Rosa è il colore della Persia
Vanna Vannuccini
Feltrinelli, pagg.168, Euro 12,00
 
La Rivoluzione khomeinista nel 1979 ha cambiato per sempre gli equilibri geopolitici non solo dell’area mediorientale ma addirittura dell’intero globo. La Rivoluzione islamica infatti determinò un cambiamento radicale dell’asse delle alleanze degli Usa, che ispirò la nascita di un radicalismo islamico che avrebbe contaminato non solamente il mondo sciita ma anche quello sunnita. Grande quasi sei volte l'Italia e con una popolazione di circa settanta milioni di abitanti, l’Iran è in realtà un paese estremamente giovane, anche a causa dei tanti morti dovuti al conflitto con l’Iraq negli anni ottanta. Ma è anche una nazione con una forte dinamica elettorale, tanto da essere definita in più occasioni come l’unico paese realmente democratico della cosiddetta “Islamic Belt”. Oggi, il mondo si ritrova a guardare in maniera preoccupata verso questa area, a seguito della decisione assunta dal nuovo presidente di dotare il paese della capacità nucleare.
  Vanna Vannuccini, da anni corrispondente dall’Iran, ci conduce in molti dei misteri di questo sterminato paese, in un viaggio sempre in equilibrio tra riflessione politica e curiosità culturale e sociologica. Dalle riunioni degli ultimi zoroastriani alla descrizione delle ansie e speranze dei diciotto milioni di iraniani nati con il baby boom degli anni ottanta, dalla cerimonia del tè che segna i contratti matrimoniali alla descrizione dell’Università di Evin e della vita intellettuale del paese.
  "È stata la rivoluzione più incredibile e inaspettata", scrive l'Autrice. "Centinaia di migliaia di giovani iraniani invasero per settimane le strade, affrontando i carri armati dello Scià con i sassi, per seguire la parola di un vecchio che ogni mattina all’alba, in una banlieue parigina, attraversava la strada per inginocchiarsi in direzione della Mecca. I ministri dello Scià ebbero appena il tempo di dimettersi prima che i giovani prendessero a sassate il palazzo del governo.
  "Il sogno degli iraniani era, in quel momento, trovare una via alternativa alla modernità occidentale. Uno stato fondato sulla religione, pensavano, non poteva che assicurare giustizia e solidarietà. Una coscienza islamica rivoluzionaria aveva cominciato ad affiorare tra gli studenti iraniani fin dagli anni sessanta, sotto l’influenza di intellettuali come Ali Shariati, che avevano studiato a Parigi e cercavano una connessione tra marxismo e utopia islamica; quella “ricerca del Paradiso” che era cominciata nell’islam dopo la morte del Profeta. Nessuno di quei giovani che avevano invaso le strade della capitale pensava a un regime in cui il clero avrebbe preso il potere e fissato per tutti i codici di comportamento e di vita. Quello che poi sarebbe stato instaurato.
  "Ruhollah Khomeini, l’ayatollah tornato a Teheran dall’esilio parigino il primo febbraio del 1979 tra l’esultanza della folla, rivoluzionò non solo l’Iran, ma anche il clero sciita. Gli sciiti aspettano il ritorno del Mahdi, il Dodicesimo imam scomparso, e non considerano legittimo che qualcuno agisca politicamente in suo nome. In modo non dissimile dagli ebrei ultraortodossi che non riconoscono lo stato d’Israele, pensavano, prima della dottrina rivoluzionaria di Khomeini, che la fondazione di uno stato islamico potesse avvenire solo con il ritorno del Dodicesimo imam. Khomeini rovesciò radicalmente questo concetto, stabilendo il principio del velayat e faqih, il governo del giurista, interprete supremo della legge coranica.
  "Il sogno si trasformò presto in un incubo. Migliaia di rivoluzionari marxisti, laici, nazionalisti, che non aderirono alla linea khomeinista, furono eliminati.
  "La battaglia per le riforme tentata dal presidente Mohammad Khatami passerà alla storia come l’ultimo tentativo per salvare quella democrazia islamica che era stata il sogno originario dei rivoluzionari. Nel 1997, i giovani riposero in Khatami la loro fiducia. Il presidente permise la pubblicazione di libri e giornali fino ad allora vietati, e consentì spazi di libertà nella vita privata che chi era nato dopo la rivoluzione non aveva mai conosciuto. Cominciarono a sperare che lo stato islamico fosse riformabile, si appassionarono alla politica: ne discutevano in famiglia, compravano due o tre giornali ogni giorno; votarono e convinsero i genitori a votare per Khatami.
  "Ma non appena ebbero preso coscienza dell’importanza del loro voto dovettero scoprire che le loro scelte non avevano peso nella Repubblica islamica. Lo stato teocratico annullò tutti i passi avanti compiuti dal governo Khatami verso la democrazia, e la timida risposta di Khatami sconcertò gli iraniani che ne trassero la conclusione che un mullah è sempre un mullah e non ci si può fidare: turbante bianco, bianco turbante, dicono.
  "Le speranze evaporarono. I riformatori, impegnati in una durissima guerra di trincea contro i conservatori, all’inizio non si resero nemmeno conto dell’improvvisa disaffezione del loro elettorato. Il regime ha agito con astuzia, hanno denunciato 674 intellettuali ed ex parlamentari in una lettera aperta alla nazione: “Prima ha gettato il seme della delusione e poi, quando questo è germogliato e la gente rassegnata ha preso congedo dalla politica, ha creato uno stato di polizia, arrestato i leader del movimento studentesco e bloccato ogni protesta”.
  "Mai c’era stata tanta distanza tra lo stato islamico e i suoi cittadini quanto oggi. Una parte degli iraniani non aveva mai riconosciuto la legittimità della Repubblica islamica e aveva vissuto in un esilio interno o esterno; a essa si sono aggiunti ora gli ex rivoluzionari che si sono inutilmente battuti per riformare lo stato islamico. Il settanta percento dei giovani dichiara di non essere religioso. La terza generazione dello “stato di Dio” ha perso la fede e non capisce come i genitori potessero, ventisette anni fa, scendere in strada per una Rivoluzione islamica".