La nuova Intifada
Giancarlo Paciello
CRT, pagg.224, Euro 13,00
 
IL LIBRO - Ogni giorno alla televisione, sui giornali, questa parola: "coloni". Parola in fondo del tutto inoffensiva, che evoca il coraggio dei pionieri, le loro difficili condizioni di vita e di lavoro, il loro senso del sacrificio, certamente poco adatta per individuare questi uomini aggressivi, che circolano in bande armate, occupando colline che non dissodano e che non coltivano. “Colonizzazione”, questo è il senso primario, rigoroso, antico dell'insediamento sulla terra di Palestina dei primi coloni venuti dall'Europa. Popolano delle terre, le coltivano e le valorizzano. Così l'America fu colonizzata dai Bianchi, la Spagna dai Romani, l'Africa dagli Europei. Avendo questi ultimi conservato, al di fuori delle colonie, i loro Stati detti "metropolitani", è perciò piuttosto all'America dei pionieri che il primo Israele avanti lettera, quello delle prime “aliya”, rassomiglia di più, anche nell' atteggiamento verso gli autoctoni. Con la spartizione, la colonizzazione assume un aspetto di conquista, le popolazioni sopravvissute alla dispersione ricevono lo statuto di "nativi" di tutte le colonie conosciute: impero delle Indie, Africa occidentale o orientale francese...
  Dalla “colonizzazione” si è passati al “colonialismo”. Uno stadio superato con la guerra dei Sei Giorni. Sulla parte della Palestina dove si trovano 'colonie' preesistenti alla spartizione del 1947 viene ormai esercitata brutalmente una 'occupazione' militare. Situazione ben nota e definita storicamente: stato d'emergenza, coprifuoco, violenze contro gli arabi, distruzione di villaggi e di piantagioni... In compenso, l'insediamento di "coloni" nelle zone occupate, è una novità storica di cui esistono pochi esempi. Questo ritorno alla colonizzazione delle origini colpisce; ma come, si costruiscono villaggi o fattorie su di una terra dove il vostro esercito staziona per motivi di sicurezza? La parola 'territori occupati' è impropria; 'occupazione' sta per annessione. Eppure la presenza  israeliana in Cisgiordania e a Gaza non contribuisce in alcun modo allo sviluppo  della terra conquistata.
  Per trentaquattro anni, Israele non ha costruito strade e infrastrutture che per i coloni; invece di costruire scuole ha chiuso università, e non ha aperto ospedali per gli 'indigeni'. La 'colonizzazione' si contenta di confiscare a suo vantaggio le risorse locali, soprattutto d'acqua, e di sfruttare la popolazione. I coloni abitano in Cisgiordania e lavorano in Israele, gli operai e i lavoratori palestinesi nel loro complesso servono come mano d'opera a basso costo per gli Israeliani in  Israele e nei "territori". Israele, paese moderno, ha sviluppato anch'esso questa terza forma di "rapporto coloniale" che l'Europa ha messo in piedi dopo la decolonizzazione: lo sfruttamento dei lavoratori immigrati arabi, curdi o turchi. Ma qui, e paradossalmente “proprio sulla loro terra”, gli Arabi residenti in Israele costituiscono una categoria di “immigrati”, destinata a subire tutti i soprusi. Quando lavorano in Israele, gli abitanti dei "territori" e di Gaza costituiscono un'ulteriore categoria, poiché emigrano ogni giorno e rientrano a casa loro ogni sera...
  Colonizzazione e colonialismo; occupazione e 'apartheid'. E ora? Sharon non ha dubbi. Fa la guerra al terrorismo!
 
  DAL TESTO – “Il popolo palestinese vive da più di un secolo una situazione assai drammatica. Sempre incentrata sulla perdita della terra e dunque dei beni, in primo luogo la casa, ma anche e soprattutto dello spazio identitario che fa dire a ciascuno di noi di essere di un tal posto, con riferimenti inequivocabili ad una determinata cultura e tradizione.
  "A mio parere, questa situazione drammatica ha attraversato quattro fasi, diverse per la durata e per la gravità della perdita.
  "Una prima fase, compresa nella prima metà del ventesimo secolo, caratterizzata da espulsioni che seguivano l’acquisto di terre da parte del Fondo Nazionale Ebraico, vissuta in prevalenza come drammi individuali, una seconda, iniziata nel 1948, a causa della guerra seguita alla spartizione della Palestina, che oltre la perdita della terra comportò l’espulsione dal territorio per oltre 750.000 palestinesi, vissuta come un dramma collettivo, una catastrofe, la Nakba appunto, una terza, dalla guerra del 1967 al 1993, a causa dell’occupazione militare, che tuttora perdura e che ha favorito e protetto la colonizzazione dei territori occupati anch’essa decisamente collettiva, e infine una quarta fase, quella attuale in cui, ad un modesto avvio di sovranità (sempre e comunque limitata), ha fatto seguito un’offensiva israeliana che mette in discussione addirittura la sopravvivenza del popolo palestinese.
  "Sembrava che l’avvio del processo di pace potesse porre fine a questa serie infinita di sofferenze, favorendo finalmente la nascita di uno Stato palestinese. Ma così non è stato. Il definitivo fallimento delle trattative a Camp David nel luglio del 2000, unito alla protervia dell’attuale primo ministro israeliano Ariel Sharon, noto anche come il macellaio di Sabra e Chatila, hanno innescato una rivolta, che dura ormai da più di undici mesi.
  "La nuova “intifada” è scoppiata infatti il 28 settembre del 2000, quando è apparso chiaro il fallimento delle trattative a Camp David, durante le quali Clinton aveva tentato di spacciare come accordo di pace, una feroce imposizione ad una dirigenza palestinese endemicamente debole e senza alcun successo da poter attribuire alla sua politica di compromesso, e, per completare l’opera, Sharon, con le scarpe chiodate, aveva calpestato il terreno più sacro per i palestinesi a Gerusalemme, la Spianata delle Moschee. E, purtroppo, non esiste ragione alcuna perché essa si arresti.
  "La tracotanza con cui Barak, (prima ancora di Sharon), da sempre contrario al processo di pace, ha condotto sia le trattative di pace che le azioni di guerra non ha lasciato scampo a chi, come il popolo palestinese, da trentaquattro anni sotto un regime di occupazione militare, ed una ossessiva colonizzazione, volesse difendere la propria dignità, continuamente calpestata sul piano della quotidianità oltre che su quello della ormai storica espropriazione della terra.
  "A maggior ragione, con Sharon, pur nella impari condizione, il popolo palestinese non ha scampo, non può che contrastare in ogni modo la potenza militare israeliana, pena la sua riduzione a pura appendice, preludio sicuro della propria scomparsa.
  "Di fronte a questa situazione, in Occidente, non solo non si è levata nessuna voce ufficiale (della Comunità Europea o almeno di qualche Stato componente), di recente tanto interessate al diritto internazionale ed ai diritti umani in particolare, (e l’Italia di sinistra, capace di aver fatto l’ignobile e feroce guerra alla Jugoslavia, sbandierando proprio questi diritti, ha trovato anche il modo di astenersi all’ONU, sul voto che condannava l’uso eccessivo della forza d’Israele contro i palestinesi), ma si è anche avviata una campagna di disinformazione che punta a presentare i palestinesi come soggetti immaturi e massimalisti, incapaci cioè di saper cogliere le generose offerte dello Stato d’Israele, oltre che violenti e terroristi”.
 
  L’AUTORE - Giancarlo Paciello (05/03/1937), ingegnere elettronico, è stato tra i fondatori della rivista “Corrispondenza Internazionale” nel 1975, occupandosi in particolare dell’Irlanda e della Palestina. Ha curato la pubblicazione di “Blocco H”, un testo di Roger Faligot sulle lotte in carcere dei prigionieri politici irlandesi, e di “Sabra e Chatila” di Amnon Kapeliouk sulla strage nei campi profughi palestinesi durante l’invasione israeliana del Libano del 1982. Fa parte della redazione della rivista Koiné e del comitato editoriale della casa editrice CRT.
 
  INDICE DELL’OPERA – Premessa – Prefazione – Introduzione – Capitolo I. Il processo di pace – Capitolo II. Spazio, demografia e realtà sociale palestinese – Capitolo III. La colonizzazione israeliana dopo la guerra del 1967 – Capitolo IV. Camp David – Capitolo V. La nuova Intifada – Dopo l’11 settembre – Nota bibliografica