La città e l’isola. Omosessuali al confino nell’Italia fascista | ||||
G. Goretti e T. Giartosio | ||||
Donzelli Editore, pagg.276, Euro 13,50 | ||||
IL LIBRO - A seguito di meticolose indagini, decine di catanesi, in gran parte giovani o giovanissimi, vengono prima incarcerati, poi mandati al confino alle Tremiti fino allo scoppio della guerra, in due casermoni sull’isola di San Domino. Tornati a Catania, cercheranno di dimenticare e far dimenticare ciò che hanno vissuto. Pochissimi di loro, a distanza di decenni, hanno accettato di raccontarlo. A partire da queste testimonianze e da fonti d’archivio, Goretti e Giartosio ricostruiscono un mondo che sembrava scomparso nel nulla. Gli appuntamenti sulla spiaggia di notte, le sale da ballo per soli uomini, le complicità, le rivalità, i travestimenti, gli espedienti, la paura. E poi, dopo l’arresto, gli stratagemmi messi in atto dalle famiglie, le situazioni paradossali della vita al confino, i tentativi di rivendicare la propria innocenza e guadagnarsi la libertà. Il tutto nel contesto di un’Italia provinciale, tenera ma più spesso spietata, in cui l’omosessuale è schernito di giorno e cercato di notte da uomini che non si ritengono omosessuali. Un’Italia "stregata" dal Fascismo, che all’indomani delle leggi razziali è deciso a reprimere qualsiasi minaccia all’«integrità della stirpe», e che colpirà, con il tacito consenso dei più, centinaia di invertiti. DAL TESTO – “A metà febbraio, altri venti arresti. A giugno si ritrovano tutti a S. Domino delle Tremiti, per scontare 5 anni di confino. Insieme ad un'altra trentina di pederasti da tutta Italia. Nel giugno del 1940 l'Italia entra in guerra: i cameroni di S. Domino debbono essere lasciati liberi per i pericolosi traditori antifascisti. I Catanesi tornano a casa, con due anni di ammonizione, una sorta di arresto domiciliare. Pino ricorda il ritorno: "Non potevamo uscire normalmente, eravamo controllati... Ci diedero due anni di ammonizione e ogni tanto si doveva andare in questura a firmare... neanche gli altri vidi più, anche per questa cosa della guerra. Poi madri, padri... non si poteva fare più quello che si faceva prima, capito? Dovevamo stare più attenti. Anche perché ci dicevano che se ci riprendevano non ci rilasciavano più. Sa, la paura era enorme...". Di Pino ho il ricordo della sua risata e dei giochi, mentre parlava, con il cane, un bastardino rossiccio, in continuo movimento. È morto due anni dopo la mia prima visita. Aveva cambiato casa, viveva solo, in una casa più piccola ma in una via centrale, vicino al Duomo, accudito da alcuni vicini. Una casa, la nuova, piena da scoppiare. Aveva portato in un piccolo monolocale tutto quello che aveva in tre stanze, cucina e bagno. Ci aveva portato tutti i suoi ottanta anni. Un suo amico mi ha raccontato che negli ultimi mesi non voleva più uscire. Lo chiamava ogni tanto al telefono per delle commissioni, o per farsi aiutare a curare i piedi, tenere in ordine le unghie. Lui lo vedeva sempre più pallido, affaticato. L'ha dovuto pregare e minacciare per farlo andare in ospedale, per un controllo. Ma in ospedale si accorsero che il tumore era in uno stadio avanzato. L'ha ucciso in pochi giorni". |