Napoli siamo noi.
Il dramma di una città
nell'indifferenza dell'Italia
Giorgio Bocca
Feltrinelli, pagg.132, Euro 14,00
 
Annegata nell'illegalità, strozzata dal traffico e dall'abusivismo, umiliata dal servilismo e dal clientelismo, Napoli muore: ma siccome muore da troppi anni nessuno ci fa più caso. "Napoli è un caso a parte", "Napoli è sempre stata così": se Napoli è unica ed eterna, allora non ci riguarda e comunque nulla si può cambiare. La verità che Giorgio Bocca ha scoperto era sotto gli occhi di tutti, bastava andare a vederla: Napoli ha, elevate a potenza, malattie molto simili a quelle del resto d'Italia. Il suo problema più grave non è la camorra: è l'immoralità e la vigliaccheria della politica, che fa affari, che cerca il consenso costi quel che costi, che fa finta di non vedere.
  Il tassista che dall’aeroporto di Capodichino conduce Giorgio Bocca in città non ha inserito il tassametro. Non è che voglia rubare molto sulla corsa, uno o due euro, purché sia lui a deciderlo, lui che è più intelligente del forestiero. Da questa equiparazione tutta meridionale tra intelligenza e furbizia, tra saper vivere e arte di arrangiarsi (spesso a scapito dell’interesse collettivo), da questa “maledetta presunzione individualista per la quale un napoletano è pronto a dannarsi”, inizia il viaggio di Giorgio Bocca per le strade di Napoli. Tornano alla mente certi ristoratori veneziani anch’essi spesso truffaldini con il “foresto”, lo straniero, al quale si rivolgono in dialetto stretto per non farsi capire. Come a Napoli, dove la gente sembra non aver accettato la ripartizione napoleonica in quartieri, strade e numeri civici e dice ancora “’ncoppa, abbascio, affianco, vicino” a qualche luogo riconoscibile a occhio, a tatto, a odore. Questa è Napoli, dice Bocca, ma questa è pure l’Italia, aggiunge. Con la sua diffidenza per lo straniero forse perché “incompatibile con l’ambiente” come hanno detto al procuratore Agostino Cordova prima a Palmi, nel Far West della Calabria dominato da 54 clan della ‘ndrangheta, e ora a Napoli dove risiede, emarginato da una giustizia ipocrita e vile che lo ha abbandonato perché lui ha osato inquisire la massoneria o spazzare via il contrabbando dalle strade, perseguendo una giustizia impossibile.
  Quella che emerge dallo sguardo lucido dell’esperto giornalista piemontese è una regione chiusa e arroccata sulle sue logiche di malaffare, che scoraggia la concorrenza e gli investimenti esterni. Perché le famiglie della camorra, che con le loro aziende hanno costruito interi paesi da ottantamila abitanti (come Portici ed Ercolano), o che lavorano nel Casertano su ogni genere di appalti dalla velocità ferroviaria alle case e alle strade, costituiscono un sottopotere che funge da grande ammortizzatore sociale che i politici rispettano e dal quale sono spesso corrotti.
  Napoli muore di illegalità, clientelismo e abusivismo, scrive Bocca, perché a San Gregorio Armeno tra gli abusivi del mercato c’erano pure i dipendenti del Comune e perché gli stessi dipendenti della Pubblica Amministrazione sono assunti il quintuplo del necessario. Ma la buona borghesia partenopea non si guarda in casa, mira a Londra e Parigi, al massimo va ad inaugurare la mostra dei pittori nella metropolitana e crede ancora nella “primavera di Bassolino” che, scrive Bocca, dopo essere stato un buon sindaco, ora da Governatore della Campania non sa far altro che moltiplicare Commissioni, sottopoteri e burocrazie inutili e dispendiose dei pubblici denari. Un Bassolino vittima anch’egli di quell’individualismo napoletano che lo porta a pensare che “se un intrallazzo lo fa lui sarà a fin di bene e riuscirà a controllarlo”. Individualismo italico in verità, che fa di noi quel popolo di “anarchici pecoroni” come ci chiama Roberto Gervaso e che, come ebbe a dire Indro Montanelli, ha tolto ai meridionali la forza e la voglia di progettare il futuro e di guardare al di là del giorno dopo.
  "Ci fermiamo per fare benzina - scrive Giorgio Bocca -, subito fuori dall'aeroporto di Capodichino e nella luce agostana viene giù un piovasco tiepido. "È un sole acqua," dice il tassista che ha una bella faccia feroce e istrionica. "Un sole acqua," ripete compiaciuto. Vedo che non ha inserito il tassametro, ma non è che voglia rubare molto sulla corsa, uno o due euro, purché sia lui a deciderlo, lui che è più intelligente del forestiero. La maledetta presunzione individualista per la quale un napoletano è pronto a dannarsi. Scendiamo per la tangenziale, una lunga strada dall'aeroporto al mare, là in fondo il Vesuvio a gobbe da cammello. La più insanguinata strada di Napoli perché la città per cui passa è divisa fra i clan della camorra; le rese dei conti avvengono nei punti di confine, rapide sparatorie, scontri e fughe su motociclette potenti, e, a cose fatte, arrivano i "falchi", i poliziotti motociclisti o gli "zingari", come chiamano i carabinieri in divisa nera. I cadaveri non li tocca nessuno prima che arrivino le autoambulanze a ritirarli. Lungo la tangenziale avvengono anche molti scippi classici; due in motoretta che raggiungono la donna con la borsetta a tracolla e gliela tirano via come una frustata. Ho ricordato al governatore della Campania, Bassolino, che mi mostrava un'opera dello scultore Paladino, che anche la moglie dell'artista era stata scippata sul lungomare, e Bassolino ha corretto: "Scippata no, è caduta a terra ma non ha mollato la borsetta". Un milione di abitanti, seimila per chilometro quadrato in certi quartieri. Di preciso non si sa perché, in un sobborgo come Scampia, gli abitanti per il comune sono quarantamila ma in realtà sono settantamila con gli abusivi, quelli che vivono negli scantinati o dove capita. La disoccupazione giovanile è del 50 percento, la costruzione di case popolari sempre in ritardo, duecentoquarantadue a Scampia nell'anno 2004 invece delle novecentosessanta previste. La città dei poveri è in perenne mutamento, l'edilizia popolare crea dei mostri sociologici: fa arrivare in città cinquantamila poveracci ma li lascia senza servizi, oppure mette assieme un vecchio quartiere operaio, con le famiglie ben sistemate da anni, con uno nuovo di zecca dove non ci sono negozi, uffici postali, commissariati di polizia. Scampia negli ultimi anni ha ricevuto a ondate gli sfrattati del rione Siberia, i baraccati di via Marina e prima, nel 1980, quelli del terremoto. Scampia è il quartiere delle famose Vele, i palazzoni che ora vengono demoliti: dei termitai in cui la vita si nascondeva, anziché fiorire, un silenzio irreale a mezzogiorno, una donna con la borsa della spesa nella strada, un uomo lassù al settimo piano e, nella penombra degli scantinati, mani furtive che si scambiano i pacchetti di droga".