Pasque di sangue - Ariel Toaff Analisi del libro effettuata da Don Francesco Ricossa sabato 17/03/07 a Trento |
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Dietro la “potente lobby ebraica“ degli USA c’è qualcun altro di John Kleeves |
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IL DIBATTITO SULLA “SOLUZIONE” SIONISTA NEGLI AMBIENTI NAZIONALISTI EUROPEI DEGLI ANNI TRENTA Saggio introduttivo a: Herman de Vries de Heekelingen, Israele. Il suo passato, il suoavvenire, Effepi, Genova 2004 In una lettera del 5 febbraio 1935, Ion Motza cita i nomi dei congressisti Hoornaert e Mercouris, “che avevano delle concezioni deplorevoli, forse anche di origine sospetta” (2), nonché di Somville e di Meyer, “che erano interamente sionisti, al 100%, e buoni conoscitori del problema” (3). Paul Hoornaert, della Légion Nazionale Belge, aveva distinto gli ebrei “integrati”, assimilati e leali, dagli ebrei “internazionali”, agenti della massoneria internazionale; solo questi ultimi, a suo parere, dovevano essere denunciati e combattuti. Georgios Mercouris (4), ex ministro e capo di un movimento social-nazionalista greco, esprimendo una posizione condivisa dai delegati di Italia, Portogallo e Austria, si era opposto a “qualsiasi tentativo di fare una dichiarazione generale sugli ebrei, sostenendo che si trattava di una questione puramente interna, differente da paese a paese, e perciò, secondo lo spirito del congresso, si doveva lasciare che ogni nazione risolvesse il problema come voleva” (5). Quanto al belga Somville, esponente della Ligue Corporative du Travail, egli aveva appoggiato la richiesta fatta da Ion Motza, ossia che il congresso formulasse una dichiarazione generale sulla questione ebraica; ma aveva anche aggiunto che, secondo lui, la soluzione del problema “poteva consistere nel dare agli ebrei una loro patria; di conseguenza, prospettò la possibilità di concedere agli ebrei la Palestina in modo che potessero ‘esprimere la loro civiltà’” (6). Arnold Meyer, infine, capo del Fronte Nero olandese, doveva essere davvero il rappresentante di un’organizzazione “insignificante e oscura” (come si legge in un rapporto inviato a Ciano nel 1935), se al corrispondente tedesco di Ion Motza risultava sconosciuto. Fatto sta che “l’ammirevole sig. de Somville” (7) e Arnold Mayer erano “interamente sionisti, al 100%”, nel senso che, secondo loro, la questione ebraica poteva essere risolta mediante il trasferimento degli ebrei dai paesi europei alla Palestina. D’altronde si trattava della medesima soluzione che sembravano proporre quei nazionalisti romeni che dicevano: “La Romania ai Romeni, per gli ebrei c’è la Palestina!” Bisogna però dire che il Movimento legionario non assunse mai una posizione conforme a tale parola d’ordine. Al contrario, fin dall’inizio degli anni Trenta la stampa legionaria salutò con entusiasmo “la lotta degli arabi contro la creazione di uno stato ebraico in Palestina. Anzi, venne fondato un apposito Comitato per la propaganda a favore della lotta degli arabi” (8). D’altra parte, un mese prima del congresso di Montreux si era dichiarato “sionista” nientemeno che Benito Mussolini, il quale non aveva ancora imboccato la strada di una politica mediterranea coerente e non aveva ancora optato per la scelta inequivocabilmente filoaraba (9). Nel corso di un colloquio con Nahoum Goldmann, il Duce si era allora espresso in questi termini: “Ma voi dovetecreare uno Stato Ebraico. Io sono sionista, io. L’ho già detto al dottor Weizmann. Voi dovete avere un vero Stato [un véritable État] e non il ridicolo Focolare Nazionale che vi hanno offerto gli inglesi. Io vi aiuterò a creare uno Stato Ebraico” (10). Sia gli incontri di Mussolini con Weizmann e Goldmann sia i rapporti più stretti con Jabotinsky e i sionisti revisionisti vengono spiegati da Renzo De Felice in questo modo: “il prosionismo di Mussolini del 1933-34 e in qualche misura ancora dei primi mesi del 1935, molto più che a porsi come mediatore tra ebrei e arabi e sostituire la propria egemonia a quella inglese in Palestina (ereditando tutte le difficoltà e gli oneri connessi), mirava – oltre che a guadagnarsi simpatie in Europa e in America, presentandosi come protettore degli ebrei (ma senza esporsi troppo per non pregiudicarsi quelle degli arabi) – ad accrescere la tensione in Palestina e, quindi, a creare – lo ripetiamo – ulteriori difficoltà all’Inghilterra in uno dei punti più nevralgici del suo impero” (11). Nel 1935, anche Reinhardt Heydrich distingueva gli ebrei in due categorie, i sionisti e i fautori dell’assimilazione, esprimendo la sua preferenza per i primi, perché “professano una concezione strettamente razziale e con l’emigrazione contribuiscono a edificare il loro proprio Stato ebraico (…) I nostri auguri e la nostra benevolenza ufficiale sono con loro” (12). E Alfred Rosenberg: “Il sionismo deve essere vigorosamente sostenuto, affinché ogni anno un contingente di Ebrei tedeschi venga trasferito in Palestina” (13). Verso la metà degli anni Trenta, dunque, la creazione di un’entità statale ebraica in Palestina veniva auspicata sia da coloro che giudicavano nociva per i propri paesi la presenza di massicce comunità ebraiche e miravano alla “pulizia etnica”, sia da chi, volendo combattere l’egemonia britannica, riteneva possibile praticare una politica mediterranea contemporaneamente filoebraica e filoaraba. Nel primo caso si trattava evidentemente di una posizione nata dall’esasperazione; nel secondo, di un calcolo che voleva essere machiavellico, mentre era semplicemente sbagliato. Un errore simile a quello di Mussolini, d’altronde, lo commetterà Stalin, allorché favorirà la nascita dell’entità sionista in Palestina, nell’illusione di poterne fare una base filosovietica nel Mediterraneo e un alleato nella “guerra fredda”. In Romania, un’autorevole riserva circa la possibilità della “soluzione” sionista era stata espressa, nel 1934, dal maestro di Mircea Eliade, il filosofo Nae Ionescu, quello stesso al quale Ion Motza affiderà il proprio testamento spirituale prima di partire per il fronte spagnolo. Nella sua Prefazione al libro di Mihail Sebastian intitolato De doua mii de ani… [Da duemila anni…], Nae Ionescu aveva scritto: “Esiste tuttavia un’azione con cui gli ebrei hanno cercato di strapparsi al loro destino. È il sionismo. Il tentativo però mi sembra del tutto confuso. (…) E adesso, che cosa ha voluto fare Theodor Herzl, che cosa vuole il sionismo? Togliere a Gerusalemme il suo nimbo mistico, il carattere di mito che essa ha avuto finora e trasformare questa città nella capitale di uno Stato, coi suoi ministri e la sua polizia? Lo si può fare. Però si realizzerebbe soltanto un’opera effimera, come lo sono sempre stati gl’insediamenti politici ebraici; d’altra parte, se Gerusalemme diventasse qualcosa di concreto, agli ebrei della diaspora verrebbe tolto quell’unico centro unificante che ha reso loro possibile la vita fino ad oggi. Il sionismo, senza dubbio, è un tentativo di infrangere il circolo di sofferenza della fatalità giudaica, ma è un tentativo che al massimo può produrre un risultato: la perdizione degli ebrei come popolo, a causa dello sgretolarsi del mito di Gerusalemme. Il sionismo? Un suicidio! E questa doveva essere una soluzione!” (14). Quanto a Ion Motza, dal suo carteggio con il Welt-Dienst si potrebbe forse ricavare l’impressione che egli condividesse la posizione dei “sionisti” Somville e Meyer; ma sicuramente non era una posizione filosionista quella che egli aveva espressa, in termini inequivocabili, una decina d’anni prima. Infatti, pubblicando in romeno i Protocolli dei Savi di Sion, “Ion I. Motza, studente” aveva commentato l’Introduzione di Roger Lambelin con una nota a pié di pagina del seguente tenore: “Prima della guerra gli Ebrei erano divisi in sionisti e non sionisti. I primi perseguivano l’instaurazione dell’egemonia ebraica sul mondo tramite la rinascita dell’antico regno giudaico di Gerusalemme. Gli altri volevano la stessa cosa, senza però resuscitare il regno di Palestina, ma restando dispersi tra i popoli della terra, così come sono oggi. Adesso, dopo la guerra, quasi tutti i giudei sono ‘sionisti’” (15). Liquidando l’opzione sionista come una delle due tattiche dell’ebraismo mondiale, lo studente Ion Motza si era tenuto lontano dal tranello che, in tempi diversi, minaccerà statisti e capi rivoluzionari. * A questo dibattito partecipò anche il prof. Herman de Vries de Heekelingen (1880-1941), titolare della cattedra di Paleografia e Diplomatica all’Università di Nimega (Olanda) e presidente della Commissione Cattolica di Cooperazione Intellettuale. Fondatore di un Centro di studi sul fascismo, scrisse Il Fascismo e i suoi risultati (Alpes, Milano 1927); poi si occupò del nazionalsocialismo tedesco e pubblicò Die nationalsozialistische Weltanschauung: ein Wegweiser durch die nationalsozialistische Literatur: 500 markante Zitate (Pan-Verlagsgesellschaft, Berlin-Charlottenburg 1932). Vries de Heekelingen intervenne al Congresso internazionale del Welt-Dienst che si tenne a Erfurt dal 1 al 4 settembre 1938 e vide la partecipazione di delegati provenienti da vari paesi, tra cui il Giappone e il Sudafrica (16). Nel 1937 apparve a Parigi, presso l’editore Perrin, un libro di Vries de Heekelingen intitolato Israël, son passé, son avenir; poco dopo ne venne pubblicata una traduzione italiana presso Tumminelli & C. Editori. Della questione ebraica, lo studioso olandese si sarebbe ulteriormente occupato con The Jewish Question in Italy (senza indicazione di luogo e di data), con L’orgueil juif (Revue Internationale des Sociétés Secrètes, Paris 1938) (17), con Juifs et catholiques (Grasset, Paris 1939) e con Le Talmud et le non-juif. Une expertise préparéepour le tribunal d’Oron siégeant à Lausanne les 15, 16 et 17 janvier 1940 (Éditions Victor Attinger, Neuchâtel 1940) (18). Secondo il prof. Vries de Heekelingen la realizzazione integrale del progetto sionista, con la creazione di uno Stato ebraico in Palestina e il trasferimento della popolazione ebraica mondiale (o della maggior parte di essa) sul suo territorio, avrebbe consentito agli altri Stati di considerare stranieri gli ebrei della Diaspora. Fu facile obiettare allo studioso olandese che un tale progetto sarebbe stato impossibile ad attuarsi, per vari motivi. Tra coloro che lo fecero, vi furono i padri gesuiti, che intervennero in due riprese sul tema della “soluzione” proposta da Vries de Heekelingen (19). E lo fecero con argomentazioni che vale la pena di riferire. “L’attuazione integrale del sionismo – si poteva leggere su “La Civiltà Cattolica” del 2 aprile 1938 – appare materialmente e moralmente impossibile, sia per la ristrettezza del territorio palestinese, sia per la invincibile opposizione degli Arabi, e sia perché la massima parte dei giudei non si indurranno mai ad andare in Palestina, abbandonando le residenze dove stanno bene. La costituzione di uno Stato giudaico, senza la effettiva comprensione dei giudei nel detto Stato, aggraverebbe, anziché scioglierla, la quaestio giudaica, in quanto all'equivoco della doppia nazionalità si aggiungerebbe un nuovo equivoco: quello di uno Stato la cui massima parte di cittadini ne vivono fuori. Ma vi è di più: uno Stato giudaico in Palestina sarà sempre un fomite di disordine e di perpetua guerra tra i giudei e gli arabi, come si vede al presente” (20). Quale rimedio potrà dunque riportare l'ordine e la pace in Palestina? “Nessun altro che la partenza degli Ebrei, o almeno la cessazione dei loro progressi e della loro immigrazione, in una parola, il totale abbandono dell'idea di uno Stato ebraico in Palestina” (21). Anche negli anni successivi la Santa Sede manifesterà la propria contrarietà alla nascita di una Jewish Home in Terrasanta, ma questa posizione si ammorbidirà gradualmente, finché, il 30 dicembre 1993, il Vaticano l’entità politico-militare sionista firmeranno a Gerusalemme un “accordo fondamentale” cui farà seguito il reciproco riconoscimento diplomatico. Per i padri gesuiti, d’altronde, il “fomite di disordine e di perpetua guerra” era già diventato da un pezzo “il piccolo Stato d’Israele, deciso a mantenere la propria identità di nazione” (22). L’episodio che coronerà degnamente l’evoluzione dei rapporti tra il Vaticano e l’entità sionista sarà il pellegrinaggio di Giovanni Paolo II, il papa “orfano di un’ebrea” (23), al Muro del Pianto. Il professor de Heekelingen non poteva certo immaginare che i rapporti tra cattolici ed ebrei sarebbero approdati a questo traguardo. Né, essendo morto nel 1941, ebbe modo di vedere quale “soluzione” abbia rappresentato il sionismo per la questione ebraica.
(10) Meir Michaelis, Mussolini e la questione ebraica, Comunità, Milano 1982, p. 84. (11) Renzo De Felice, Il fascismo e l’Oriente, Il Mulino, Bologna 1988, p. 310. (12) Émmanuel Ratier, Les guerriers d’Israël, Facta, Paris 1995, p. 78. (13) Ibidem. (14) Nae Ionescu, Prefata [Prefazione], in: Mihail Sebastian, De doua mii de ani…, Humanitas, Bucuresti 1990, pp. 22-24. (15) ”Protocoalele” înteleptilor Sionului, traduse direct din rubeste în frantuzeste si precedate deo întroducere de Roger Lambelin, în româneste de Ion I. Mota, student [I “Protocolli” dei Savi di Sion, tradotti direttamente dal russo in francese e preceduti da un’introduzione di Roger Lambelin, versione romena di Ion I. Motza, studente], Libertatea, Orastie 1923, p. 14, nota 2. (16) Cfr. Claudio Mutti, A oriente di Roma e di Berlino, Effepi, Genova 2003, p. 20. (17) Una recensione de L’orgueil juif scritta da René Guénon nel 1938 per “Études traditionnelles” si trova in: R. Guénon, Recensioni, edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1981, pp. 26-27. (18) Oltre a Israele, il suo passato, il suoavvenire (Tumminelli, Roma 1937), Vries de Heekelingen pubblicò in Italia alcuni articoli: Fascismo ed Ebraismo (“L’Idea di Roma”, dicembre 1938), L’eterna questione ebraica e la sua soluzione (“Difesa della Razza”, 5 novembre 1939), Il cristiano di fronte al problema ebraico (“L’Idea di Roma”, aprile-maggio 1940) e il saggio intitolato L’atteggiamento del Talmud di fronte al non-ebreo (“La Vita Italiana”, giugno 1940). Questo saggio (un adattamento dell’expertise presentata al Tribunale di Losanna) è stato più volte ripubblicato nel dopoguerra: in appendice a Claudio Mutti, Ebraicità ed ebraismo. I Protocolli dei Savi di Sion (Edizioni di Ar, Padova 1976), nell’opuscolo Il Talmud e i non ebrei (Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1991), nel primo ed unico numero della rivista “La questione ebraica”, 1, agosto 1998, pp. 57-68. La traduzione italiana dell’expertise (Il talmud e il non ebreo) si trova in: Johannes Pohl – Karl Georg Kuhn – H. Vries de Heekelingen, Studi sul Talmud (Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1992). (19) La prima volta fu con l’articolo La questione giudaica “La Civiltà Cattolica”, 1937, II, p. 418; 497; III, p. 27 (20) “La Civiltà Cattolica”, 2 aprile 1938, a. 89, vol. II, quad. 2107, pp. 77-78. L’articolo è riprodotto in: Chiesa, giudaismo, antisemitismo. Gli articoli de “La Civiltà Cattolica” dal 1938al 1940, Effepi, Genova, 2002. (21) Ibidem. (22) “La Civiltà Cattolica”, 5 settembre 1981, a. 132, vol. III, quad. 3149, p. 430. (23) Yoram Kaniuk, L’era che il Papa apre sulla terra degli ebrei, |
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AIPAC: come lavora la lobby sionista negli USA AIPAC – la longa manus di Israele tesa verso Washington L’AIPAC-la lobby ebrea-americana – esercita un’influenza imparagonabile sulla politica estera degli USA, battendosi per ottenere l’appoggio incondizionato degli USA ad Israele. Da anni la lobby americana pro-Israele ostacola il processo di pace nel Medio Oriente, scavalcando tranquillamente la maggioranze dei cittadini statunitensi di fede ebraica. Uomo solitario a Washington Le teorie della cospirazione I falchi determinano le scelte Bush figlio sarà il miglior amico di Israele |
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AIPAC – una macchina perfetta per girare donazioni
Tratto da un articolo di Urs Gehriger, apparso sul Tages-Anzeiger il 22 aprile 2002. Con professionalità e casse sempre piene la lobby pro-Israele negli USA è riuscita a schierare l' 80% dei Parlamentari (Membri del Congresso) attorno agli interessi di Israele. Alla base del successo dell’AIPAC (American Israel Public Affaire Committee = Comitato americano-israeliano per gli affari pubblici) c’è la fanteria, ossia la massa delle reclute. La lobby fa leva su 60 000 iscritti negli USA che possono essere messi in moto in qualsiasi momento, quando si tratta di convincere un Membro del Congresso della validità degli interessi di Israele. Il segreto del successo dell’AIPAC sono i soldi. “La lobby pro-Israele è una macchina dispensatrice di soldi”, scrive Michael Lind in una sua analisi per la rivista inglese “Prospect”, spiegando che la macchina dispensatrice investe con grande professionalità soldi per finanziare su tutto il territorio campagne “volte ad influenzare i Membri del Congresso perfino nelle circoscrizioni elettorali con scarsa o nessuna popolazione ebrea.” Un esempio perfetto del lavoro della macchina messa in moto da questo gruppo di pressione, l’AIPAC, è l’attuale Presidente di Senato, Tom Daschle. Quando Daschle, un membro del partito Democratico, si candidò per la prima volta per un seggio nel Senato, nel 1986, il suo atteggiamento verso Israele era di indifferenza. AIPAC decise di “dargli una cultura”, per usare le parole della lobby. La lobby si assunse il finanziamento della campagna elettorale di Daschle per un quarto delle spese che complessivamente erano di due milioni di dollari. Nelle sue campagne elettorali successive, Daschle ottenne una somma analoga dall’AIPAC, a titolo di contributo. I notevoli investimenti sostenuti rendono bene. Daschle ha fatto carriera – da semplice candidato ad un seggio nel Congresso è diventato Presidente del Congresso – trasformandosi in un affidabile e strenuo avvocato dello stato di Israele. Allo stesso modo, negli ultimi decenni centinaia di parlamentari appartenenti ad ambo i grandi partiti politici, sono stati trasformati a suon’ di contributi finanziari, in sostenitori degli interessi di Israele. Per avere un’idea della distribuzione dei contributi elettorali, vedi il sito della Federal Election Commission www.fec.doc. Il lavoro dell’esercito di reclute dell’AIPAC viene coordinato nella Capitale, dalla Centrale AIPAC, dove lavorano 130 specialisti altamente motivati. Qualora nel Congresso venisse messo sull’ordine del giorno un argomento che fosse di rilevanza per Israele, l’AIPAC fa partire immediatamente a tutti i membri del Congresso una sua circolare di routine, il cosiddetto Talking Point Report, per illustrare brevemente gli interessi specifici di Israele per questo particolare ordine del giorno. Per controllare il comportamento dei parlamentari, l’AIPAC gestisce un registro dettagliato dei voti dati da ogni singolo membro di Congresso alle varie delibere. Nell’imminenza di una votazione particolare, i parlamentari poco decisi vengono sottoposti ad un “trattamento speciale”, di solito ad un colloquio diretto per illustrare loro quali siano gli interessi di Israele. L’efficienza di questo gruppo di pressione pro-Israele è stata commentata da William Quando, un Membro del Consiglio Nazionale di Sicurezza sotto i Presidenti Nixon e Carter: “Il 70% - 80% dei membri di Congresso si comportano, nelle delibere su argomenti ritenuti rilevanti da Israele, secondo le disposizioni date loro dall’AIPAC.” Il lavoro dell’AIPAC viene appoggiato da un'altra grande lobby pro-Israele, la cosiddetta Conferenza dei Presidenti, cioè, la Conference of Presidents of major American Jewish Organizations = Conferenza dei Presidenti delle Maggiori Organizzazioni Ebree., una lega di 51 organizzazioni ebree. I due gruppi di pressione – AIPAC e Conferenza dei Presidenti – si dividono il lavoro: mentre l’AIPAC è focalizzato sul lavoro di lobbying nel Congresso statunitense, la Conferenza dei Presidenti si è assunta il compito di “lavorare” il governo. Le iniziative della Conferenza dei Presidenti sono dettate dal suo capo, Malcolm Hoenlein. Hoenlein, rampollo di una famiglia ebrea-ortodossa di Philadelphia, è stato definito dal giornale Forward quale l’americano ebreo più influente della nazione. Un diplomatico statunitense di alto rango lo descrisse perfino quale la persona privata con la maggiore influenza sulla politica estera degli USA. Grazie alle sue maniere spigliate e le sue conoscenze approfondite del Medio Oriente, gli si sono aperte le porte di tutti gli uffici governativi negli USA. Ogni giorno Hoenlein parla con il Ministero degli Esteri, con un consigliere del Presidente od un Ambasciatore, per mantenere la politica estera degli USA sulla linea tracciata da Israele. Come l’AIPAC, anche la Conferenza dei Presidente svolge una politica decisamente conservatrice. Ufficialmente Hoenlein si dichiara un moderato, dedicato ad Israele prescindendo dalla composizione del relativo governo. Ma la sua grande simpatia per Ariel Sharon e per il partito del Likud non sono un segreto a Washington. Hoenlein non ha mai nascosto la sua opposizione a qualsiasi concessione israeliana verso i palestinesi. Per molti anni Hoenlein aveva rastrellato finanziamenti per Bet El, una delle colonie più problematiche nei Territori Occupati. Hoenlein giustifica il suo impegno per i coloni così “Gli ebrei hanno il diritto di vivere in Giudea e Samaria, la patria ancestrale degli ebrei, giusto come hanno il diritto di vivere a Parigi o a Washington”. |
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La lobby israeliana In data 2 maggio 2002 nel Senato USA 94 Senatori su 96 e nel Congresso 352 Deputati su 373 hanno espresso il loro supporto inqualificabile per Israele in occasione delle recenti azioni militari israeliane contro i palestinesi. Queste delibere erano talmente univoche che l'Amministrazione Bush - che non si potrebbe definire reticente per quanto riguarda l'appoggio ad Israele - aveva cercato di smorzare i toni per non rovinarsi la sua immagine, esposta all'opinione pubblica, di sostenitrice delle trattative di pace. Ma i suoi ammonimenti non furono ascoltati, mentre membri del Congresso, da Joe Liebermann a Tom DeLay, facevano a gara per coprire di encomio Ariel Sharon e di disprezzo Yasir Arafat. Scrivendo delle votazioni, il quotidiano New York Times annoterà che uno dei pochi dissidenti, il Senatore Ernest Hollings della South Carolina avrebbe commentato che molti Senatori "sono a caccia di contributi per le loro campagne elettorali". Questa breve nota a parte, il Times non menzionava mai il ruolo che il denaro od i gruppi di pressione in generale potrebbero avere svolto nel determinare un voto così clamorosamente unilaterale. Più specificamente, il Times non menzionava mai l'AIPAC, il Comitato americano-israeliano per gli affari pubblici. Si tratta di una svista ragguardevole. L'AIPAC viene largamente considerato il più importante gruppo di pressione nel campo della politica estera a Washington. I suoi 60 000 iscritti elargiscono milioni di dollari su centinaia di membri del Congresso di ambo i grandi partiti politici. AIPAC mantiene anche una rete di collaborazione tra cittadini ricchi e potenti in tutto il paese che riesce in qualsiasi momento di mobilizzare per fare valere i suoi obiettivi, cioè, assicurarsi che non vi sia la pur minima fessura tra la politica di Israele e quella degli Stati Uniti. Quindi, quando il voto del Congresso risulta così decisamente un appoggio ad Israele, questo non avviene per coincidenza. Intanto, sfogliando i giornali del Middle East (cioè, gli stati USA "importanti", situati sulla costa atlantica tra Maine e Virginia) durante gli ultimi mesi, non ho trovato nulla sull'AIPAC e sulla sua influenza. L'unica relazione di qualche sostanza era apparsa nel Washington Post, a fine aprile. Nella sua relazione sulla conferenza annuale dell'AIPAC, il corrispondente Mike Allen annotava che tra i partecipanti vi furono la metà dei Senatori, novanta membri del Congresso, tredici alti funzionari degli uffici governativi federali, tra di loro il Capoufficio della Casa Bianca Andrew Card il quale si attirò un interminabile applauso dalla platea quando dichiarò, in ebreo "il popolo di Israele vive". Allen riferiva che l'AIPAC "chiamò uno ad uno centinaia di dignitari, con vivo applauso per ognuno dei nomi citati". Ma nemmeno questo articolo andava più in profondità e non parlava delle azioni della lobby e delle sue tecniche per organizzare finanziamenti volti a compattare l'appoggio del Congresso. AIPAC non è l'unica organizzazione pro-Israele che riesca a restare a riparo dalle luci riflettori. La Conferenza dei Presidenti delle maggiori organizzazioni ebree, nonostante sia poco nota al pubblico generale, ha un'influenza tremenda a Washington, sopratutto sull'Amministrazione Pubblica. La Conferenza, cui sede è a New York, avrebbe il compito di dare voce alle cinquantadue organizzazioni ebree rappresentate nella sua commissione, ma in realtà, la Conferenza tende ad essere portavoce del suo Vice-Presidente, Malcolm Hoenlein. Hoenlein ha per molto tempo mantenuto legami stretti con il partito Likud di Israele. Negli anni novanta, Hoenlein aveva aiutato a reclutare finanziamenti per le colonie nei Territori Occupati ed oggi, riferendosi a quest'ultimi, parla regolarmente di "Giudea e Samaria", usando con ciò una parola d'ordine coniata dai conservatori su ispirazione biblica, per giustificare la presenza di coloni ebrei su questi territori. Un funzionario abile e con grande capacità comunicativa, Hoenlein mette a frutto le sue possibilità di accesso al Governo, al Pentagono ed al Consiglio Nazionale di Sicurezza per premere per un continuo rinforzo della posizione di Israele. Egli svolge il suo lavoro con tanto successo che il giornale ebreo, Forward, l'ha messo al primo posto nella sua annuale graduatoria degli cinquanta più importanti ebrei americani. Hoenlein ha dato prova delle sue capacità organizzative in aprile quando contribuì a mettere in piede il grande raduno pro-Israele a Capitol Hill (nota del traduttore: in concomitanza, in Italia abbiamo avuto l'Israel Day che Ferrara e Mieli dicono di avere escogitato, ma in realtà è stata la lobby pro-Israele negli USA che l'aveva organizzato anche in Europa). Mentre il raduno pro-Israele veniva raccontato in grande stile dai mass-media, Hoenlein rimaneva invisibile, in disparte. Da un mio recente monitoraggio della stampa risulta che da nessuna parte fu pubblicato un'articolo su Hoenlein e su come egli abbia usato la Conferenza dei Presidenti per impedire che l'Amministrazione Bush faccia troppa pressione sul governo di Sharon. Come si spiega questo black-out? Innanzitutto, non è facile parlare di questi gruppi. AIPAC ha un potere che intimidisce potenziali fonti d'informazione trattenendoli dal parlare liberamente ed i suoi dipendenti, in sede di dimissione, normalmente firmano un impegno al silenzio. I funzionari dell'AIPAC raramente concedono interviste e l'organizzazione non è nemmeno disposta a rendere pubblica la lista dei suoi membri di commissione direttiva. Inoltre, giornalisti spesso esitano di scrivere dell'influenza del mondo ebraico organizzato. In tutto il mondo arabo, la "lobby ebrea" è vista come causa di ogni male che succede al Medio Oriente e molti giornalisti e redattori - specialmente gli ebrei tra di loro - sono riluttanti a contribuire a dare conferma a tali stereotipi. Alla fine però, il motivo principale per cui leggiamo così poco di questi gruppi è la paura. Le organizzazioni ebree fanno in fretta a scorgere eventuali tendenze di parte nelle relazioni sul Medio Oriente e fanno in fretta ad articolare le loro proteste. Questo è particolarmente vero per quanto riguarda gli ultimi tempi. Come aveva osservato il Forward a fine aprile, "l'impegno verso lo sradicamento dai media di ogni percepibile tendenza anti-Israele è diventato, per molti ebrei americani, il modo più diretto e più emotivo per esprimere il proprio legame con il conflitto in atto a 6.000 miglia di distanza". Recentemente, circa 1000 abbonati al quotidiano Los Angeles Times avevano sospeso per un giorno il ricevimento del giornale a casa per protestare contro ciò che loro consideravano una tendenza pro-palestinese negli articoli apparsi su detto giornale. Il Chicago Tribune, il Minneapolis Star Tribune, il Philadelphia Inquirer ed il Miami Herald sono stati tutti colpiti da simili azioni di protesta e NPR ha ricevuto migliaia di e-mails di protesta per le sue relazioni sul Medio Oriente. Possono queste azioni di protesta avere un effetto? Prendete in considerazione l'esperienza recente del New York Times. Il 6 maggio, questo quotidiano aveva pubblicato due foto della manifestazione pro-Israele svoltasi a Manhattan. Ambedue le foto facevano vedere la parata pro-Israele in fondo, mentre davanti, in prima vista, il corteo di protesta anti-Israele faceva da protagonista (nota del traduttore: nulla di strano in questo, in quanto il corteo pro-palestinese a New York era molto più numeroso, comprendente anche gli ebrei anti-sionisti). Il giornale fu bersagliato di proteste e subì la minaccia di un boicottaggio organizzato. Il 7 maggio, il Times si cosparse il capo di cenere e pubblicò le sue scuse, il che provocò costernazione negli uffici della redazioni ed alcuni giornalisti e redattori avevano la sensazione che la loro testata si fosse piegata ad un potente fattore d'influenza. "E' molto intimidante" disse un corrispondente ad un collega di un altro quotidiano, ugualmente importante. "I giornali", aggiunse, "hanno paura" di organizzazioni come AIPAC e la Conferenza dei Presidenti. "La pressione di questi gruppi è intransigente. I redattori in capo scelgono di non toccarli nemmeno". Non occorre ricordare che l'appoggio che gli USA fanno avere ad Israele è il prodotto di molteplici fattori - il ruolo di Israele quale unica democrazia nel Medio Oriente, la sua importanza quale alleato strategico degli USA ed il diffuso orrore per le bombe suicide dei palestinesi. Ma il potere della lobby pro-Israele è pure un fattore importante. In effetti, sarebbe impossibile comprendere l'atteggiamento accondiscendente dell'Amministrazione Bush nei confronti del governo Sharon se si volesse prescindere dall'influenza esercitata da gruppi quali l'AIPAC. Non sarebbe forse venuto il momento di esporre questi gruppi alla luce del sole ? Note della traduttrice Susanne Scheidt |
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Il problema e' ancora il sionismo Queste affermazioni catturano l'essenza del sionismo: che uno stato ebraico non avrebbe mai potuto essere creato senza forza, coercizione e pulizia etnica; che la sua sopravvivenza dipende da un grado superiore di violenza che schiacci ogni opposizione; che il sionismo era ispirato dalla convinzione di una giustizia morale che pone gli ebrei al di sopra degli altri; e che, a causa di ciò, tutto era strumentale alla realizzazione dei suoi fini. Per coloro che hanno dimenticato o non hanno mai compreso cosa sia il sionismo, due rimarchevoli articoli da poco pubblicati saranno salutari. Il primo e' un'intervista allo storico israeliano Benny Morris, apparso il 4 gennaio scorso su Ha'aretz ed il secondo e' un articolo di Morris pubblicato sull'edizione del Guardian di Londra del 14 gennaio. In entrambi gli articoli, Morris spiega, con candore agghiacciante, cosa comportava la realizzazione del progetto sionista. Pochi sionisti, al di fuori della cerchia degli estremisti di destra del Likud, avrebbero il coraggio di essere così brutalmente onesti e Benny Morris si definisce un "sionista di sinistra". Più significativamente, egli fu il primo ad esporre le vere circostanze della creazione di Israele, demolendone i falsi miti. Usando i documenti declassificati dell'archivio di stato israeliano per un suo testo di ricerca sul problema dei profughi palestinesi - pubblicato nel 1987 - fu considerato un coraggioso "storico revisionista". Il suo lavoro suggerì a molti che, avendo conosciuto i veri fatti di prima mano, egli sarebbe stato più che simpatetico verso i palestinesi. Negli ultimi anni, tuttavia, ha cominciato ad esporre concezioni sempre più estremiste, come se fosse pentito del fatto di avere esposto senza filtri la selvaggia realtà della creazione di Israele. Questo cambiamento e' culminato nelle ultime esternazioni sulla natura del sionismo. Nonostante esse siano sgradevoli, dobbiamo tuttavia ringraziarlo per aver espresso in maniera così schietta ciò che tutti i sionisti, per quanto "liberali", pensano ma non dicono. Ci fu un tempo in cui gli arabi compresero che il sionismo era la causa basilare del conflitto israelo-palestinese. Dagli anni '20 in poi, i palestinesi, essendo i veri obiettivi, temettero che il sionismo avrebbe preso possesso della loro terra. Cercarono di opporsi, ma non ci riuscirono ed il progetto sionista prese piede. Mentre ciò avveniva, gli altri arabi entrarono nel conflitto ed era abituale che gli israeliani venissero chiamati semplicemente "sionisti" ed Israele "l'entità sionista". La gente scrisse trattati, articoli e libri sul sionismo ed esso veniva percepito come una questione di "bianco e nero". Ma, dopo la guerra del 1967, apparve una nuova ambiguità. La Risoluzione 242, accettata dagli stati arabi, introdusse l'idea che il nocciolo della questione fosse l'occupazione israeliana dei territori post-1967, senza alcun riferimento a ciò che era accaduto prima. Questo pose le basi per tutti i successivi piani di pace arabo-israeliani, che puntavano ad un ritiro israeliano da quei territori in cambio del riconoscimento arabo. La prima applicazione di successo di questo principio fu l'Accordo di Camp David del 1979, che negoziava il ritiro israeliano dai territori egiziani occupati nel 1967 in cambio di un trattato di pace. Nel periodo della Conferenza di pace di Madrid, nel 1991, fu instaurata con fermezza la formula post-1967 "terra in cambio di pace". Madrid coinvolgeva solo gli stati arabi che erano in prima linea, ma nella proposta di pace saudita del marzo 2002, l'offerta divenne ancora più allettante: ritiro israeliano da tutti i territori arabi occupati nel 1967 in cambio della normalizzazione delle relazioni con l'intero mondo arabo. Nel frattempo, la percezione araba di Israele come corpo illegittimo impiantato a forza nella regione dal colonialismo e la cui ideologia, il sionismo, inevitabilmente significava aggressione ed espansione ai danni del mondo arabo, scivolò tranquillamente nel dimenticatoio. Ora il problema era solo l'occupazione israeliana post-1967 e, una volta rettificato, l'integrazione di Israele nell'area avrebbe potuto procedere. I palestinesi avevano una visione più chiara del sionismo. Nel 1969, l'OLP propose la visione di un unico stato democratico che avrebbe potuto sostituire Israele, dando uguali diritti a tutti i suoi cittadini, musulmani, cristiani ed ebrei. Si trattava di una sfida diretta all'idea di uno stato esclusivista ebraico, ma, cosa più importante, si trattava di un rifiuto ad accettare il furto sionista della Palestina del 1948. Tuttavia, l'imponente squilibrio tra le parti costrinse l'OLP a modificare la sua visione e, nel 1974, fu presa la decisione di accontentarsi di molto meno. La soluzione dei due stati nacque nel 1988, e l'OLP riconobbe formalmente Israele entro le frontiere del 1948. Nel 1993, l'OLP firmò gli Accordi di Oslo, che, infine, legittimarono il sionismo. I termini dell'Accordo escludevano ogni discussione sull'Israele del 1948, relegando i negoziati ai territori occupati nel 1967. E, accettando questi termini, l'OLP marcò la sua accettazione della pretesa originale sionista alla Palestina. Questo processo ha trovato la sua apoteosi nei recenti Accordi di Ginevra, che impongono ai palestinesi di riconoscere Israele come "stato ebraico". Non potrebbe essere immaginato un più grande voltafaccia nella storia. Insieme a questo mutamento di attitudine, vi fu una sorta di flirt tra gli arabi ed il sionismo. Dopo il trattato di pace egiziano/israeliano, furono messe in atto un certo numero di attività ed iniziative arabo/israeliane. Queste si rispecchiarono in occidente durante gli anni '80, in cui furono fondati diversi "gruppi di dialogo" e divenne seducente rompere i tabù tradizionali. Gli scambi tra accademici e studiosi arabi ed israeliani divennero comuni e, dopo gli accordi di Oslo, furono iniziati persino progetti congiunti israelo/palestinesi. Iniziarono contatti tra diversi stati arabi ed Israele, ufficiali o segreti. Persino gli stati arabi fautori di una linea dura, come la Siria e la Libia, cominciarono a fare aperture verso Israele. La maggioranza di queste iniziative coinvolgevano però sempre sionisti "liberali", mai la piccola e marginalizzata minoranza di ebrei anti-sionisti. Era come se la vecchia antipatia verso il sionismo, causa della tragedia palestinese e dello scompiglio in Medio Oriente, fosse stata dimenticata. Come la terminologia marxista nell'occidente di oggi, così la retorica anti-sionista prevalente tra gli arabi sembrò dissolversi e molti crederono che i sionisti fossero davvero persone con cui stabilire contatti reali. A questo punto, le rivelazioni di Benny Morris sono come uno schiaffo in faccia. Ci ricorda che Israele fu creato mediante espulsione, stupri e massacri. Le sue più recenti ricerche, citate nella nuova edizione del suo "La nascita del problema dei profughi palestinesi", ne forniscono prove documentate. Lo stato ebraico non avrebbe mai visto la luce senza pulizia etnica e, asserisce, ce ne sarà ancora bisogno, in futuro, per assicurarne la sopravvivenza. Per l'imposizione ed il mantenimento d'Israele e' stata sempre essenziale la forza, spiega; l'ostilità dei nativi verso il progetto era inevitabile sin dall'inizio e doveva essere contrastata da una potenza schiacciante. I palestinesi rappresenteranno sempre una minaccia, dunque vanno controllati e "chiusi in gabbia" (come sta accadendo con il Muro in Cisgiordania). Morris riconosce che il progetto dello stato ebraico e' un'idea impossibile e che, logicamente, non avrebbe mai dovuto essere realizzata. Nondimeno, ne valeva la pena, poiché si trattava di un progetto morale giustificato, nonostante i danni da esso causati, dall'assoluto bisogno di una soluzione al problema ebraico. In ogni caso, gli arabi "hanno una cultura tribale", dice, "senza inibizioni morali" e "capiscono solo la forza". I musulmani non sono migliori. "C'e' un profondo problema, nell'Islam ... per cui la vita umana non ha lo stesso valore che in occidente, ed in cui libertà, democrazia e creatività sono aliene". Queste affermazioni catturano l'essenza del sionismo: che uno stato ebraico non avrebbe mai potuto essere creato senza forza, coercizione e pulizia etnica; che la sua sopravvivenza dipende da un grado superiore di violenza che schiacci ogni opposizione; che il sionismo era ispirato dalla convinzione di una giustizia morale che pone gli ebrei al di sopra degli altri; e che, a causa di ciò, tutto era strumentale alla realizzazione dei suoi fini. Morris si dispiace delle sofferenze palestinesi, ma le considera necessarie al perseguimento di "un bene più grande". "Il diritto dei profughi a tornare nelle loro case sembra naturale e giusto", dice, "ma esso deve essere messo sul piatto della bilancia insieme al diritto alla vita ed al benessere dei cinque milioni di ebrei che vivono attualmente in Israele". Dunque, Morris dimostra eloquentemente perché il sionismo sia un'ideologia pericolosa: alle sue radici vi e' la convinzione di una giustezza morale che giustifica qualsiasi atto ritenuto necessario a preservare la purezza etnica dello stato ebraico. Se ciò significa armi nucleari, forza militare massiccia, alleanze con regimi sgradevoli, furto e manipolazione delle risorse altrui, aggressione ed occupazione, la distruzione dei palestinesi e di qualsiasi altra forma di resistenza, per quanto inumani, ben vengano. L'ideologia sionista non ha perso la sua forza, ed e' profondamente impiantata nell'intimo di molti ebrei siano essi israeliani o no. Nessun arabo dovrebbe credere che si tratti di un'ideologia morta, non importa quanto alla moda possano sembrare i discorsi sul "post-sionismo" o sul "sionismo culturale". A nessuna regione al mondo sarebbe stato chiesto di dare ospitalità a questa ideologia, tranne che allo sprovveduto e arretrato mondo arabo. E' probabilmente un segno di questa inadeguatezza che taluni arabi - governi e popolazione - credano che sia possibile un accomodamento con il sionismo. Abbiamo un debito di gratitudine con Benny Morris per averli disingannati. Il progetto sionista non ha un futuro a lungo termine: il fatto che sia arrivato così lontano e' rimarchevole ma non e' una garanzia di sopravvivenza. Come ha dichiarato lui stesso: "La fine di questo processo potrebbe essere l'implosione". La dott. Ghada Karmi e' presidentessa dell'Associazione delle Comunità Palestinesi in Gran Bretagna. Nacque a Gerusalemme, nel quartiere benestante di Qatamon, ma la sua famiglia fu costretta a riparare altrove nel 1948, dopo l'occupazione israeliana. La famiglia Karmi si trasferì in Inghilterra. Laureata in Medicina all'Università di Bristol, e' politicamente attiva sin dal 1972, quando fondò la prima organizzazione politica palestinese in Gran Bretagna. Ghada Karmi e' accademica e ricercatrice e scrive frequentemente sulla questione palestinese, apparendo spesso sui media arabi e britannici. E' anche a capo della Campagna Internazionale per Gerusalemme. Nel 2002, ha pubblicato la sua autobiografia, In Search of Fatima. |
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Emmanuel Ratier presenta un nuovo libro esplosivo... Dalla rivista "Sodalitium" INTRODUZIONE FONDAZIONE FORMARE DEI QUADRI INFLUENZA POLITICA DEL "B'NAÏ B'RITH" L'INFLUENZA ATTUALE DEL B'NAÏ B'RITH IL B'NAÏ B'RITH E LA MASSONERIA LA REGOLA DEL SEGRETO IL CARDINALE DEL B'NAÏ B'RITH IL CARDINALE BEA FREUD E IL B'NAÏ B'RITH IL B'NAÏ B'RITH E IL COMUNISMO IL B'NAÏ B'RITH E IL SIONISMO IL B'NAÏ B'RITH FA RICONOSCERE ISRAELE IL COMPITO PIÙ ARDUO: IMPEDIRE L'ASSIMILAZIONE IL RIMPIANTO DEL GHETTO E I PERICOLI DELL'EMANCIPAZIONE L'"ANTI-DIFAMATION-LEAGUE": O IL BRACCIO ARMATO DEL B'NAÏ B'RITH L'A.D.L. E LO SPIONAGGIO PRIVATO NEGLI USA UN LIBRO DI DENUNCIA di don Curzio Nitoglia. Il testo francese integrale del libro "Mystères et Secrets du B'nai B'rith" può essere ordinato dalla casa editrice Facta al seguente indirizzo: |
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La sconcertante rivelazione di Ariel Toaff: il mito dei sacrifici umani non è solo una menzogna antisemita Trento, 23 marzo 1475. Vigilia di Pesach, la Pasqua ebraica. Nell' abitazione-sinagoga di un israelita di origine tedesca, il prestatore di denaro Samuele da Norimberga, viene rinvenuto il corpo martoriato di un bimbo cristiano: Simonino, due anni, figlio di un modesto conciapelli. La città è sotto choc. Unica consolazione, l' indagine procede spedita. Secondo gli inquirenti, hanno partecipato al rapimento e all' uccisione del «putto» gli uomini più in vista della comunità ebraica locale, coinvolgendo poi anche le donne in un macabro rituale di crocifissione e di oltraggio del cadavere. Perfino Mosé «il Vecchio», l' ebreo più rispettato di Trento, si è fatto beffe del corpo appeso di Simonino, come per deridere una rinnovata passione di Cristo. Incarcerati nel castello del Buonconsiglio e sottoposti a tortura, gli ebrei si confessano responsabili dell' orrendo delitto. Allora, rispettando il copione di analoghe punizioni esemplari, i colpevoli vengono condannati a morte e giustiziati sulla pubblica piazza. Durante troppi secoli dell' era cristiana, dal Medioevo fino all' Ottocento, gli ebrei si sono sentiti accusare di infanticidio rituale, perché quelle accuse non abbiano finito con l' apparire alla coscienza moderna niente più che il parto di un antisemitismo ossessivo, virulento, feroce. Unicamente la tortura - si è pensato - poteva spingere tranquilli capifamiglia israeliti a confessare di avere ucciso bambini dei gentili: facendo seguire all' omicidio non soltanto la crocifissione delle vittime, ma addirittura pratiche di cannibalismo rituale, cioè il consumo del giovane sangue cristiano a scopi magici o terapeutici. Impossibile credere seriamente che la Pasqua ebraica, che commemora l' esodo degli ebrei dalla cattività d' Egitto celebrando la loro libertà e promettendo la loro redenzione, venisse innaffiata con il sangue di un goi katan, un «piccolo cristiano»! Più che mai, dopo la tragedia della Shoah, è comprensibile che l' «accusa del sangue» sia divenuta un tabù. O piuttosto, che sia apparsa come la miglior prova non già della perfidia degli imputati, ma del razzismo dei giudici. Così, al giorno d' oggi, soltanto un gesto di inaudito coraggio intellettuale poteva consentire di riaprire l' intero dossier, sulla base di una domanda altrettanto precisa che delicata: quando si evoca tutto questo - le crocifissioni di infanti alla vigilia di Pesach, l' uso di sangue cristiano quale ingrediente del pane azzimo consumato nella festa - si parla di miti, cioè di antiche credenze e ideologie, oppure si parla di riti, cioè di eventi reali e addirittura prescritti dai rabbini? Il gesto di coraggio è stato adesso compiuto. L' inquietante domanda è stata posta alle fonti dell' epoca, da uno storico perfettamente attrezzato per farlo: un esperto della cultura alimentare degli ebrei, tra precetti religiosi e abitudini gastronomiche, oltreché della vicenda intrecciata dell' immaginario ebraico e di quello antisemita. Italiano, ma da anni docente di storia medievale in Israele, Ariel Toaff manda in libreria per il Mulino un volume forte e grave sin dal titolo, Pasque di sangue. Magnifico libro di storia, questo è uno studio troppo serio e meritorio perché se ne strillino le qualità come a una bancarella del mercato. Tuttavia, va pur detto che Pasque di sangue propone una tesi originale e, in qualche modo, sconvolgente. Sostiene Toaff che dal 1100 al 1500 circa, nell' epoca compresa tra la prima crociata e l' autunno del Medioevo, alcune crocifissioni di «putti» cristiani - o forse molte - avvennero davvero, salvo dare luogo alla rappresaglia contro intere comunità ebraiche, al massacro punitivo di uomini, donne, bambini. Né a Trento nel 1475, né altrove nell' Europa tardomedievale, gli ebrei furono vittime sempre e comunque innocenti. In una vasta area geografica di lingua tedesca compresa fra il Reno, il Danubio e l' Adige, una minoranza di ashkenaziti fondamentalisti compì veramente, e più volte, sacrifici umani. Muovendosi con straordinaria perizia sui terreni della storia, della teologia, dell' antropologia, Toaff illustra la centralità del sangue nella celebrazione della Pasqua ebraica: il sangue dell' agnello, che celebrava l' affrancamento dalla schiavitù d' Egitto, ma anche il sangue del prepuzio, proveniente dalla circoncisione dei neonati maschi d' Israele. Era sangue che un passo biblico diceva versato per la prima volta proprio nell' Esodo, dal figlio di Mosè, e che certa tradizione ortodossa considerava tutt' uno con il sangue di Isacco che Abramo era stato pronto a sacrificare. Perciò, nella cena rituale di Pesach, il pane delle azzime solenni andava impastato con sangue in polvere, mentre altro sangue secco andava sciolto nel vino prima di recitare le dieci maledizioni d' Egitto. Quale sangue poteva riuscire più adatto allo scopo che quello di un bambino cristiano ucciso per l' occasione, si chiesero i più fanatici tra gli ebrei studiati da Toaff? Ecco il sangue di un nuovo Agnus Dei da consumare a scopo augurale, così da precipitare la rovina dei persecutori, maledetti seguaci di una fede falsa e bugiarda. Sangue novello, buono a vendicare i terribili gesti di disperazione - gli infanticidi, i suicidi collettivi - cui gli ebrei dell' area tedesca erano stati troppe volte costretti dall' odiosa pratica dei battesimi forzati, che la progenie d' Israele si vedeva imposti nel nome di Gesù Cristo. Oltreché questo valore sacrificale, il sangue in polvere (umano o animale) aveva per gli ebrei le più varie funzioni terapeutiche, al punto da indurli a sfidare, con il consenso dei rabbini, il divieto biblico di ingerirlo in qualsiasi forma. Secondo i dettami di una Cabbalah pratica tramandata per secoli, il sangue valeva a placare le crisi epilettiche, a stimolare il desiderio sessuale, ma principalmente serviva come potente emostatico. Conteneva le emorragie mestruali. Arrestava le epistassi nasali. Soprattutto rimarginava istantaneamente, nei neonati, la ferita della circoncisione. Da qui, nel Quattrocento, un mercato nero su entrambi i versanti delle Alpi, un andirivieni di ebrei venditori di sangue umano: con le loro borse di pelle dal fondo stagnato, e con tanto di certificazione rabbinica del prodotto, sangue kasher... Risale a vent' anni fa un libretto del compianto Piero Camporesi, Il sugo della vita (Garzanti), dedicato al simbolismo e alla magia del sangue nella civiltà materiale cristiana. Vi erano illustrati i modi in cui i cattolici italiani del Medioevo e dell' età moderna riciclarono sangue a scopi terapeutici o negromantici: come il sangue glorioso delle mistiche, da aggiungere alla polvere di crani degli impiccati, al distillato dai corpi dei suicidi, al grasso di carne umana, entro il calderone di portenti della medicina popolare. Con le loro «pasque di sangue», i fondamentalisti dell' ebraismo ashkenazita offrirono la propria interpretazione - disperata e feroce - di un analogo genere di pratiche. Ma ne pagarono un prezzo enormemente più caro. * * * Il tema del libro Esce in libreria dopodomani, giovedì 8 febbraio, il libro di Ariel Toaff «Pasque di sangue. Ebrei d' Europa e omicidi rituali» (pp. 364, 25), edito dal Mulino Il saggio affronta il tema dell' accusa, rivolta per secoli agli ebrei, di rapire e uccidere bimbi cristiani per utilizzarne il sangue nei riti pasquali * * * Il caso di Trento Nel 1745 il piccolo Simone venne trovato morto a Trento Per il suo omicidio furono giustiziati 15 ebrei Fino al 1965 Simone fu venerato come beato * * * Uno storico del giudaismo Ariel Toaff, figlio dell' ex rabbino capo di Roma Elio Toaff, insegna Storia del Medioevo e del Rinascimento presso la Bar-Ilan University in Israele Tra le sue opere edite dal Mulino: «Il vino e la carne. Una comunità ebraica nel Medioevo» (1989), «Mostri giudei. L' immaginario ebraico dal Medioevo alla prima età moderna» (1996), «Mangiare alla giudia. La cucina ebraica in Italia dal Rinascimento all' età moderna» (2000) |
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Elio Toaff, storico rabbino capo di Roma, si è associato alla dura condanna del libro di suo figlio: sono assolutamente contrario ROMA — «Mio padre è un uomo di novantadue anni. Sarebbe stato giusto risparmiarlo. Tenerlo fuori da questa storia. Io mi sono comportato così. Avevo deciso di dedicargli il libro, ma ho rinunciato, proprio per non coinvolgerlo, per non nascondermi dietro il prestigio del suo nome. Per lo stesso motivo ho evitato di parlargli del libro, di farglielo leggere prima della pubblicazione. Ora invece è accaduto il contrario: mio padre viene usato contro di me. Il suo nome viene strumentalizzato per lanciare un interdetto contro il mio libro. Anche un tempo i rabbini erano soliti bruciare i libri proibiti. Prima però li leggevano». |