattare tutti gli affari che desidera con i regni d’Europa mediante l’aiuto del regno d’Italia». Secondo la nostra versione, l’Etiopia sarebbe divenuta, dal momento della firma, un protettorato italiano.
Secondo la versione amarica, il negus sarebbe stato libero di usare o ignorare l’assistenza di Roma. Ne nacque una disputa linguistica che finì con la malaugurata guerra del 1895 e la sconfitta delle forze italiane a Adua nel maggio 1896.
Esiste un altro caso, più recente, in cui lo stesso documento si prestava a interpretazioni diverse. Dopo la guerra arabo- israeliana del 1967, le Nazioni Unite approvarono la risoluzione 242 in cui vennero indicate le condizioni per lo stabilimento di una pace duratura in Medio Oriente. Una di queste condizioni era il ritiro delle forze israeliane dai territori occupati.
Mafra il testo inglese e quello francese della risoluzione vi era una piccola differenza.
Secondo il testo francese, Israele avrebbe dovuto ritirarsi «des territoires occupés lors du récent conflict»; secondo il testo inglese «from territories occupied in the recent conflict ». Fra l’obbligo di ritirarsi «dai» territori occupati e «da» territori occupati esiste ovviamente una differenza sostanziale che il governo israeliano ha frequentemente sfruttato nelle trattative politiche degli anni successivi.
Non so, caro Nardozza, se esista un «lessico di frequenza » del linguaggio della classe politica italiana. Se esiste e qualche lettore vorrà segnalarlo, gliene saremo grati. Se non esiste, uno studioso potrebbe forse cogliere l’occasione e riempire questo vuoto. Per invogliarlo, ecco qualche suggerimento: valori, princìpi, solidarietà, eccellenza, sicurezza, strategia, centralità, fiducia, trasparenza, identità, comunità, radici, sviluppo sostenibile, crescita, educazione permanente, diritti di cittadinanza, diritto alla salute, professionalità, patrimonio, risorse umane, capitale umano, risanamento, rilancio, dialogo, opportunità, trasparenza, legalità, stabilità, equità, difesa dell’ambiente.
Se qualche censore della lingua mettesse al bando l’uso di queste parole, gli uomini politici non saprebbero più che cosa dire. E mentirebbero meno.

Sergio Romano
Corriere della sera, 17 settembre 2007

 
   
 

Un quesito

Caro Romano, non vi è dubbio che la storia non si fa con i se, ma la valutazione approfondita di eventi epocali che hanno segnato le sorti di una nazione o di tutta l’umanità ha spinto qualche studioso a immaginare cosa sarebbe potuto succedere se quell’avvenimento non si fosse verificato, per meglio capirne le conseguenze. Nel caso dell’Italia e del Secondo conflitto mondiale, molti si sono chiesti quale sarebbe stato il suo destino politico, economico e sociale, se fosse rimasta neutrale, come l’Inghilterra sollecitava offrendo anche delle contropartite.
Ma un interrogativo più intrigante che mi sono posto è cosa sarebbe successo se Mussolini nel 1941, dopo le sconfitte subite e avendo perso la certezza nella vittoria, si fosse ben guardato dal dichiarare guerra, comeirresponsabilmente fece, prima all’Unione Sovietica e agli Stati Uniti, gettando l’Italia in una immane catastrofe. Lei non ritiene che in questa eventualità, l’Italia pur sconfitta, sarebbe uscita molto meglio dal conflitto?

Sergio Matarasso

Non avremmo disperso in Russia quello che ancora restava delle nostre forze. Ma non dimentichi che Mussolini avrebbe dovuto continuare la guerra contro la Gran Bretagna e che gli inglesi avrebbero potuto contare pur sempre sull’aiuto americano in Africa del Nord e nel Mediterraneo.
Non credo che l’esito della guerra sarebbe stato sostanzialmente diverso.

Sergio Romano
Corriere della sera, 17 settembre 2007

 
   
 
L’eredità di De Gaulle e il nuovo presidente

Leggo spesso che il presidente Sarkozy viene confrontato con il generale De Gaulle. Per le idee politiche è sicuramente più vicino a De Gaulle di Chirac, ma vorrei far notare che forse per un aspetto era Chirac quello più vicino a De Gaulle.
Mi riferisco alla famosa conferenza stampa (14 gennaio 1963), nella quale il generale dissipava ogni possibile dubbio sui rapporti franco-americani. Rifiutò la proposta statunitense per una fornitura di missili Polaris e soprattutto mise il veto all’ingresso nel Mercato Comune della Gran Bretagna, da lui considerata il fedele partner degli Stati Uniti in Europa. De Gaulle voleva dare un chiaro stop alla leadership statunitense nel Patto Atlantico. Rifiutò investimenti statunitensi in Francia, ci furono aperte divergenze su come affrontare le crisi nel Terzo mondo (la Francia preferiva la neutralità) e poi su come gestire la proliferazione nucleare nel vecchio continente. Sarkozy, anche nella sua recente visita al «mon ami» G. W. Bush, durante le vacanze, non sembra imitare De Gaulle.

Martino Salomoni

Caro Salomoni,
De Gaulle voleva restituire alla Francia il suo vecchio ruolo di grande potenza dell’Europa continentale.Una delle sue prime iniziative diplomatiche dopo il ritorno al potere, nel 1958, fu la proposta di un direttorio tripartito, in seno all’Alleanza Atlantica, tra Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti.
Quando il presidente americano Eisenhower e il Premier britannico Macmillan respinsero la sua proposta, il generale si mise al lavoro senza indugio per definire una politica estera francese che non sarebbe stata soggetta all’egemonia degli Stati Uniti. Volle che la Francia avesse la propria arma nucleare.
Chiese alla Nato di ritirare le proprie basi militari dal territorio francese. Riconobbe la Cina comunista. Lasciò chiaramente intendere che disapprovava la politica degli Stati Uniti in Vietnam. Permise ai suoi consiglieri finanziari di lanciare una campagna contro la supremazia del dollaro.
Cercò di orientare il processo d’integrazione europea verso forme di associazione politica che avrebbero valorizzato il ruolo della Francia nel continente.
Si oppose all’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune perché ritenne, con ragione, che il governo di Londra, dopo la fallita spedizione di Suez nel 1956, avesse scelto di stare, in ogni circostanza, accanto agli Stati Uniti e sarebbe stato il «cavallo di Troia» dell’America in Europa.
Nelle grandi crisi internazionali dette prova di una impeccabile lealtà verso l’America.
Accadde nell’agosto 1961, quando la Germania dell’Est costruì un muro per separare i settori orientali da quelli occidentali dell’ex capitale tedesca.
E accadde nell’ottobre 1962, in una situazione ancora più grave, quando il presidente Kennedy denunciò pubblicamente la costruzione di rampe missilistiche sovietiche nell’isola di Cuba. Ma in molte altre circostanze non esitò a dissentire dall’America e a dirlo con chiarezza. Lei non ha torto, dunque, quando osserva che Chirac, soprattutto nella fase che precedette la guerra americana in Iraq, si comportò come un discepolo del generale.
Sul confronto fra Sarkozy e De Gaulle, invece, ho molti dubbi. Non so se il nuovo presidente sia filo-americano o nazionalista.
Non so se sia liberista o protezionista. Non so se sia europeista o euroscettico.
Mi colpiscono, naturalmente, l’attivismo, il dinamismo e il decisionismo.Manon ho ancora capito se siano strumenti al servizio di un grande disegno politico o non siano piuttosto le caratteristiche di un uomo sconfinatamente ambizioso, pronto a cambiare, pur di prevalere, i suoi obiettivi e le sue strategie. Penso in particolare alla legge per il contratto di primo impiego, voluta due anni fa dal Primo ministro Villepin: una formula molto interessante che Sarkozy, se dobbiamo credere ai suoi propositi riformatori, avrebbe dovuto sostenere con entusiasmo. Ma non appena si accorse che la legge non piaceva né ai giovani né ai sindacati, il riformatore preferì fare un passo indietro e assistere dalle quinte al fallimento del progetto.

Sergio Romano
Corriere della sera, 18 settembre 2007

 
   
 

Un manovratore

Caro Romano, sono assolutamente d’accordo con quanto si prefigge il movimento di Beppe Grillo. Mi sono accorto però, che in tal modo sarei un qualunquista e un populista.Maallora vige la regola: non disturbare il manovratore?

Pasquale Mirante

Nelle democrazie vale la regola che occorre disturbare sempre il manovratore. Ma non dimentichi che anche Beppe Grillo, a modosuo, è un manovratore.

Sergio Romano
Corriere della sera, 18 settembre 2007

 
   
 
Perché Russia e Cina sono differenti

Perché la Cina sì e la Russia no? È da tempo che faccio questa domanda ma ottengo, anche da persone non banali, risposte banali tipo: «I cinesi sono operosi», «La dittatura assicura efficienza», ecc.
Eppure, quando la rincorsa è cominciata una ventina d’anni fa, i russi erano molto più vicini al nostro mondo per tecnologie, infrastrutture, risorse naturali e invece oggi, dopo il sorpasso, siamo circondati da prodotti cinesi e non sono più russi nemmeno i binocoli.
Lei ha una risposta non banale?

Italo Ferraro

Caro Ferraro,
per quesiti come quello della sua lettera non esistono risposte «scientifiche» ed è necessario ricorrere alle considerazioni degli storici, dei sociologi, degli economisti, dei geografi e degli antropologi. La Russia ha avuto una storia economica alquanto diversa da quella della Cina. E’ un enorme Paese, scarsamente popolato, privo di grandi difese naturali, profondamente segnato dall’invasione mongolica.
La sua straordinaria espansione è per molti aspetti il paradossale risultato di ancestrali paure per coloro che possono invaderla da Ovest o da Est: i vichinghi, i mongoli, i polacchi, i lituani, gli svedesi, i francesi, i tedeschi. Cresce territorialmente per allontanare dal centro le proprie frontiere.
Con una eccezione (l’antica città di Novgorod, a Sudest di Pietroburgo), la Russia non ha le tradizioni mercantili delle libere città europee e dei numerosi scali marittimi che si affacciano sulle coste meridionali della Cina. Mentre l’agricoltura europea ha creato, nel corso della storia, una classe sempre più numerosa di imprenditori agricoli, fattori e contadini proprietari, quella russa ha generato un ristretto ceto di latifondisti e un vasto popolo di servi della gleba. Esisteva per la verità anche una forma originale di agricoltura slava. Era la «obshina», la comune agricola in cui molti videro una sorta di archetipo del socialismo russo. Ma nella obshina, gestita da un consiglio degli anziani, nessuno era proprietario e nessuno, quindi, personalmente interessato a migliorare i metodi di coltivazione e ad aumentare il rendimento della terra. Insomma, mentre l’agricoltura europea accumulava i capitali che sarebbero serviti a finanziare le sue rivoluzioni industriali, quella russa ingrassava le casse del demanio imperiale e di una oligarchia latifondista, più incline a dilapidare il proprio denaro nei casinò delle stazioni termali che a investirlo nella economia nazionale. Mentre l’Europa centro-occidentale creava un «terzo stato», composto da commercianti, imprenditori e professionisti, la Russia aveva al suo vertice un ristretto ceto dirigente, composto da nobili, proprietari terrieri e funzionari dello Stato.
Quando l’onda lunga della rivoluzione industriale, alla fine dell’800, cominciò finalmente a lambire le terre russe, alcuni grandi riformatori cercarono di favorirla con iniziative illuminate. Il ministro delle Finanze Sergej Vitte diede il via a un ambizioso programma di costruzioni ferroviarie.
Il primo ministro Pëtr Stolypin lanciò una riforma agraria che avrebbe creato, nel giro di una o due generazioni, un ceto di contadini proprietari.
Ma la rivoluzione bolscevica, pochi anni dopo, mise fine alla fase riformatrice dell’economia russa. E la «Nuova politica economica» parzialmente liberale (Nep), a cui Lenin dovette ricorrere per ridare ossigeno a un Paese stremato, fu soltanto un breve interludio. Tre generazioni di russi sono cresciuti da allora senza sapere che cosa significhi investire, rischiare, creare imprese, aprire negozi, fondare studi professionali.
Nessun altro Paese ha così lungamente ignorato le virtù della proprietà privata.
In Cina il tentativo livellatore di Mao durò invece soltanto trent’anni e non ebbe comunque alcuna influenza sulle laboriose e intraprendenti comunità della diaspora cinese nel mondo. Quando Deng Xiaoping lanciò il programma delle «Quattro modernizzazioni », gli spiriti animali del suo popolo erano soltanto assopiti.

Sergio Romano
Corriere della sera, 19 settembre 2007

 
   
 

Stato assoluto

Caro Romano, vorrei aggiungere una piccola curiosità riguardante la sua ultima frase («Del resto il Papa è anche oggi un monarca») nella risposta alla lettera «Elogio della monarchia, manon in Italia»: stando al primo comma dell'articolo 1 della Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano (in vigore dal 22 febbraio 2001), «Il Sommo Pontefice, sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario». Probabilmente si tratta dell’unico esempio di uno Stato assoluto dell’era contemporanea a dichiararsi tale fin dalla propria Carta fondamentale.

Stefano Marras, Sassari

I dittatori devono mentire, il Papa può permettersi di essere franco.

Sergio Romano
Corriere della sera, 19 settembre 2007

 
   
 

I cambi di partito

Caro Romano, ho letto con interesse la risposta cambi di partito e Churchill. Vorrei, però, dire che mi pare opportuno e necessario imporre ai neoeletti di non cambiare partito o schieramento, pena la decadenza e l'ingresso del primo non-eletto, per evitare di tradire il mandato degli elettori; inoltre chi pensa di fondare un nuovo partito o movimento dovrebbe dare le dimissioni e presentarsi alla prossima mandata elettorale per verificare il consenso degli elettori. E poi ma non le pare troppo scomodare Churchill per giustificare quelle persone?

Fabrizio Repetti

Per impedire ai parlamentari di cambiare partito o schieramento occorrerebbe modificare l’art. 67 della Costituzione in cui è detto che «ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».

Sergio Romano
Corriere della sera, 19 settembre 2007

 
   
 
La Triplice: quando Italia e Austria divennero amiche

Alla vigilia del novantesimo anniversario di Caporetto vorrei conoscere quale fosse il pensiero del popolo italiano nel 1882 quando Roma firmò l'accordo con Vienna e Berlino noto come Triplice Alleanza. Adesso nel Trentino e nel Tirolo quello della Grande Guerra sta diventando tema di appassionato e rispettoso ricordo, ma sfuma nella memoria il perché della nascita di quel trattato poi spezzato dall'Italia il 23 maggio 1915.

Luigi Sardi

Caro Sardi, la Triplice Alleanza nasce dal sentimento di insicurezza con cui l'Italia, dopo la formazione del regno, cominciò a fare i suoi primi passi sulla scena internazionale. Ci accorgemmo della nostra condizione al congresso che si tenne a Berlino nel 1878 sotto la presidenza di Bismarck, il grande cancelliere che aveva vinto la guerra franco-prussiana di otto anni prima. Quando il ministro degli Esteri italiano dell'epoca, Luigi Corti, si fece coraggio e accennò alle aspirazioni del regno per il Trentino, il delegato russo Aleksandr Gorciakov chiese seccamente se l'Italia avesse perduto un'altra guerra per chiedere una nuova provincia. Era una sarcastica allusione al modo in cui nel 1866, nonostante le sconfitte di Custoza e di Lissa, eravamo riusciti ad avere il Veneto. Non basta. Al congresso Bismarck incoraggiò la Francia a consolarsi in Tunisia delle perdite subite nel 1870.
L'intesa rimase segreta sino alla primavera del 1881, quando il governo francese architettò un incidente alla frontiera algerino-tunisina con una tribù di krumiri (una parola che entrò poi con altri significati nel nostro linguaggio sindacale e gastronomico) e ne approfittò per imporre al bey di Tunisi la propria tutela. La notizia fu accolta in Italia, da parte della classe politica, come una umiliazione. Perdevamo a profitto della Francia una regione che era abitata da una forte comunità di coloni, soprattutto meridionali. E vedevamo installarsi a breve distanza dalle coste siciliane un Paese con cui, in quel momento, avevamo cattivi rapporti politici ed economici.
A queste delusioni internazionali si aggiunsero altre preoccupazioni. La Chiesa non aveva ancora digerito la perdita di Roma e chiedeva ai suoi fedeli di non partecipare alla vita dello Stato nazionale. I movimenti socialisti e anarchici si stavano diffondendo nel Paese. Umberto II, giunto al trono nel 1878, era alle sue prime armi e non aveva il carisma del padre. Quando visitò Napoli, poco dopo l'incoronazione, un giovane anarchico, Giovanni Passanante, saltò sul predellino della carrozza reale e lo colpì al braccio con un pugnale. Il presidente del Consiglio Benedetto Cairoli, che sedeva di fronte al re, si gettò sull'attentatore e l'afferrò per i capelli. Un capitano dei corazzieri a cavallo lo colpì alla testa con una sciabolata. Il re era salvo, ma il grande mito della monarchia nazionale aveva subito la sua prima ferita. «La poesia di casa Savoia — disse la regina Margherita — è distrutta».
Isolato sul piano internazionale, minacciato all'interno dalla destra cattolica e dalla sinistra rivoluzionaria, il regno aveva bisogno di alleati. Vi erano già stati contatti con la Germania, ma Bismarck voleva che l'Italia si mettesse d'accordo anzitutto con Vienna. Occorreva quindi accettare che l'Austria divenisse, da nemico ereditario, amico e alleato. E occorreva mettere la sordina alle rivendicazioni trentine e triestine. Lei si chiede, caro Sardi, quale sia stato allora il sentimento del popolo italiano. Non vi fu grande entusiasmo naturalmente fra coloro che avevano combattuto l'Austria e volevano completare l'unità con le province irredente. Ma nella seconda metà dell'Ottocento la politica estera era quasi ovunque fermamente nelle mani dell'esecutivo, se non addirittura del sovrano. Alla costituzione della Triplice Alleanza e alla rottura del patto nel maggio 1915, il Parlamento restò estraneo.

Sergio Romano
Corriere della sera, 20 settembre 2007

 
   
 

Ordigni nucleari

Caro Romano, apprendo dai giornali che in Italia, a Ghedi (Bs) ed Aviano (Pn), ci sono circa 90 ordigni nucleari. Forse non ero molto ben informato maio pensavo che ordigni nucleari non fossero ammessi in territorio italiano. Tanto vale, allora, produrli per nostro conto come fanno tutti gli Stati canaglia (ovviamente è una provocazione).

Fabrizio Celli, Forlì

E’ probabile che lei sia stato tratto in inganno dai cartelli «comune denuclearizzato » che si trovano con una certa frequenza viaggiando per l’Italia.

Sergio Romano
Corriere della sera, 20 settembre 2007

 
   
 

Omaggio alla Fallaci

Caro Romano, non sono mai riuscito a leggere qualche cosa sui rapporti tra Oriana Fallaci e Indro Montanelli. Sarebbe interessante sapere come si vedevano o giudicavano due «toscanacci » di questo calibro.Mi potrebbe lei forse dare qualche indicazione o indirizzo di lettura?

Hermann Engeli, Zurigo

Montanelli le dedicò qualche «controcorrente» sulla prima pagina del Giornale. Nello stile pungente di questa breve rubrica descrisse le sue interviste aggressive e l’alto concetto che aveva di se stessa. Quando Oriana Fallaci, agli inizi del 1981, intervistò il leader polacco di Solidarnosc, Montanelli scrisse: «Oriana Fallaci ha fatto per il Corriere un’intervista a Lech Walesa che, come sempre avviene con questa nostra brillante collega, si è risolta in una intervista di Lech Walesa aOriana Fallaci. "Lei mi ha dato tante idee su cui riflettere! — ha concluso infatti il pover’uomo—. Ci rivedremomai? Se vado in paradiso, le tengo il posto". Ma qui Lech ha peccato d’immodestia. Il posto diOriana in paradiso, è già assegnato: è quello che temporaneamente occupa il Padreterno». Sono sicuro che a Oriana Fallaci queste parole siano piaciute. Certe critiche sono in realtà un omaggio.

Sergio Romano
Corriere della sera, 20 settembre 2007