Bhagavadgita

a cura di Anne-Marie Esnoul
Feltrinelli, pagg.168, Euro 7,00
 
IL LIBRO – La Bhagavadgita (Canto del Beato Signore) è il centro ideale del Mahabharata, il grandissimo poema epico indiano, e il testo induista più conosciuto al mondo. “È un libro talmente trascendentale che uomini di ogni fede, età e clima possono leggerlo con rispetto e trovarvi i principi delle rispettive religioni.” (Mahatma Gandhi)
La Gita, conosciuta anche come Bhagavadgitopanisad, è un grande classico della spiritualità. Si tratta di un poema dialogato di settecento versi, in diciotto canti corrispondenti ai capitoli XXV-XLII del sesto libro dell’epopea sulla battaglia tra Pandava e Kaurava narrata nel Mahabharata. Il testo tradisce influenze diverse e non si può stabilire una datazione precisa, anche se si può ipotizzare il II o I sec. a.C. La Gita occupa un posto centrale nel pensiero indiano ed è considerata un libro sacro, come i Veda e le Upanisad. Ha il valore di un messaggio universale, in quanto parla delle lotte interiori ed esteriori dell’esistenza umana e illumina il mistero della vita. In essa si svolge il dialogo tra un uomo e un dio: tra il principe Arjuna, ufficialmente figlio di Pandu, in realtà figlio del dio Indra, e il suo auriga Krsna, che gli si rivela come dio e mostra come tutto, compresa la guerra intestina che Arjuna deve combattere, faccia parte di un disegno cosmico divino. Una delle caratteristiche più importanti di tutto il testo resta l’importanza attribuita allo yoga, l’unificazione dei sensi e del pensiero. Tramite il raccoglimento e i procedimenti classici dello yoga si raggiungono la concentrazione e la chiara visione della realtà, e quindi la devozione che consente di raggiungere la liberazione. La Bhagavadgita è espressione infatti dell’equilibrio tra adorazione fiduciosa del fedele e benevolenza della divinità. Dopo una serie di considerazioni filosofiche l’opera si conclude poi ritornando alla grande epopea, con Arjuna illuminato da questo insegnamento e pronto alla lotta.
Questa edizione della Bhagavadgita è stata pubblicata per la prima volta da Adelphi nel 1976.

INTRODUZIONE – “Nell’immenso insieme del Mahabharata, la Bhagavadgita, Canto del beato Signore, occupa un posto a sé; è una delle parti speculative inserite nel poema, ma per la sua composizione e ispirazione costituisce un tutto autonomo.
“I primi libri dell’epopea erano dedicati alle cause lontane, poi più vicine, del conflitto; la Gita si situa nel momento in cui la battaglia sta per cominciare. Poema dialogato di settecento versi, comprende diciotto canti corrispondenti ai capitoli da XXV a XLII del libro VI del Mahabharata, detto Libro di Bhisma.
“Come gli altri testi dell’antichità indiana, anche questo non è stato composto, probabilmente, d’un sol tratto. Si contesta persino che, all’origine, sia stato concepito per far parte della grande epopea. Il titolo che spesso gli si attribuisce, Bhagavadgitopanisad, e la somiglianza che presenta con le forme upanishadiche, hanno indotto a chiedersi se primitivamente non si trattasse di una Upanisad, formata, alla maniera delle altre, di frammenti giustapposti e che avrebbe diffuso, nella prospettiva delle sette che a quell’epoca si andavano costituendo, l’insegnamento di certi circoli krishnaiti.
“Le ripetizioni, i temi che si intrecciano, la mescolanza delle dottrine saqkhya e vedantiche ci riportano, infatti, in piena atmosfera upanishadica. Vi sono state discussioni per chiarire quali parti potevano essere considerate antiche e quali sarebbero state aggiunte in seguito. Si è esagerato in tale lavoro di smembramento, che non è possibile compiere con sicurezza, più che nel caso delle Upanisad stesse. Si è giunti a pretendere che il testo iniziale si fermasse al versetto 38 del canto II. Di fatto, non abbiamo modo di provare alcunché di preciso al riguardo. Il testo non è omogeneo, tradisce influenze diverse; all’origine probabilmente doveva esser molto meno lungo: di più non si può affermare.
“Anche per le sue date non si può dire nulla di certo: la composizione dell’insieme epico di cui la Gita fa parte abbraccia da sei a sette secoli. Sembra tuttavia che, per quanto la concerne, si possa ridurre un po’ questo ventaglio di anni. Il suo insegnamento ricorda quello di certe Upanisad come la Katha – che non è poi così recente – ma soprattutto presenta grandi analogie con quello della Vvetavvatara: si può ritenere che la composizione di quest’ultima potrebbe essersi gradualmente compiuta verso gli stessi tempi e corrispondere forse allo sviluppo di culti settari nel II o nel I secolo a.C..
“L’espressione “culto settario” non deve indurre in errore: si tratta, grosso modo, del costituirsi ed espandersi di sette che tributavano un culto fatto di adorazione (bhakti) a una divinità, spesso di origine molto localizzata, ma assimilata a una delle due grandi figure dell’induismo: Vispu o Viva.
Più importante della sua origine, è il posto che la Gita occupa in tutto il pensiero dell’India, la straordinaria diffusione che ha conosciuto. A eccezione di certi ambienti shivaiti, tutte le correnti religiose brahmaniche l’hanno accettata come un libro sacro al pari dei Veda e delle Upanisad; è stata integrata alla Rivelazione (vruti), mentre il resto del Mahabharata fa parte soltanto della Tradizione (smrti).
“A causa di questa posizione privilegiata, è stata oggetto di numerosi commentari. Se ne sono occupati i maggiori filosofi: lo stesso Vankara, che, per le sue dottrine moniste, avrebbe potuto non sentirsi attratto da un testo così apertamente pietista. In seguito – e sempre nella linea vedantica – Ramanuja (XI secolo) e Madhva (XIV secolo) sono con assai maggior evidenza nella prospettiva della Gita. Del resto – e per non citare che i più grandi – Abhinavagupta (XI secolo), brahmano shivaita del Kavmir, ne ha fatto un commento dal titolo di Bhagavadgitarthasaqgraha, Raccolta degli argomenti trattati nella Bhagavadgita.
“Quanto al testo stesso, si presenta sotto forma di un dialogo riferito da una terza persona nell’ambito di un altro dialogo. Tale procedimento esiste già nelle Upanisad, ed è di regola in tutti i testi epici. Il racconto che serve da cornice presenta Sañjaya, auriga del re Dhrtarastra, che fa a quest’ultimo un resoconto della preparazione del combattimento e riferisce fedelmente questo interludio: il dialogo che si svolge fra il terzo dei principi Papdava, Arjuna, “l’Arciere” figlio ufficialmente di Papdu, ma in realtà del dio Indra, e Krspa, suo auriga (suta) e parente. I suta erano molto spesso non solo dei guerrieri, ma anche dei bardi; dunque, all’inizio, le risposte avvedute di Krspa ad Arjuna, preso da scrupoli in presenza di avversari che sono tutti suoi parenti o amici, non escono dal normale quadro dei costumi del tempo. Tuttavia, ben presto, al terzo canto, Krspa abbandona il suo carattere umano per rivestire quello dell’Assoluto personificato.
“Chi è dunque Krspa? In origine è stato probabilmente il dio di tribù pastorali e abitatrici delle foreste sulle rive della Yamuna. Sul piano mitologico, la sua leggenda appartiene alla regione di Mathura: il tiranno Kaqsa, della dinastia degli Yadava (discendenti di Yadu), ha detronizzato il padre, Ugrasena, e regna arbitrariamente sullo Vrpdavana. Il fratello di Ugrasena, Devaka, ha una figlia, Devaki, sposata a Vasudeva, suo parente e fratello di Kunti, madre dei Papdava.
“Un saggio, Narada, che appare a più riprese nel Mahabharata, aveva predetto a Kaqsa che sarebbe stato ucciso da un figlio di sua cugina Devaki. In conseguenza di questo, il principe non aveva fatto sopprimere la cugina, ma la teneva prigioniera, insieme al suo sposo, e faceva uccidere appena nascevano tutti i loro figli maschi: già sei erano morti. Circa gli avvenimenti posteriori, si sovrappongono l’una all’altra numerose leggende. Ne risulta, grosso modo, questo: vengono scambiate le figlie del pastore Nanda e di sua moglie Yavoda con il settimo e l’ottavo figlio di Devaki e di Vasudeva: Balarama e Krspa. Allevato da Nanda in mezzo ai pastori, Krspa è perseguitato dall’odio omicida di Kaqsa, informato della sua esistenza. Ma – secondo altre leggende – egli è nato da un capello nero (krspa) di Vispu e per questa sua origine divina è invincibile. Dotato di una forza e di una abilità straordinarie, egli stermina tutti i nemici che Kaqsa gli invia e sventa i loro tranelli.
“Giunto all’età adulta, uccide il tiranno e rimette sul trono Ugrasena. Egli stesso parte, recandosi a fondare Dvaraka (Dvaravati) sulla costa occidentale dell’India e vi stabilisce il suo regno. Là egli si ritirerà dopo il conflitto e morirà di una ferita al tallone; trasportato nel cielo degli dei, vi sarà divinizzato. In questa tradizione, come si vede, la sua figura si ispira alle leggende degli eroi e fondatori di città divinizzati. È soltanto nella Gita che i testi della grande epopea lo presentano come l’Assoluto e come un avatara di Vispu.
“Ma, anche nel caso di questo testo privilegiato, è pur sempre la tradizione popolare che ci permette di capire la sua posizione nel momento in cui la Bhagavadgita ha inizio. Come i Kaurava e i Papdava, egli appartiene alla razza lunare; la sua parentela lontana è stata ravvicinata dal fatto che suo padre Vasudeva è lo zio materno dei Papdava e, in tutta l’epopea, l’importanza di un legame in linea materna è molto rilevante. Vasudeva, nome con cui si designa Krspa, significa “figlio di Vasudeva”. Si dice che egli abbia assistito allo svayaqvara di Draupadi e vi abbia dichiarato che Arjuna l’aveva lealmente conquistata. Egli tenta di appianare il conflitto fra i Kaurava e i Papdava; alla fine, propone agli uni il suo aiuto personale, agli altri quello del suo esercito. Arjuna, molto accorto, sceglie l’aiuto di Krspa; Duryodhana quello del suo esercito; così Krspa diventa il suta del Papdava e in quanto tale ci appare nel primo canto del poema, canto consacrato alla descrizione dei combattenti e alle conseguenze psicologiche del conflitto nell’anima di Arjuna.
“Sañjaya enumera i guerrieri presenti, poi segnala l’improvviso sgomento del Papdava, il suo arrestarsi fra i due eserciti, i suoi scrupoli angosciosi, la cui esposizione prosegue sino alla fine del capitolo.
Il secondo canto porta la risposta di Krspa; da questo momento in poi, le repliche di Arjuna sono in generale molto brevi e servono soltanto da pretesto alle spiegazioni di Krspa. Le risposte di quest’ultimo si ponevano all’inizio sullo stesso piano delle domande, in un tono molto affine a quello delle Upanisad, e si presentavano come un’esaltazione dell’azione prescritta dalla condizione di vita. Bisogna riconoscere – a sostegno di coloro che pensano di far terminare a questo punto il testo iniziale – che a partire dal can¬to II, 39, questo tono cambia e diviene quello di un’esposizione didattica sull’agire, il non agire e il distacco dall’azione compiuta.
“Una delle caratteristiche più notevoli di tutto il testo sarà l’importanza attribuita allo yoga, preso nel senso di disciplina unitiva: unificazione dei sensi, poi del pensiero. Qui la parola “yoga” perde molto del suo significato tecnico per divenire quasi un sinonimo di bhakti, quella devozione che i culti settari raccomandano come il mezzo per eccellenza per raggiungere la liberazione. Il termine stesso di “Bhagavant” deriva dalla medesima radice BHAJ, “condividere”, “partecipare a”, da cui adorare: indica colui che lascia partecipare alla propria pienezza. La Bhagavadgita è il testo dove meglio si esprime l’equilibrio esistente fra l’adorazione fiduciosa del fedele e la benevolenza che inclina verso di lui la persona divina.
Inserito in un contesto speculativo, tale insegnamento molto semplice finisce per mescolarsi a un certo numero di considerazioni di varia origine. Quell’adorazione fatta di attenzione vigile, diretta verso un unico fine, si eserciterà su vari temi: teorie di un saqkhya che non ha ancora assunto l’aspetto sistematico che sarà noto nei secoli successivi, teorie dell’azione nel senso di “sacrificio” e delle altre “buone azioni”... Il posto occupato dalla tradizione sacrificale è ancora grande, poiché il quarto canto le è dedicato quasi interamente e nel corso degli altri canti sono numerosi i versi in cui la sua importanza è nuovamente sottolineata.
Tale rispetto della tradizione si accompagna ora non soltanto a una esaltazione della gnosi come mezzo di salvezza, ma anche a un atteggiamento nello stesso tempo di rinunzia a ogni beneficio nato dall’atto, e di raccoglimento. L’introduzione di quest’ultima nozione è un segno dell’influenza delle teorie dello yoga; questa volta, piuttosto che del significato banale di disciplina, si tratta del termine tecnico che designa il metodo tendente all’unione delle facoltà umane. Il raccoglimento e gli altri procedimenti classici dello yoga portano alla concentrazione e, più oltre, alla chiara visione della realtà. Tale realtà, ci viene detto, non è altro che il Brahman quale era stato descritto già dalle Upanisad. Ma a questo punto, ancora una volta, si passa a un altro piano; al di là di questo Brahman imperituro ma impersonale, vi è il suo fondamento: la persona divina, il Bhagavant, Assoluto personificato dalle molteplici manifestazioni, di cui egli stesso sgrana con compiacenza la litania, ripresa poi da Arjuna; tale è il soggetto dei canti decimo e undicesimo. A tale Persona suprema ci si affida con devozione completa; la progressione di questi pochi canti e il loro legame sono evidenti.
“A partire dal tredicesimo canto, le considerazioni filosofiche riguardanti la teoria della conoscenza e il gioco delle tre qualità della natura proseguiranno fino alla fine del poema. Anche il diciottesimo canto, consacrato, secondo la tradizione, alla rinunzia liberatrice, si fonda su questa classificazione tripartita. Soltanto alla fine il tono si colora nuovamente di bhakti per proclamare l’amore indefettibile che il Bhagavant nutre per il suo fedele.
La conclusione, che mostra Arjuna illuminato da questo insegnamento e pronto alla lotta, reintegra il poema nel complesso della grande epopea dei Bharata. Arjuna, deciso a combattere, rappresenta l’indubitabile scatenarsi della battaglia, che termina con lo sterminio, annunciato nell’undicesimo canto, di quasi tutti i combattenti e il trionfo dei Papdava, conquistato a così caro prezzo”.