Lettera a un amico ebreo
Sergio Romano
Longanesi, pagg.182, Euro 13,50
 
"Lettera a un amico ebreo" è un libro molto interessante, destinato, come ha scritto don Curzio Nitoglia, "a suscitare interesse e soprattutto critiche, poiché tratta del problema ebraico senza ipocrisie e senza ripetizione dei soliti luoghi comuni cui siamo abituati da mezzo secolo, e […] sembra andare addirittura "controcorrente", un po' come i libri di […] Roger Garaudy, dal quale si discosta sulla valutazione del genocidio degli ebrei"
(cfr. "Sionismo e fondamentalismo").

L'ambasciatore Sergio Romano confessa di aver avuto l'impressione, scrivendo questo libro, che "nella "caccia all'antisemita", apertasi in questi ultimi anni, il genocidio [ebraico] fosse diventato ormai il contrappasso del deicidio di cui gli ebrei sono stati accusati per molti secoli". Oggi, continua l'Autore, "ho l'impressione che dopo la soppressione del Sant'Uffizio esista ormai un'inquisizione ebraica, autorizzata a controllare e verificare il tasso di antisemitismo delle società cristiane. Vi è nel mondo un tribunale dell'antisemitismo che siede permanentemente e da cui tutti possono essere convocati per rendere conto delle loro parole e dei loro sentimenti".
Si è, infatti, assistito "a una proliferazione di processi contro […] vecchi ufficiali delle SS, aguzzini cadenti, carcerieri senili e balbettanti, tutti chiamati di fronte a un giudice per rispondere di atti che avevano commesso non meno di cinquant'anni prima e per cui in passato (è il caso di Erich Priebke) erano prevalse considerazioni attenuanti. Poiché l'odio degli ebrei può effettivamente generare crimini contro l'umanità, uno dei reati più frequentemente contestati nel corso di questi processi è stato l'antisemitismo".
Scrivendo poi in ordine a "Israele", Romano riconosce che i cittadini arabo-israeliani "sono oggetto di un sostanziale apartheid"; che "il fondamentalismo ebraico e i partiti religiosi hanno conquistato nella società israeliana, nell'ultima generazione, uno spazio crescente". E si chiede "se il modo migliore per garantire la sicurezza dello Stato sia [come pretendono i sionisti] l'occupazione militare di terre arabe contro la volontà dei suoi abitanti [e contro le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'Onu]".
Nel libro, inoltre, si accenna anche all'uso che l'entità sionista fa della "diplomazia parallela", "costituita dalla lobby ebraica negli Stati Uniti e dalle nomenklature che rappresentano le comunità ebraiche nel mondo". L'Autore è convinto che questo (ab)uso stia suscitando un effetto "boomerang". "Occorre naturalmente - scrive ancora l'ambasciatore Romano - non confondere la politica dello Stato d'Israele […] con certe campagne di opinione e con il sostegno delle comunità ebraiche o dei giornalisti di origine ebraica nel mondo. Ma come evitare questa confusione se lo Judenstaat si ritiene legittimo rappresentante dell'ebraismo e considera ogni ebreo nel mondo come un virtuale cittadino israeliano? Vi sono spesso momenti nella storia in cui un vantaggio, spinto alle sue estreme conseguenze, comincia a produrre effetti opposti. Ed è questo […] ciò che sta accadendo in questi ultimi tempi".