Alla gioventù d'Europa

Di Sergio Gozzoli  -  Numero 34 del 01/04/1992
Testo registrato della conferenza tenuta da Sergio Gozzoli all'Hotel Claridge di Roma, il 26 ottobre 1991.

Ringrazio Maurizio Boccacci del saluto, che ricambio con calore e che anche a nome della intera redazione de «l'Uomo libero» estendo a tutti gli intervenuti, e, con calore particolare, ai rappresentanti di gruppi, associazioni e circoli politici e culturali qui giunti da altri Paesi d'Europa. Ma soprattutto ringrazio Maurizio Boccacci, e con lui tutti gli organizzatori di questa conferenza, di avere offerto a me il privilegio e l'opportunità di trattare qui - davanti ad un pubblico che vedo con gioia composto prevalentemente da giovani - un argomento che sta da sempre al centro e al cuore della nostra intera problematica politica, e che per quanto concerne me personalmente sta da sempre al vertice del mio stesso impegno esistenziale: l'argomento della Patria europea. «Europa ieri, oggi, domani», così recita il titolo della conferenza: vale a dire il passato dell'Europa, la sua situazione presente, il suo possibile futuro. Argomento smisurato, che non mi consentirà certo, purtroppo, di essere breve. Già dire Europa significa infatti evocare subito una molteplicità di immagini e di concetti diversi. Primo fra tutti, naturalmente, un concetto geografico: l'Europa é una terra. Ma subito dopo un concetto di ordine etnico: l'Europa é infatti un insieme di popoli; di popoli affini per comuni radici di sangue e di lingua. Ancora, un concetto di ordine storico: l'Europa é il risultato di millenni di vicende storiche specifiche, é il prodotto della vita fisica e spirituale, delle attività - sociali, produttive e culturali, quindi religiose, artistiche, giuridico-politiche - delle genti che l'hanno abitata per decine di secoli. E infine un concetto di ordine ideale: l'Europa é una civiltà. Quindi un mondo di idee, un mondo di valori, di tradizioni, di costumi, ma anche un modo specifico e particolare di percepire e concepire la realtà, quella cosmica e quella più direttamente umana. Quindi una visione, una visione dell'uomo, del mondo e della vita che é peculiare alla nostra cultura e alla nostra mentalità. Nessuno potrebbe mai, onestamente e scientificamente, affermare che il modo di sentire e interpretare la realtà da parte di un orientale, o di un musulmano, o di un ebreo - appartenga egli a Israele o alla Diaspora - o ancora di un americano o di un indù, non sia profondamente diverso, profondamente altro e lontano rispetto al modo di percepire e registrare la realtà da parte di un europeo. Ma di queste differenze fra le diverse culture e mentalità dei diversi popoli, prodotte dalle naturalmente diverse inclinazioni dei popoli, e ribadite e definite dal marchio che i millenni hanno impresso sui diversi popoli, torneremo a parlare, se necessario, più avanti o in altra circostanza. Quello che ora, in apertura di trattazione, mi preme rilevare e sottolineare, é che non é possibile pensare l'Europa senza avere ben presenti questi quattro momenti fondamentali della sua identità: l'Europa come Terra, l'Europa come Sangue, l'Europa come Memoria storica, l'Europa come Civiltà. Alla cosiddetta pubblica opinione, che é oggi in realtà il prodotto di lunghi decenni di diseducazione e disinformazione soprattutto in termini storiografici, l'idea dell'unità europea viene presentata come qualcosa di assolutamente nuovo, quasi fosse un progetto di ingegneria economico-politica partorito da questi tempi, da questa cultura, da questo sistema. Si tratta, indubbiamente, di una mistificazione. Si tratta di una mistificazione intanto perché l'Europa, per almeno due lunghi periodi storici, é già stata Una; ma ancora e soprattutto si tratta di una mistificazione perché l'idea recente di unità europea non é certo figlia dei tempi ultimi. Essa nacque infatti, e si fece carne e sangue per milioni di Europei, nel grande campo trincerato dell'Europa assediata durante l'ultimo conflitto mondiale, in particolare negli anni fra il 1942 e il 1945. Non è possibile costruire l'Europa - non è possibile pensare l'Europa - senza aver ben presenti questi quattro momenti essenziali della sua identità: l'Europa come terra l'Europa come sangue l'Europa come memoria storica l'Europa come civiltà. L'Europa intanto fu Una, certamente, sotto le insegne di Roma: dall'Atlantico alla Pannonia, alla Germania renana; dal Vallo di Adriano alle foci del Danubio, quindi al Mar Nero, i popoli europei vivevano stretti dalla stessa legge e da un comune destino. Ai vertici politici di questa unità si alternavano imperatori di stirpe italica, illirica, celtica, germanica. Ai confini vigilavano in armi legioni composte di Latini, di Celti, di Greci, di Daci, Germani, Ispanici. Nella universalità dell'idea imperiale romana crescevano a civiltà comune i popoli del Continente senza nulla perdere, però, della loro specificità originaria, della quale Roma fu sempre rispettosa garante. E così per lunghissimi secoli, all'ombra delle Aquile imperiali, i popoli di questo continente vissero un'esperienza di concorde, civile e pacifica convivenza, quale nessun altro continente conobbe mai nella storia. Ma anche dopo la caduta di Roma, dopo il suo crollo, prima che la comparsa degli stati nazionali portasse al lento consumarsi dell'idea imperiale romana, ancora l'Europa fu Una. Quel grande, quell'immenso fenomeno migratorio dei popoli cosiddetti barbarici, che dal nord e dal cuore del continente fino alle sue periferie più estreme produsse ciò che noi oggi possiamo scientificamente definire la «germanizzazione» dell'Europa - coi Goti, coi Danesi, coi Sassoni, coi Burgundi, cogli Alemanni, coi Longobardi, coi Franchi, coi Normanni, coi Vareghi fino al bacino del Volga e del Don - insieme alla pressoché contemporanea cristianizzazione di tutte le genti del continente, fece si che l'eredità di Roma venisse raccolta dalla grande unità della società medioevale europea. Giacché se anche l'idea dell'Impero - pure risorgente, rinascente, ritornante in Carlo Magno, negli Ottoni, in Federico di Svevia, ancora in Dante - non riuscì più, per il distacco della sua componente greco-bizantina, a ricomporsi nella estensione territoriale e nei confini precedenti, tuttavia quella medioevale europea fu certamente nel suo insieme una grande società unitaria. Il mercante, il pellegrino, il chierico, il cavaliere che ne percorrevano le strade si sentivano ugualmente a casa propria, ugualmente in Patria, in un villaggio di Puglia o di Aquitania, in un mercato di Fiandra, su una piazza d'Aragona, in un castello di Boemia o alla corte di Pavia. E i confini non correvano fra Stati, ma fra feudi, fra diocesi, fra contadi di liberi comuni, uniti tutti dall'uso comune della lingua latina, dal diritto romano-barbarico, dal costume cavalleresco e dalla fede religiosa, che per un lunghissimo arco di secoli - quantomeno da Roncisvalle sino a Lepanto - identificò l'Europa nella Cristianità. Poi, con la comparsa degli Stati nazionali, anche se lentamente e gradualmente, andò alla dissoluzione la grande unità medioevale. Eppoi ancora con la scoperta dell'America, con l'intensificarsi dei traffici, con la Riforma protestante, con la fondazione dei grandi imperi coloniali d'oltremare, con la rivoluzione prima scientifica e poi industriale, con l'affermarsi di una società borghese, e soprattutto, dalla fine del Seicento in su, con l'ingresso nella storia di un fattore del tutto nuovo alla storia - ingresso subdolo ma non per questo meno determinante - quello delle grandi banche cosmopolite con la loro strategia dell'equilibrio delle potenze, l'idea stessa di Europa intesa come entità politico-giuridica unitaria cessa di esistere del tutto. Cessa di esistere nel campo del pensiero politico, ma cessa di esistere anche in quello più vasto e generico della speculazione pura, nella quale anzi cominciano a germogliare, in alcuni filoni ideologici derivanti dalla grande corrente illuministico-massonica, le prime utopie internazionaliste e cosmopolite. Bisognerà arrivare al primo conflitto mondiale, ma soprattutto e più ancora alla comparsa dei movimenti fascisti in Europa perché, nella profondità di pensiero di qualche precursore, cominci a balenare la prima coscienza di una unità di destino dei popoli europei. E questi primi fermenti, per quanto scollegati e sotterranei alla grande temperie culturale e ideale degli anni Venti e degli anni Trenta, dovevano dimostrarsi ben vitali se riuscirono, a distanza di tempo, a determinare, o quantomeno a consentire, quella sostanziale coesione e unità di popoli che si espresse nella scelta di campo di milioni di Europei nel Secondo Conflitto Mondiale. Giacché questo é ciò che avvenne, e che va oggi finalmente riconosciuto e riaffermato: sui campi di battaglia di quell'immane conflitto, seppure per una breve fiammata di anni, l'Europa fu Una, e l'idea della sua unità fu la bandiera per la quale scelsero di battersi - e di immolarsi - i difensori estremi della Fortezza Europa assediata da una coalizione mondiale. Certo, alla luce della versione di quel conflitto alla quale ci hanno abituati la storiografia ufficiale dei vincitori e l'intera produzione dei mass-media asserviti ai vincitori, queste mie affermazioni possono apparire azzardate - e forse, ad alcuni, del tutto incomprensibili. E allora andiamo a vedere che cosa ci dicono, nella loro nuda essenzialità, i fatti e le cifre; fatti e cifre che, per amor di rigore ma anche per amor di brevità, io preferisco non citarvi a braccio, ma andarvi a leggere. Prima i fatti, e poi le cifre. Prescindendo dagli altri teatri di guerra - Pacifico, Asia sudorientale, Medio Oriente - il Secondo Conflitto Mondiale nella sua fase cruciale, vale a dire dopo il definitivo saldarsi dell'alleanza fra demoplutocrazie occidentali e comunismo mondiale col coinvolgimento di Stati Uniti e Unione Sovietica, venne combattuto, in Europa e nei possedimenti coloniali europei d'oltremare, dalle Forze Armate dei seguenti Paesi, tutti ufficialmente aderenti all'Asse: Germania, Italia, Slovacchia, Romania, Ungheria, Finlandia, Croazia, Bulgaria e, dopo la disintegrazione del Regno d'Italia di cui faceva parte fino all'8 Settembre 1943, anche l'Albania divenuta da quel momento indipendente. Alle forze poste in campo dall'Asse si aggiungevano però contingenti di volontari provenienti da tutti i Paesi europei, inclusi quelli neutrali e quelli ufficialmente schierati sul fronte avverso: contingenti che giunsero ad un totale di alcuni milioni di combattenti. Inoltre, va rilevata la particolare situazione della Francia che, dopo la rapida sconfitta e l'armistizio concesso da Hitler, conservava una considerevolissima... sui campi di battaglia del secondo conflitto mondiale l'EUROPA FU UNA e l'idea della sua unità fu la bandiera per la quale scelsero di battersi - e di immolarsi - i difensori estremi della Fortezza Europa assediata da una coalizione mondiale. forza militare - in particolare una poderosa Marina - nel suo immenso impero coloniale e sul territorio nazionale non occupato dagli Italo-tedeschi. Ebbene, nonostante la dichiarata neutralità ufficiale del Governo del Maresciallo Petain, le forze francesi dovettero spesso combattere - e talora duramente e sanguinosamente, come in Siria, in Nordafrica, nel Gabon e nel Madagascar - e combatterono sempre ed esclusivamente contro gli Angloamericani. È significativo che nessun reparto francese, in nessuna circostanza - ripetiamo nessuna - compi mai un singolo atto di ostilità militare nei confronti degli Italotedeschi o dei Giapponesi, almeno finché il tradimento di capi militari periferici non tolse a Petain il controllo delle terre francesi d'Oltremare. Dal 1940 a tutto il 1942 gli Occidentali, nella loro linea strategica globale dovettero includere fra i settori nemici anche i territori controllati dall'apparato bellico francese, che in effetti li costrinse all'impegno di notevoli forze di mare, di terra e dell'aria, e inflisse loro perdite nel complesso rilevanti e dolorose. Emblematicamente, la più pesante e bruciante sconfitta subita dagli Inglesi sul mare nell'emisfero occidentale, venne loro inflitta, nella grande battaglia aeronavale di Dakar dal 23 al 25 Settembre del 1940, proprio ad opera dei Francesi. Ma sul complessivo contributo francese alla guerra europea - in termini militari, ma anche politici, culturali e produttivi - torneremo a parlare fra poco, in un elenco delle cifre relative a tutti i singoli Paesi del Continente. Quello che ora, nell'ambito dei fatti, vogliamo qui ricordare, sono solo alcuni degli eventi che possiamo definire significativi ed emblematici del carattere vastamente europeo della Seconda Guerra Mondiale. Innanzitutto, il conflitto fu aperto in Europa da un'operazione congiunta delle forze armate tedesche e slovacche, che insieme varcarono i confini della Polonia il 1° Settembre 1939; e fu definitivamente chiuso non già con la resa del 3° Reich e delle forze germaniche, ma soltanto con la resa dell'esercito croato. Le forze croate, tatticamente imbattute pur di fronte all'incalzare dell'Armata Rossa e delle bande titine, si erano ritirate, seguite da una smisurata fiumana di civili in fuga, in territorio austriaco, dove trattarono un accordo di resa col Comando britannico - accordo che i Britannici tradirono poi in modo infame consegnando tutti i Croati, ben più di mezzo milione fra civili e militari ormai disarmati, ai Titini serbi che ne avrebbero fatto orrendo massacro. Ebbene, questo accordo di resa venne firmato il 14 Maggio 1945: vale a dire ben sette giorni dopo la resa della stessa Germania! Negli ultimi anni di guerra - dopo la capitolazione di una Finlandia stremata che aveva dato tutto il possibile, e dopo i vergognosi rovesciamenti di fronte delle monarchie italiana, romena e bulgara - in una Fortezza Europa ridotta alla sua cittadella centrale, continuavano a combattere i Tedeschi, continuavano a combattere gli Italiani della RSI - un milione di uomini, fra i quasi ottocentomila delle forze armate repubblicane ed i più di duecentomila arruolati in reparti tedeschi - continuavano a combattere gli Ungheresi, decine di migliaia di Romeni e migliaia di Bulgari che avevano rifiutato il tradimento dei propri vertici; continuavano a combattere i Croati, i Bosniaci musulmani, gli Slovacchi, gli Albanesi, i Baltici, gli Ucraini, i Georgiani, i Cosacchi, e fortissimi contingenti - decine di divisioni - di volontari olandesi, valloni e fiamminghi, norvegesi, finlandesi, danesi, svizzeri, francesi, spagnoli, portoghesi, russi e bielorussi, tartari di Crimea, e anche serbi, sloveni, montenegrini e persino svedesi e inglesi. Incarcerato in Patria il capo del fascismo inglese, Mosley, i capi politici e militari di quell'Europa in armi non si chiamavano più Mussolini e Hitler soltanto, ma Derelle, Quisling, Szalazye, Pavelic, Doriot, Mussert, Horia Sima, Moravec, Tuka. E del norvegese Quisling, nel discorso d'insediamento al Governo nel Febbraio del '42, il primo chiaro progetto ufficiale di una integrazione dei vari Paesi europei; discorso del quale vale qui la pena rileggere qualche brano saliente: «Il futuro - disse Quisling - appartiene a combinazioni di grandi Stati. Lo sviluppo della storia moderna mette fuori gioco le piccole e medie potenze... Churchill sta oggi distruggendo l'Impero britannico, ma dobbiamo tener conto che il Nordamerica, con la sua popolazione e le sue gigantesche risorse, prenderà il posto della Gran Bretagna e ne continuerà la politica... All'Est continuerà a crescere l'oceano dei popoli. Nonostante la sua superiorità culturale, l'Europa, stretta fra i due colossi che le sono cresciuti accanto, si troverà in una posizione di rischio se non sarà unita in una stabile federazione di libere nazioni». Veramente sorprendente la lucidità di visione di questi uomini, e la loro capacità di anticipazione degli eventi, con quell'affermazione relativa alla disintegrazione dell'Impero britannico che nessuno, dall'altra parte, avrebbe allora saputo prevedere; e grandemente significativo é l'accenno ai due colossi che l'Europa, in futuro, si sarebbe trovata accanto, e per i quali, si badi bene, non era prevista né invocata alcuna distruzione o sottomissione: l'intenzione fascista o nazista di dominare il mondo é, evidentemente, un'invenzione della propaganda occidentale.«Il futuro - disse Quisling nel 1942 - appartiene a combinazioni di grandi Stati. Lo sviluppo della storia moderna mette fuori gioco le piccole e medie Potenze... Churchill sta oggi distruggendo l'Impero britannico, ma dobbiamo tener conto che il Nordamerica, con la sua popolazione e le sue gigantesche risorse, prenderà il posto della Gran Bretagna e ne continuerà la politica... all'Est continuerà a crescere l'oceano dei popoli. Nonostante la sua superiorità culturale, l'Europa, stretta fra i due colossi che le sono cresciuti accanto, si troverà in una posizione di rischio se non sarà unita in una stabile federazione di libere nazioni». Accanto ai politici, a condividerne la scelta e la sorte, si schierano i giganti del pensiero europeo: Heidegger, Gentile, Marinetti, Celine, Brasillach, Drieu la Rochelle, l'americano Ezra Pound - certo il più grande poeta del secolo, europeo e fascista di elezione - e il Premio Nobel Knut Hamsun, norvegese, che a guerra ormai conclusa, nell'imminenza del suo arresto, scrive e pubblica l'Elogio funebre di Hitler. Sui campi di battaglia dell'intero continente, molte divisioni della Wehrmacht sono composte, talvolta fino a due terzi, da volontari dei paesi dell'Est. A Stalingrado - in città e nei settori circostanti - combattono insieme Tedeschi, Romeni, Ungheresi, Russi, Italiani, Croati, Slovacchi, Cosacchi... In Normandia, accanto ai Tedeschi, si battono Georgiani, Cosacchi, Russi, Baltici, Polacchi. Fra i popoli che danno il più alto contributo militare, quelli baltici: in Lettonia, 1'8% dell'intera popolazione - praticamente tutti i maschi adulti - indossa l'uniforme tedesca. Nell'eroica, leggendaria difesa di Budapest - che gli stessi storici marxisti definirono più ostinata e tenace di quella di Berlino - si sacrificano insieme Ungheresi, Tedeschi, Francesi, Italiani. Quando l'esercito ungherese, perso metro per metro l'intero territorio nazionale, passa in Austria per continuare a combattere entro i confini del Reich, esso é seguito da un vero oceano di profughi: 800.000. Nell'ultimo inverno di guerra, l'ala meridionale del fronte orientale é difesa da 5 divisioni tedesche, da 8 divisioni di volontari balcanici e cosacchi, e da 16 divisioni dell'esercito regolare croato, mentre ormai, in tutta l'Europa, l'elemento germanico nelle Waffen SS é minoritario rispetto ai volontari non-tedeschi, e molti reparti operativi sono guidati sul campo da ufficiali non-tedeschi. Sulla Junkerschule di Bad Tólz - la scuola ufficiali delle SS - vera e propria Accademia militare europea, sventolano tutte le bandiere del Vecchio Continente: «già nell'inverno '43-'44 - scrive lo storico francese Landemer - i soldati provengono da più di trenta nazioni, ed il vecchio orgoglio nazionale é in procinto di scomparire a favore di un nuovo Reich. Il Reich non é più la Germania, ma l'Europa». Nel Governo di Hitler vi sono già Ministri non-tedeschi, come lo svizzero-italiano Dr. Conti, Ministro della Sanità, già alto ufficiale delle SS, mentre solo la caparbia scelta combattentistica di prima linea impedisce a Leon Degrelle - capo del fascismo belga - di divenire, nel Governo del Reich, pari grado di Goebbels e di Góring. Fra gli estremi difensori delle città ridotte in macerie, accanto ai vecchi e agli adolescenti tedeschi, spalla a spalla si battono i volontari scandinavi, baltici, valloni e fiamminghi, spagnoli, romeni, olandesi, ucraini, balcanici. A Berlino, combattono e muoiono persino volontari inglesi! Emblematicamente, nelle ultimissime ore del conflitto, le ultime decorazioni al valore, le ultime tre Croci di Guerra, vengono appuntate sul petto di volontari francesi. Ma un ultimo fatto, prima di passare alle cifre, va qui sottolineato: la cooperazione popolare in campo industriale, agricolo, tecnico, dei trasporti. Non vi sono, mai, né scioperi né boicottaggi di massa: il rendimento dei contadini e degli operai boemi e moravi, per esempio, giunge spesso a superare quello degli stessi Tedeschi. Fino all'ultimo giorno, nonostante i bombardamenti, nonostante la celebrata Resistenza, nonostante le distruzioni, nonostante l'assenza delle masse giovanili e dei quadri migliori impegnati al fronte, tutto continua a funzionare in quell'Europa assediata - dalle scuole agli ospedali ai tribunali alle poste alle reti elettriche ai trasporti alla distribuzione delle derrate alimentari - tutto continua a funzionare incomparabilmente meglio che nelle zone occupate da Occidentali o Sovietici anche a guerra finita. Solo il campionato di calcio viene sospeso. Ma ciò che può apparire oggi incomprensibile, e che mai la storiografia ufficiale ha sottolineato né commentato, é la disciplinata dedizione, é lo spirito di sacrificio, é la determinata collaborazione di milioni e milioni di lavoratori non te deschi impegnati nell'industria di guerra in Germania. Pur sottoposti a privazioni alimentari, a ritmi di lavoro durissimi, ai quotidiani bombardamenti terroristici angloamericani, in questa massa enorme di lavoratori non coatti, ma liberi di muoversi, di agire, di parlare fra loro, quindi anche di cospirare se lo avessero voluto - fra questi milioni di uomini in parte volontari, ma spesso ex-prigionieri e quindi ex-nemici - fino all'ultimo giorno, quando le città tedesche distrutte venivano occupate una per una dal nemico, non germinò mai il benché minimo fermento di ribellione, di disordine, di defezione, di disobbedienza civile. Come spiegare tutto questo? Tutto questo può forse essere spiegato, in parte, con la perfetta organizzazione germanica, e in parte con l'esempio di stoica fermezza offerto a questi uomini dall'intero popolo tedesco; si può forse ancora spiegare, in parte, con l'odio antioccidentale che i disumani bombardamenti terroristici suscitavano in loro; ma la spiegazione fondamentale non può essere che un'altra: queste masse di uomini, insieme alle loro famiglie a migliaia di chilometri di distanza, sentivano ormai quella guerra come propria. Una guerra che gli Europei, tutti gli Europei, non potevano lasciare ai soli Tedeschi, né per vincerla, né per perderla. Di fronte alle due barbarie incombenti, quella dell'americanismo e quella del bolscevismo, non solo le élites intellettuali e militanti, ma vastissime masse popolari sentivano per istinto che il destino dell'Europa era comune. E veniamo ora alle cifre. Prescindiamo naturalmente dalle cifre relative alla Germania e all'Italia, quali protagoniste «ufficiali» del conflitto in Europa, per esaminare invece uno per uno, dettagliatamente ma sinteticamente, i Paesi e i popoli dell'intero continente. FINLANDIA: Mette in campo, su 3.500.000 abitanti, 400.000 combattenti. Quando giunge allo stremo, ha lasciato sul terreno 85.000 morti e 50.000 fra mutilati e invalidi. Nonostante questo, nelle SS europee continuano a combattere, fino alla fine del conflitto, 3.000 volontari finlandesi. NORVEGIA: Ufficialmente nemica dell'Asse, contribuisce alla guerra europea con 50.000 combattenti in divisa, più di 40.000 militanti del Nasjonal Samling, il partito fascista locale, e 100.000 lavoratori-militari. A guerra finita, i fascisti incarcerati sono almeno 92.000. Quando diciamo almeno, qui e più avanti, ci riferiamo sempre alle più basse fra le valutazioni delle diverse fonti, e sempre a fonti storiografiche di parte antifascista. DANIMARCA: Oltre 20.000 volontari combattenti. I Danesi incarcerati, a fine guerra, sono almeno 16.000. OLANDA: Almeno 60.000 uomini in armi, di cui oltre 10.000 i caduti in combattimento. 100.000 militanti politici più centinaia di migliaia di collaboratori civili. A fine guerra, fra 150 e 200.000 gli arrestati, oltre a 20.000 bambini che, avendo entrambi i genitori in carcere, non possono essere sistemati altrimenti che in carcere anche loro. A 127.000 Olandesi viene tolto il diritto di servire nell'esercito, a 95.000 vengono precluse carriere pubbliche, 60.000 vengono privati della nazionalità. BELGIO: Almeno 130.000, fra Valloni e Fiamminghi, i militanti in armi. Incerto, ma calcolabile comunque in parecchie migliaia, il numero dei caduti. Almeno 87.000 gli incarcerati a fine guerra. 700.000 i Belgi schedati come fascisti. LUSSEMBURGO: Oltre 10.000 i Lussemburghesi nelle forze armate tedesche. FRANCIA: Molte centinaia di migliaia gli aderenti ai numerosi partiti e movimenti fascisti. Il principale - il Parti Populaire Fran~ais - conta 50-60.000 militanti attivi, mentre il numero degli iscritti sembra avere raggiunto le 250.000 unità (100.000 nella sola regione parigina). In occasione del suo Congresso del Novembre 1943, il Partito riunisce a Parigi 7.200 delegati di 88 federazioni: di questi, ben 1.556 sono ex-comunisti, come lo stesso Doriot, il capo più prestigioso del fascismo francese, e 588 sono ex-socialisti. Rilevantissime le espressioni di solidarietà di massa al Nuovo Ordine europeo: nel Marzo 1942, al primo pesante bombardamento aereo su Parigi, segue una manifestazione di protesta di 300.000 persone; la mostra antisemita «l'ebreo e la Francia» vede 1 milione di visitatori in un mese; e quando il 28 Giugno 1944 la resistenza uccide Philipe Henriot, ministro fascista dell'informazione, 400.000 cittadini rendono omaggio alla salma. Pieno, massiccio, ed essenziale alla macchina bellica dell'Asse, fu, come quello boemo-moravo nella ex-Cecoslovacchia, l'impegno produttivo industriale e agricolo francese; totale fu l'impegno amministrativo; entusiastico, tanto da fare di Parigi, ben più che Roma o Berlino, la vera capitale dell'eurofascismo, fu l'impegno culturale: dai grandi nomi della cultura francese - Celine, Brasillach, Drieu la Rochelle - che misero in gioco la loro stessa vita, a migliaia di giornalisti, commentatori radiofonici, grafici, cineasti, artisti, la Francia diede all'apparato propagandistico dell'Europa in armi la sua vera spina dorsale. Nel 1943, la Francia produceva 9.348 opere di genere letterario, artistico o scientifico contro le 8.320 degli Stati Uniti e le 6.075 della Gran Bretagna - e la produzione cinematografica francese superava quella della stessa Germania. In campo militare, almeno 250.000 sono i Francesi in armi. Almeno 27.000 i caduti in divisa germanica - 70.000 i civili morti sotto i bombardamenti occidentali - 100.000 i massacrati dalla Resistenza a guerra finita, 1 milione gli incarcerati. SPAGNA: Quando Franco, dopo molte esitazioni, sotto la incontenibile pressione della pubblica opinione spagnola, autorizza l'arruolamento di una divisione di 18.000 uomini, ai centri di reclutamento si presentano centinaia di migliaia di volontari in 10 giorni. In effetti, a rotazione, i combattenti spagnoli di terra e dell'aria, che danno splendida prova di sé sul fronte Nord Orientale, sono più di 50.000. L'ultimo reparto spagnolo, la cosiddetta unità Ezquerra, si sacrifica interamente nella difesa estrema di Berlino. PORTOGALLO: Una «legione verde» di 1.000 volontari portoghesi é aggregata alla Divisione Azul spagnola e ne condivide la sorte. Si ritrovano però volontari portoghesi anche nelle Waffen SS. SVIZZERA: I militanti nazionalsocialisti svizzeri ammontano, nel '41-'42, a 25.000, ai quali devono aggiungersi migliaia di fascisti del Canton Ticino. Nonostante una dura politica repressiva da parte del Governo (9.000 furono gli inquisiti, e vennero pronunciate almeno 12 condanne a morte) quasi 1.500 volontari svizzeri riescono ad arruolarsi nelle Waffen SS, combattendo dalla Lapponia e dalla Carelia fino a Berlino. SLOVENIA: 15.000 i militanti anticomunisti armati dai Tedeschi nel '44-'45. 6.000 le SS slovene. CROAZIA: Quello croato fu forse il più accesamente e consapevolmente fascista - insieme a quelli ungherese, slovacco, lettone e fiammingo - fra tutti i popoli europei. 250.000 i combattenti delle forze nazionali, più tre divisioni di volontari nella Wehrmacht e due divisioni nelle SS europee. Incalcolabile il numero delle vittime, ma certo non inferiore al mezzo milione. SERBIA: 30.000 uomini in armi, fra cui il dichiaratamente fascista Corpo Volontario Serbo. Mal definibile invece la posizione dei Cetnici. Di numero variabile da momento a momento, data la struttura elastica della loro organizzazione militare - che però secondo alcune fonti giunge a schierare 326.000 uomini - i Cetnici iniziano come resistenti anti-italiani e anti-tedeschi, e terminano il conflitto come loro alleati. Decretata la lotta ad oltranza contro sovietici e comunisti titini, finiscono schiacciati dal rullo compressore dell'Armata Rossa. I superstiti continuano per mesi la guerriglia anti-comunista, mentre in decine di migliaia si uniscono ai Croati - insieme a Tedeschi, Montenegrini, Albanesi e Italiani - nella ritirata verso l'Austria. UNGHERIA: Uno dei pilastri della Fortezza Europa: annientata sul fronte orientale la la Armata (200-250.000 uomini), ne mette in campo altre tre che combattono in Patria, in Transilvania, in Slovacchia e poi in Austria fino alla fine della guerra. 100.000 i giovanissimi volontari del Partito delle Croci Frecciate - dai 14 ai 17 anni - fra i protagonisti della leggendaria difesa di Budapest. 160.000 gli Ungheresi nelle SS europee. Almeno 120.000 i caduti militari, 280.000 i civili. 800.000 gli esuli e 610.000 i deportati in URSS. ROMANIA: É romeno uno dei più originali e affascinanti movimenti fascisti europei: le Guardie di Ferro della Legione dell'Arcangelo Michele, il cui capo e fondatore, Corneliu Codreanu, é assassinato in carcere da quel regime monarchico che tradirà poi l'Asse. Fino al voltafaccia della Corona, nel 1944, la Romania mette comunque in campo 1 milione di uomini. 350.000 i caduti sul fronte dell'Est, più un numero incalcolabile - ma certo molte centinaia di migliaia - di vittime civili dei bombardamenti alleati, delle purghe post-belliche e delle deportazioni stalniste. 70.000 i volontari nelle SS europee - fra cui Artur Phleps, generale delle SS e acceso europeista. BULGARIA: Partecipa soltanto ad operazioni contro la Jugoslavia e la Grecia, e a battaglie aeree contro gli Angloamericani, rifiutandosi però sempre di dichiarare guerra all'URSS. Sono comunque almeno 3.000, nell'ultimo anno di guerra, i volontari bulgari nelle SS europee. SLOVACCHIA: É il primo alleato della Germania. Governata dal regime cattolico-fascista di Monsignor Tiso, sostenuto da una popolazione fedele, mette in campo 170.000 uomini, che si sacrificano in gran numero. Nonostante i massacri e le deportazioni post-belliche, la guerriglia antisovietica continua fino al 1952. ALBANIA: Le forze armate nazionali dello Stato albanese, che dopo 1'8 Settembre'43 aderisce all'Asse, contano fino a 50.000 uomini. Annientate queste forze, i superstiti si aggregano a Croati e Tedeschi in ritirata, mentre altri continuano la guerriglia fino al 1952. GRECIA: Nonostante la tenace e durissima guerra di difesa anti-italiana, la Grecia mette in campo 15.000 uomini dei Battaglioni di Sicurezza filofascisti, più l'intera Gendarmeria nazionale, e offre fra 1.000 e 2.000 volontari alle SS europee. POLONIA: É il Paese europeo più ostile all'Asse e il più eroicamente combattivo: persino i partigiani ufficialmente fascisti delle NSZ - 30.000 uomini - combattono all'inizio contro i Tedeschi, cui però si alleano negli ultimi mesi di guerra. La loro guerriglia anticomunista sarà annientata solo nel 1951. UNIONE SOVIETICA: Per brevità non elenchiamo uno per uno i singoli popoli che pur qua e là citeremo. Nell'insieme i cittadini sovietici che vestono la divisa tedesca sono almeno 1.700.000 - anche se esistono stime che giungono al doppio - con arruolamenti volontari ancora nel '45, a guerra chiaramente perduta. Sono almeno 200.250.000 i volontari caucasici - georgiani, armeni, azerbaigiani - e 250.000 i cosacchi, seguiti dalle intere famiglie. Incalcolabile il numero degli Ucraini in armi o volontari come lavoratori in Germania. Molte centinaia di migliaia i massacrati da Stalin. Krusciov afferma che gli Ucraini non vennero deportati tutti, come altri popoli dell'URSS, solo perché erano troppi. 300-350.000 i volontari grandi-russi del Generale Vlasov, e moltissimi altri nelle divisioni tedesche; almeno 250.000 i Baltici, che oltre a battersi su tutti i fronti di guerra, continuano la guerriglia fino agli anni '50. Su tutti questi popoli, con la controffensiva sovietica e la ritirata dell'Asse, si abbatte spietata la vendetta di Stalin: incalcolabile il numero dei massacrati, mentre più di un milione di civili russi e ucraini seguono disperati le truppe dell'Asse verso l'Europa Centrale. A guerra finita, ancora a milioni - molti milioni - vanno calcolati gli Ucraini, gli Ungheresi, i Romeni, i Baltici, i Polacchi, i Caucasici, i Cosacchi che, insieme ai Tedeschi dell'Est, vengono deportati in immense fiumane e in condizioni bestiali, cadendo come mosche lungo gli interminabili chilometri del loro calvario. A questi sono da aggiungere tutti i volontari caduti prigionieri degli Angloamericani, prigionieri che - in violazione infame degli accordi - i democratici occidentali riconsegnano a Stalin. È un uragano di violenze, di stupri, di massacri che in nome della Libertà e della Democrazia si abbatte sulle masse dei vinti. Una smisurata coltre di sangue, di sofferenze, di martirio che, stendendosi sull'intero continente, OGGI COME IERI ACCOMUNA, nella memoria storica della sconfitta, TUTTI I POPOLI EUROPEI. Detto questo, che a mezzo secolo di distanza andava pur detto, se non altro in ossequio alla verità - verità la cui ricerca e la cui affermazione rappresentano una insopprimibile esigenza esistenziale oltre che un imperativo morale per qualunque uomo degno di questo nome - il problema che immediatamente ci si propone é quale forza possa realizzarla oggi, questa unità europea. Giacché é evidente che di una forza vi é bisogno. Una forza politica, una realtà cioé costituita di uomini, di idee e di volontà, che abbia come obiettivo l'integrazione politico-organica dei popoli europei. Altrettanto evidente é che dovrà trattarsi di una forza autenticamente europea - anzi, esclusivamente europea. Pensieri e uomini, cioé, che siano totalmente liberi da ipoteche ideali e psicologiche e da condizionamenti pratici che possano legarli ad interessi extra-europei. Primo fra questi condizionamenti, e fra tutti il più deleterio, é certamente il mito, anzi il concetto stesso di «Occidente». Ed è storicamente corretto, ma soprattutto - se vogliamo fare l'Europa - è oggi politicamente necessario scindere nettamente e definitivamente il concetto di Europa da quello di Occidente. non soltanto perché nella vastità e nella ambiguità del concetto di Occidente naturalmente si annacqua, si stempera, si snerva ogni vera idea dell'Europa, ogni vera passione per l'Europa, ma soprattutto perché si tratta di un mito artificioso e illusorio, anzi di una vera e propria truffa concettuale, di un inganno dialettico che é soltanto servito a garantire, per mezzo secolo, la sudditanza dell'Europa alla volontà e agli interessi americani. Truffa e inganno per la semplice ragione che questo mitizzato Occidente - inteso come comunanza di civiltà, di interessi e di destino fra Paesi e Continenti diversi e lontani - non é in realtà esistito. Quello che é esistito é stato soltanto un grande terrore, un grande e comune terrore di massa - non certo dei vertici consapevoli - nei confronti dell'espansione comunista. Ma al di fuori di questo terrore - che a ben guardare é sempre stato alimentato, anzi, da Teheran e Yalta in su, creato ad arte proprio dai vertici dell'Occidente vittorioso che, consapevolmente e deliberatamente, vollero che il comunismo si insediasse su metà dell'Europa e quattro quinti dell'Asia perché l'Europa e il Giappone non potessero trovare altro riparo che le gran braccia americane - al di fuori di questo grande ed immenso terrore comune, che altro potrebbe accomunare le diverse componenti, i diversi popoli, così estranei l'uno all'altro, quali quelli che dovrebbero costituire insieme questo mitizzato Occidente? Andiamo infatti ad analizzarlo, ad esaminarlo da vicino, elencando una per una le componenti di questo mitizzato Occidente: gli Stati Uniti d'America, la Gran Bretagna, dall'altra parte del mondo il Giappone, i Paesi industrializzati dell'Estremo Oriente e dell'Asia Sudorientale (la Corea del Sud, Singapore, Hong Kong, Taiwan), i popoli europei nel loro insieme, alcuni Paesi dell'ex-Commonwealth (Canada, Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica bianco) e infine, a pienezza di titolo nella comune accezione del termine di Occidente, Israele con l'intera costellazione delle comunità ebraiche sparse nel mondo. Ora, quanto poco possano avere in comune - in termini di radici civili, di memoria storica, di tradizioni, di costumi, di interessi e di destino - queste diverse componenti, mi sembra di evidenza tanto solare da non meritare argomentazioni ulteriori. È quindi oggi storicamente corretto, ma soprattutto, se vogliamo fare l'Europa, politicamente necessario scindere nettamente e definitivamente il concetto di Europa da quello di Occidente. Certo, vi é stato un tempo - e questo va qui detto e ricordato, se non altro per prevenire malevole e saccenti obiezioni - in cui l'Europa era l'Occidente, in contrapposizione ad un Oriente estraneo ed ostile. Certamente da quando ne abbiamo documentazione e quindi cognizione storica - vale a dire da almeno tremila anni - ma probabilmente fin dalla notte stessa dei tempi, sempre l'Europa e l'Oriente si sono dovuti affrontare in una sfida la cui posta é stata spesso mortale. Quasi tremila e trecento anni fa, a Kadesh sul fiume Oronte, in Siria, ebbe luogo la prima grande battaglia campale della quale la storia ci abbia lasciato una documentazione sufficiente per ricostruirne la dinamica e le fasi tattiche. Da una parte l'esercito ittita, al comando di re Muwatallis, e dall'altra l'armata egizia, agli ordini del faraone in persona, il grande Ramsete II. Nonostante le spudorate falsificazioni della storiografia egizia, noi sappiamo oggi per certo che vinsero gli Ittiti. A stento il faraone ne scampò illeso, e dovette sottoscrivere un trattato di pace, fra le altre cose sorprendente per la modernità di alcune delle sue clausole, col quale egli riconosceva, sostanzialmente e di fatto, la realtà della potenza ittita. Era l'esordio, sul grande palcoscenico della storia, dei popoli indoeuropei. Anzi, se prescindiamo dai Medi e dai Persiani - di sangue indoeuropeo ma di collocazione geografica extraeuropea - era l'esordio, sul grande palcoscenico della storia, del primo Stato europeo degno di questo nome: il regno ittita. Ma era altresì, allo stesso tempo, il primo atto - a noi storicamente noto - di quell'interminabile conflitto tra l'Europa e l'Oriente che, lungo l'arco dei millenni, é giunto fino ai nostri giorni. Giacché, attraverso una seria interminabile di altre battaglie - quelle di Maratona, del Granico, di Canne e di Zama, di Azio, dei Campi Catalaunici, di Poitier, di Lepanto, di Vienna, di Poltava, della Beresina - la battaglia di Kadesh del 1296 a.C. é legata, dal filo rosso di una ininterrotta continuità storica e logica, alla battaglia di Stalingrado nell'ultimo conflitto mondiale. Perché gli Ittiti contro Egitto e Babilonia, come gli Spartani alle Termopili, o Scipione a Zama, erano l'Europa; così come erano l'Europa i Paladini franchi sui Pirenei, e Pisa, Genova e Venezia per tutte le distanze del Mediterraneo, e i Crociati in Terra Santa, e il Cid Campeador contro i Mori; e i nobili polacchi contro i Mongoli, e i Cavalieri Teutonici in Prussia e in Livonia, e gli Ungheresi e i Croati nei Balcani, e gli Svedesi e i Cosacchi d'Ucraina a Poltava, ancora erano l'Europa. E ancora - piaccia o non piaccia - erano l'Europa Napoleone e Hitler in Russia, e i loro nemici, sempre, erano l'Oriente. Più volte - coi Persiani, con Annibale, con gli Unni, coi figli di Gengis Khan, con gli Arabi, coi Turchi ottomani - l'Europa fu sul punto di essere soverchiata e cancellata: ogni volta reagì, si batté e restò il centro motore della storia e il cuore del mondo. Ma allora il resto del mondo era tutto ad oriente, perché il mondo finiva sulle coste atlantiche - tra l'Estrema Thule e le Colonne d'Ercole - e l'Europa era, naturalmente, l'Occidente. Da due secoli in qua però, da due secoli almeno, le cose sono cambiate: al di là dell'Atlantico un'altra potenza é sorta, che ha allargato il mondo e duplicato il fronte. E la battaglia di Saratoga fra i coloni americani e le truppe inglesi, l'atto della resa sudista ad Appomattox - che fu l'atto di resa di quella europea fra le due anime del Nordamerica - il blocco della flotta spagnola a Cuba, l'enunciazione della cosiddetta «dottrina Monroe», che dichiarava chiusa alle potenze europee ogni sfera d'interesse nell'area di ambedue le Americhe, e, infine, l'intervento americano nei due conflitti mondiali e soprattutto l'accamparsi delle truppe americane sul suolo europeo in questo interminato dopoguerra, sono i nodi salienti di un secondo filo rosso che segna la ininterrotta continuità di un aperto confronto, anzi di un aperto conflitto, fra l'Europa e il Nuovo Occidente. Conflitto nel corso del quale l'Europa - divisa al suo interno e stretta contemporaneamente da ovest e da est - ha conosciuto soltanto sconfitta e umiliazione. Ecco dunque la realtà storica: altro che «comune Occidente»! Ed ecco ancora, ad integrare questa realtà storica, la panoramica reale della situazione mondiale, così come ci appare oggi, in questo scorcio di millennio, dopo la caduta del bipolarismo, articolata in una complessità nuova ma anche più chiara e più limpida, stagliata com'é su di un orizzonte finalmente sgombro di muri, di cortine e di blocchi artificiosi. Panoramica che si apre d'obbligo con l'Occidente. Giacché un Occidente, é chiaro, esiste: é l'Occidente americano e sionista. Mi si consenta qui una digressione, che io cercherò di rendere il più possibile breve, prima di tornare alla nostra panoramica; digressione che avverto necessaria per chiarire e giustificare la terminologia che noi qui stiamo usando. Noi diciamo Occidente americano, e anche, meno volentieri, Occidente atlantico - meno volentieri perché avvertiamo tutto l'anacronismo e tutta la forzatura, per esempio, dell'inserimento di una Francia attuale fra le potenze atlantiche - anziché dire, com'é più comune anche sul nostro versante culturale e politico, «Occidente anglosassone»; e lo facciamo per due precise ragioni: la prima ragione per la quale noi preferiamo dire «Occidente americano» é che é oggi oggettivamente, anzi é oggi scientificamente impossibile continuare ad attribuire agli Stati Uniti d'America una connotazione etnica specificamente anglosassone. Anche prescindendo dalle cifre e dalle statistiche - che danno ormai come minoritario il nucleo di cittadini statunitensi di sicura ascendenza non dico anglosassone, ma anche solo genericamente britannica - é sul terreno della cultura, della mentalità e del potere reale che l'America di oggi ha perso ogni rapporto diretto e sostanziale con la sua identità originaria. Quando un grande Paese é costituito di un popolo - vale a dire di una consociazione umana dalle origini comuni, e quindi biologicamente e culturalmente omogenea - quella che noi potremmo definire la forza d'inerzia storica, la forza di perpetuazione nel tempo del suo Mito fondante - di quell'Idea-forza originaria e iniziale sulla quale e intorno alla quale quel popolo prese coscienza di sé e diede vita a quel grande Paese - allora l'inerzia storica di quell'idea fondante, di quel mito originario ha una durata pressoché illimitata; a distanza di millenni, ancora, il carattere di quel popolo, le sue connotazioni più tipiche sono da riportare a quell'Idea fondante, a quel Mito originario. Ma l'America non é un popolo, l'America é una società multirazziale; ed il suo Mito fondante - che si riduce poi al mito fondante delle prime colonie del Nord (quelle per intenderci dei Padri Pellegrini, quelle, per intenderci ancor me glio, che questo mito fondante dovettero imporre con la forza brutale delle armi ad un Sud recalcitrante perché portatore di tutt'altri miti) e che fu indubbiamente calvinista in essenza e genericamente britannico in natura, giacché quei primi Padri Pellegrini non erano certo solo inglesi e quindi anglosassoni, ma erano anche gallesi, scozzesi, irlandesi, e in seguito anche olandesi - ebbene quel Mito fondante é andato comunque perduto, come polverizzato nella caleidoscopica molteplicità delle culture importate da tutte le diverse etnie che compongono oggi la società americana. Diverse etnie fra le quali campeggia - se non vogliamo dire primeggia - la più ricca, la più forte, e la di gran lunga più numerosa fra le comunità ebraiche sparse nel mondo. Si tratta, anche se esistono stime più alte, prudenzialmente, di 6-7 milioni di cittadini statunitensi di fede israelitica e di sicura obbedienza sionista, di sicura lealtà sionista, che, se comparati ai 3 milioni e mezzo scarsi di ebrei che vivono in Israele, fanno degli Stati Uniti d'America la vera, la reale, la effettiva sede nazionale ebraica. È in America, e non in Palestina, che vive la sostanziale maggioranza del popolo ebraico; é in America, e non in Palestina, che sopravvive e si perpetua il mito fondante ebraico; é in America, e non in Palestina, che si accresce nella ricchezza la potenza ebraica; é in America, e non in Palestina, che pensa la mente strategica del Sionismo; ed é in America, infine, e non in Palestina, che si decidono oggi e si decideranno domani, per il bene e per il male, i destini del popolo ebraico. E diciamo popolo ebraico anche se - tenendo conto della fortissima consapevolezza e compattezza politica di questa comunità, e delle posizioni di potere che essa detiene in tutti i settori chiave della vita di quel grande Paese (da quello bancario a quello culturale a quello più specificamente politico) - sarebbe forse più corretto parlare di Stato ebraico nel cuore e ai vertici della società americana. Alla luce di queste considerazioni, appare evidente come sia oggi quantomeno improprio il persistere nel considerare gli Stati Uniti d'America una entità prevalentemente o predominantemente anglosassone. Ma a questa prima ragione, per la quale noi ci rifiutiamo di definire anglosassone l'Occidente - fondata su considerazioni di ordine oggettivo - se ne aggiunge una seconda che potremmo definire soggettiva, legata com'è ad una nostra speranza, ad una nostra irriducibile speranza; e poiché questa speranza riguarda direttamente e da vicino i popoli della Gran Bretagna, mi si consenta di rivolgermi prima ai rappresentanti di lingua inglese qui presenti, nella loro lingua. One of the, main reasons why we refuse to use the expression Angoosaxon West, and prefer to say just («American West», lays upon the fact that it has now been long time since America ceased to be an Anglosaxon or even a British Country - as deeply infiltrated as it is by the culture, the mentality and the interests of the powerful Jew community. But there is a second reason too, which lays upon the fact that we are not prepared to give up hope that the Peoples of Great Britain - who include the true, the authentic, the original Anglosaxon nation - will, sooner or later, find in their ancient pride the will to reject that policy of shameful servilism - I would say, with a maybe in English funny expression, that policy of pathetic doglike servilism - to American interests and commands that has been adopted by British Governments at least since Second World War. Moreover, we are not prepared to give up hope that the Peoples of Great Britain will, sooner or later, find, in their historic memory and roots, the consciousness of belonging to the vast and common family of European nations and breeds. Ho detto che la seconda ragione per la quale noi non amiamo usare l'espressione «Occidente anglosassone» é legata al fatto che noi non siamo disposti a rinunciare alla speranza, per remota che essa sia, che i popoli della Gran Bretagna - che includono l'originale, il vero, l'autentico popolo anglosassone - riescano a trovare prima o poi, nel proprio antico orgoglio, la volontà di ribellarsi a quella politica di vergognoso servilismo, anzi, io ho detto di patetica fedeltà canina agli interessi e alla volontà americani che ha contraddistinto i Governi britannici quantomeno dalla Seconda Guerra Mondiale in su. E più ancora, che non siamo disposti a rinunciare alla speranza, per remota che essa sia, che i popoli della Gran Bretagna trovino, nella loro memoria storica e nelle loro radici, la consapevolezza di appartenere alla grande, alla vasta comune famiglia dei popoli e delle stirpi europei. Chiusa così questa digressione, torniamo alla nostra panoramica della situazione mondiale, riprendendola laddove l'avevamo appena iniziata: dall'Occidente. Un Occidente americano e sionista che vorrebbe oggi egemonizzare il mondo, per governarlo ufficialmente domani - dietro la copertura dell'Onu - ma che é oggi in chiaro declino di potenza: declino economico, declino produttivo, declino tecnologico, declino civile, declino morale e militare. Dall'altra parte un Oriente che arretra oggi i propri confini, dopo la disintegrazione del suo grande Stato cardine, aprendo così le porte alla riscoperta di una identità europea da parte di molti popoli e vasti settori della sua grande componente slava, con l'alto rischio però - al quale le forze nazionali europee dovranno sempre guardare con profonda attenzione - che soprattutto le masse urbane del mondo slavo possano facilmente confondere questa identità europea con modelli genericamente occidentali, e quindi americanizzanti, che con l'Europa non hanno niente a che spartire. Un Giappone, che nel silenzio operoso della crescita economica e tecnologica si va leccando le ferite, ma si va anche, sempre più chiaramente, proponendo come il naturale polo di aggregazione di una futura Grande Asia Orientale; un Islam, vitale certo, e combattivo anche, ma frustrato e bloccato nel suo naturale e legittimo sogno di unità e di rinascita dalla presenza fisica dello Stato coloniale d'Israele nel suo stesso cuore geopolitico; un Sudamerica ridotto a terra di colonizzazione economica delle grandi banche cosmopolite, legate ai vertici americani e sionisti; un'Africa Nera abbandonata alla sua arretratezza, alla sua fame, alla sua miseria, alle sue carestie, alle sue epidemie, ai suoi massacri tribali, abbandonata dagli Europei per volere dei vincitori di Occidente; e infine un'Europa, Terra di Mezzo, per lunghi decenni oggetto di spartizione fra i vincitori del Secondo Conflitto Mondiale, e, fino ad oggi, strumento servile - senza voce e senza dignità - dell'arroganza americana, ma che da oggi può, e deve, farsi una per riscattarsi - anzi, prima ancora, per sopravvivere. Ecco allora riproporsi imperiosa la domanda: chi potrà farla, chi potrà farla oggi, questa unità europea? Non potranno certo farla le forze politico-economiche oggi al potere - legate come sono a filo doppio ai vertici americani e sionisti, integrate come sono a quella rete mondiale di interessi economici e ideologici che potrebbe al massimo vedere l'unificazione europea come una tappa, come un gradino verso l'unificazione mondialista, vale a dire verso un unico governo mondiale che, dietro la maschera dell'Onu, avrebbe come braccio gli Stati Uniti d'America e, come mente, la Trilateral Commission, o il Council on Foreign Relations, o il Federal Reserve System, o la Banca Mondiale. Ed ecco allora comparire qui la seconda grande truffa - dopo quella dell'Occidente - il secondo grande inganno: il mito mondialista, o, meglio ancora, il mito del cosiddetto «nuovo ordine mondiale». Inganno e truffa perché non certo di un ordine si tratterebbe - fondato su di una paritetica rappresentanza dei popoli a ricercare insieme pacifica convivenza e più giusta distribuzione delle risorse nella sicurezza e nella libertà di tutti - ma al contrario di una dispotica tirannia; la tirannia degli unici detentori di forza militare - gli Stati Uniti, appunto, col concorso scodinzolante di Gran Bretagna e di Israele (con le sue 300 testate nucleari), integrati magari da quel che resta di una Unione Sovietica declassata al ruolo di gendarme subalterno - e, al di sopra di questi, della tirannia degli unici o, quantomeno, dei massimi detentori di ricchezze monetarie della Terra: la grande finanza bancaria cosmopolita. Una tirannia dispotica, ma, quel che é peggio - per logica naturale di cose e per esplicita dichiarazione d'intenti - una tirannia massificante e livellatrice. Livellatrice d'identità nazionali - quindi di culture, di memorie storiche, di tradizioni, di costumi - e spietato rullo compressore delle libertà politiche dei popoli, di tutti i popoli. Pochi mesi fa, Mister Bush, agli Ucraini che lo avevano atteso fiduciosi come un arcangelo apportatore di speranza, dichiarò brutalmente in faccia che gli Stati Uniti non avrebbero mai sostenuto il loro sogno di indipendenza, giacché - e Mr. Bush pronunciò queste parole col tono di chi emette una sentenza - «non sempre e non necessariamente - disse Mr. Bush - per un popolo libertà e indipendenza coincidono». Ora, non saremo certamente noi a dolerci del fatto che Mister Bush vada offrendo alla satira politica mondiale - che del resto non sorprendentemente sembra non avere raccolto - strafalcioni di questa portata logica e concettuale; e meno ancora saremo noi a dolerci del fatto che Mr. Bush - e con lui l'America, e con l'America l'intero cartello del messianesimo mondialista - abbiano finalmente gettato la maschera ipocrita degli alti paladini delle libertà dei popoli. Quello per cui dobbiamo invece amaramente dolerci é che, in onta alla brutale evidenza dei fatti, in onta all'arrogante cinismo di questi mercanti delle libertà dei Popoli, esistano ancora masse, classi politiche, e un'intera cultura europea che consapevolmente e masochisticamente persistono nella volontà di subire l'inganno. Ma per chi, come noi, non intende continuare a subire l'inganno, la verità - la verità chiara, la verità limpida, la verità lapalissiana - é esattamente antitetica rispetto a quella enunciata da Mr. Bush: per un popolo, libertà e indipendenza rappresentano valori e realtà indivisibili. Ma vogliamo essere ancora più chiari, e ancora più espliciti. Un popolo non può essere libero - Noi siamo contro il «villaggio globale» noi siamo contro la massificazione planetaria noi siamo contro l'interdipendenza tecnologica noi siamo contro l'integrazione economica mondiale noi siamo contro anche la più pallida ipotesi di un unico, immenso, e cosiddetto libero mercato mondiale perchè dietro tutto questo altro non potrebbe stare che la dipendenza dei popoli - di tutti i popoli - dai grandi investitori planetari: dagli imperatori della grande finanza bancaria cosmopolita veramente libero - che a due condizioni fondamentali: la prima é quella di essere difeso, di essere protetto da uno Stato sovrano, vale appunto a dire indipendente - che lessicalmente e concettualmente significa non dipendente - non dipendente da alcun'altra realtà, da alcun'altra entità politico-giuridica, men che meno internazionale o sovrannazionale; la seconda condizione, perché un popolo possa essere veramente libero, é quella di essere autosufficiente in termini alimentari, in termini tecnologici e in termini economico-monetari, per poter non essere ricattabile, e non dovere quindi essere dipendente. Bisogna allora qui dichiarare, esplicitamente - qui e fuori di qui, su tutte le piazze d'Europa, a voce alta, a voce ferma - che non é possibile pensare di costruire l'Europa avendo in mente, avendo in vista il «villaggio globale», l'unificazione mondialista, l'integrazione economica mondiale, l'interdipendenza tecnologica, un unico immenso e cosiddetto «libero» mercato mondiale. Noi siamo contro il villaggio globale, noi siamo contro la massificazione planetaria, noi siamo contro l'interdipendenza tecnologica, noi siamo contro l'integrazione economica mondiale, noi siamo contro un grande, unico e cosiddetto «libero» mercato mondiale, perché dietro tutto questo altro non potrebbe stare che la dipendenza dei popoli - di tutti i popoli - dai grandi investitori planetari, dagli imperatori della grande finanza bancaria cosmopolita. E un unico, immenso e cosiddetto «libero» mercato mondiale altro non sarebbe che un unico, immenso e definitivo cimitero delle libertà politiche dei popoli. E libertà, libertà assoluta e totale del mercato, significa libertà soltanto per la grande speculazione e per la grande Usura.Bisogna allora che i Popoli europei siano in grado di badare a se stessi. Che siano in grado di produrre da sé quanto loro abbisogna, di contare sul risparmio interno per i necessari investimenti produttivi, e soprattutto siano in grado di difendere - se necessario con le unghie e coi denti - la propria sovranità monetaria. Non esiste altra via. Ma non esiste altra via non solo per i Popoli di un'Europa unificata di domani: non esiste altra via per qualunque grande entità statale contemporanea che, oltre che garantirsi la autosufficienza e quindi l'indipendenza, intenda tentare, intenda sognare di affrontare e sciogliere quel grande, quel tragico, quell'ineludibile nodo della nostra epoca che é rappresentato dalla cronica instabilità economica tipica del sistema attuale. Quella instabilità economica che genera le crisi ricorrenti, la disoccupazione endemica, i grandi fenomeni migratori di braccia a basso prezzo, le grandi sacche di disuguaglianza e di miseria, e quindi la conflittualità sociale, e quindi il disordine civile, e quindi il degrado civile - fenomeni tutti tipici del sistema attuale. L'unica via é quella di un'economia di mercato vasta quanto vasta é l'estensione territoriale di un grande Stato, e libera, certo, ma sempre entro la cornice di un controllo e di una programmazione da parte delle forze politiche e delle forze produttive inserite nello Stato, allo scopo e al fine di garantire e mantenere sempre l'equilibrio - oserei dire l'armonica proporzione - fra emissione monetaria, grandi investimenti, grande produzione, piena occupazione, salari, consumi e risparmio. Ecco la via attraverso la quale si può giungere, oltre che all'autosufficienza e quindi all'indipendenza, alla stabilità economica sulla quale si può costruire quella giustizia sociale, e quindi quella stabilità sociale che é, a sua volta, la premessa imprescindibile di ogni ordinamento politico superiore - di ogni ordinamento politico, vale a dire, che sia capace non soltanto di garantire ai propri popoli il soddisfacimento dei cosiddetti «bisogni primari», ma sia capace anche di guardare a quelle esigenze esistenziali di ordine spirituale che salgono prepotenti dal profondo della natura umana: l'esigenza del giusto, certo, ma anche quella del bello, del nobile, e - perché no, nel solco di una tradizione civile europea? - l'esigenza del poetico nella vita degli individui come in quella dei popoli, senza di che non vi é Civiltà. Ma se questa é la via che può condurre all'autosufficienza economica e quindi all'indipendenza politica, alla stabilità sociale e quindi alla civiltà, noi dobbiamo essere ben consapevoli che questa é anche una via che conduce, necessariamente, fuori dei confini del sistema attuale; giacché é evidente, giacché é chiaro che non serve - e sempre meno servirà in futuro, col progressivo accumularsi ed aggravarsi dei problemi - il tentare di rappezzare o di medicare le cose dall'interno del sistema. Quello che serve é una soluzione radicale, che si rifaccia al primato della politica sull'economia, e soprattutto al primato dell'interesse generale su quelli settoriali e su quelli individuali. Altrettanto chiaro, però, é che nessun tentativo d'imboccare e percorrere una strada come questa potrà essere anche solo ipotizzato nell'ambito di una piccola e isolata comunità nazionale. Solo grandi blocchi - blocchi di uomini e di risorse, quindi blocchi di popoli - possono tentare, possono sognare di affrontare e sciogliere nodi di questa portata. È una ragione in più, una ragione di ordine pratico che, con tutta la forza incoercibile della pratica necessità, spinge oggi i Popoli europei alla integrazione politica organica.Un unico, immenso e cosiddetto libero mercato mondiale altro non sarebbe che un unico, immenso e definitivo cimitero delle libertà politiche dei popoli. E libertà, libertà assoluta e totale del mercato significa libertà solo per la grande speculazione e per la grande Usura. Ma v'é un secondo nodo - anch'esso tragico e anch'esso ineludibile - che non può essere qui dimenticato: é il nodo dell'ambiente, vale a dire il nodo della incombente minaccia di catastrofe ecologica. Il nodo dell'ambiente é tragico ed ineludibile per la semplice ragione ch'esso pone in gioco la sopravvivenza stessa dell'umanità. Tradotto in termini diretti e personali, esso pone in gioco la salute, forse la vita, certamente il destino dei vostri figli e dei vostri nipoti. Sarebbe del tutto inutile che io vi stendessi qui un arido elenco di raccapriccianti e terrificanti cifre sulla progressiva deforestazione e desertificazione della terra, sull'effetto serra, sull'inquinamento delle acque e delle piogge, sull'assottigliamento del manto d'ozono. Quello che qui oggi va invece affermato, e con forza, é che giunti a questo punto bisogna pur fare qualcosa per uscire dal presente sistema. Giacché anche qui é evidente, anche qui é chiaro che non serve - e sempre meno servirà in futuro, col progressivo accumularsi ed aggravarsi dei problemi - il tentare di rattoppare o medicare le cose dall'interno del sistema. Quello che serve, anche qui, é una soluzione radicale che si rifaccia ad un totalmente diverso ordinamento politico, fondato su di una totalmente diversa filosofia della vita e della storia. Il che significa che da oggi - e per un tempo oggi non valutabile né calcolabile - se si vuole salvare l'uomo, al centro dell'intera problematica storica non va più posto l'uomo, ma va posto l'ambiente; non va più posto l'individuo, ma va posta la collettività. Il che significa - tradotto in termini politico-pratici - che, per chi avrà responsabilità di guida nell'Europa di domani - e quindi corresponsabilità di gestione nel futuro ordine del mondo - la sopravvivenza di una foresta e la salute di un oceano dovranno pesare enormemente di più dei capricci consumistici delle masse imborghesite, e che l'interesse generale dovrà pesare smisuratamente di più degli interessi settoriali delle oligarchie e di quelli individuali del singolo. Altrettanto evidente però, anche qui, é che nessun tentativo di affrontare e sciogliere nodi di questa portata potrà essere anche solo ipotizzato nell'ambito di una piccola e isolata comunità nazionale. Solo grandi blocchi, anche qui, di uomini e di risorse - quindi blocchi di popoli - possono sognare di affrontare e risolvere il tragico problema della incombente minaccia di ecocatastrofe. Una ragione ulteriore, di ordine pratico, che spinge oggi verso l'integrazione politica organica i popoli del continente europeo. Ma al centro e al cuore di questa nostra epoca fatale, di questa nostra epoca di svolte decisive per il futuro dell'umanità, un terzo nodo si pone - anch'esso tragico e anch'esso ineludibile - accanto ed in apparente contraddizione coi due precedenti. In apparente contraddizione perché, se questo é - come abbiamo visto - il momento storico dei grandi blocchi, e quindi del superamento delle piccole entità statali e dei piccoli sciovinismi borghesi, questo é altresì, allo stesso tempo, il momento storico dell'esplosione, a livello planetario, del grande fenomeno della coscienza etnica - vale a dire della coscienza della propria identità da parte di tutte le etnie, anche le più piccole, e della loro insopprimibile e disperata volontà di sopravvivenza e di affermazione. Nessuno potrebbe mai più, oggi, pretendere di cancellare o anche soltanto di ignorare realtà nazionali come quella eritrea, come quella croata, come quella palestinese, e presto come quella slovacca, come quella tamil, e, con buona pace di Mr. Bush, come quella ucraina. Come conciliare allora queste due apparentemente antitetiche ed ugualmente insopprimibili esigenze della Storia? La soluzione non può stare che in grandi strutture statali federative di popoli affini, fortemente unitarie al proprio vertice, ma capaci, allo stesso tempo, di garantire e tutelare, anzi, più ancora, di coltivare la specificità di tutte le componenti, anche le più minoritarie. Se l'ordine del mondo di domani vorrà essere un «ordine», vale a dire giusto, pacifico e stabile, esso non potrà poggiare che su di alcune grandi aree regionali omogenee ed autosufficienti. Etnicamente omogenee, economicamente autosufficienti. Già oggi, lo spontaneo delinearsi di tre grandi zone economico-monetarie sostanzialmente separate - quella dello yen, quella del marco e quella del dollaro - sembra prefigurare almeno tre di queste grandi aree regionali del mondo di domani, che attendono di trovare il crisma giuridico e l'armatura politica di uno Stato unitario dai ben definiti confini. Aree omogenee ed autosufficienti, all'interno delle quali i popoli più piccoli possano trovare la garanzia della sopravvivenza della loro identità, della loro cultura, della loro lingua, del loro nome, proprio nella integrazione politica orga nica con popoli più forti - che siano però loro affini per comuni radici di sangue e di civiltà, e che non abbiano quindi necessità né interesse alcuno a snaturarne la specificità. L'Europa sarà certamente una di queste grandi aree regionali del mondo di domani. Un'Europa all'interno della quale l'integrità dei popoli - di tutti i popoli - sia garantita dalla forza dell'insieme. Un'Europa quindi non dei vecchi Stati nazionali, destinati a sparire - e, guardate, destinati comunque a sparire, giacché quelli fra gli Stati europei che, per avventura o per disavventura, scegliessero di negarsi alla integrazione e di persistere nell'isolamento, sarebbero fatalmente condannati, anzi, lo sono fin da oggi, a finire tutti uno per uno, come pesci piccoli, nelle fauci della balena mondialista - un'Europa allora non dei vecchi Stati nazionali, ma un'Europa delle etnie. Un'Europa federativa delle regioni, delle provincie, delle realtà locali. Dovunque esista una specificità - linguistica, storica, culturale, religiosa - lì dovrà esistere un'autonomia, garantita, tutelata, coltivata. Ecco, questa la possibile intelaiatura strutturale di un'Europa unificata di domani. Quanto alle più specifiche connotazioni politiche dei suoi ordinamenti, stringendo all'essenziale noi ci limiteremo qui a dire che dovrà trattarsi di un'Europa in cui, fatta salva la libertà di proprietà privata individuale e familiare, fatte salve le libertà imprenditoriali e commerciali, la grande produzione non sia più abbandonata, come oggi avviene nel sistema attuale, alla prevaricazione e al ricatto dei grandi investitori planetari - degli imperatori della finanza bancaria cosmopolita - ma sia protetta dallo Stato entro i confini dello Stato. E sia ben chiaro a questo punto - soprattutto per i più giovani, ma anche per chi dovesse ancora nutrire qualche dubbio - che questa intera visione, questa somma di, potremmo dire, «proposte», non rappresenta affatto il frutto di astrazioni intellettualistiche o di elucubrazioni utopiche: si tratta, al contrario, di proposte che poggiano sul terreno solidissimo e concreto della esperienza storica. Si tratta cioé di un modello che ha trovato applicazione innumerevoli volte e da parte di innumerevoli Stati dal più diverso reggimento politico, nel corso della storia recente. Si tratta in altre parole, semplicemente, del modello della cosiddetta «economia di guerra». Durante un grande e lungo conflitto sono i Governi a decidere della emissione monetaria, dei grandi investimenti, della pianificazione produttiva, dell'occupazione, dei salari, dei consumi e dei risparmi. Stretti dalla suprema ed estrema necessità di salvare dalla rovina la Nazione - e con la Nazione se stessi - i Governi in tempo di guerra non possono consentirsi di subire la prevaricazione dei grandi potentati finanziari. La stessa grande macchina dell'informazione - inclusa la stampa quotidiana - non é esente dal controllo diretto del potere politico. E insieme all'informazione e all'economia, l'intera vita comunitaria della nazione é organizzata sulla base del principio della mobilitazione popolare. E allora, non si vede perché - se non altro come tentativo estremo di salvare i popoli e l'umanità - di fronte alla bancarotta, morale e civile prima ancora che sociale, politica, economica ed ecologica, del sistema attuale, bancarotta che, si badi bene, va misurata non già sul metro delle pur tragiche problematiche esistenziali e sociali che attanagliano l'uomo nei Paesi del cosiddetto «Nord avanzato», ma che - trattandosi della bancarotta di un sistema che, come quello demo-plutocratico, é egemone sull'intero pianeta - va misurata sul metro della fame, della miseria, del disordine, dell'ingiustizia, del sangue che corrono per l'intero pianeta - non si vede perché, di fronte a questo sconquasso globale, di fronte ai fantasmi minacciosi di un futuro che va sempre più assumendo i contorni di un abisso senza fondo verso il quale questo sistema egemone sul pianeta va trascinando l'intero pianeta, non si vede perché e non si capisce perché quel modello non possa e non debba trovare applicazione anche ai tempi della cosiddetta pace... Che poi vera pace non é mai. O si deve far guerra all'inflazione, o si deve far guerra alla recessione, o si deve far guerra alla disoccupazione - anche perché non siano i disoccupati in rivolta, domani, a far loro guerra allo Stato - o si deve far guerra alla grande criminalità organizzata, o al narcotraffico, o al flagello della droga, o alle nuove pesti, o alla nuova barbarie dei festival, delle discoteche e delle grandi cinture suburbane, o al degrado del costume, o alla insicurezza di tutti, o alla corruzione pubblica e privata oppure, più semplicemente, alle umane debolezze di governanti e governati: anche la pace, per un popolo che voglia vivere nella civiltà, che voglia ascendere nella civiltà, é conquista quotidiana e quindi battaglia quotidiana. Ma uno Stato così fatto, uno Stato capace di tutto questo, vale a dire capace di imporre il primato del politico sull'economico e, più ancora, di imporre il primato dell'interesse generale su quelli settoriali delle oligarchie finanziarie e su quelli individuali del singolo, é uno Stato che deve possedere, in alta misura, autorevolezza e carisma. Autorevolezza e carisma che possono essere posseduti, in questa misura, soltanto da uno Stato che affondi le proprie radici non nella realtà... Uno Stato, quello dell'Europa di domani, che non potrà permettersi di lasciare le grandi banche e la grande macchina della cosiddetta informazione nelle mani dei cosiddetti privati. Che poi veri «privati» non sono mai - nel senso del comune privato cittadino rispettoso della legge e dell'interesse comune» - ma sempre grandi potentati finanziari quasi sempre anonimi e quindi senza volto sempre cosmopoliti in essenza e in natura i quali sempre, per logica e naturale necessità di cose, tendono a gestire i grandi giochi finanziari e l'intero apparato dei media nel proprio supremo interesse. Vale a dire nell'interesse del proprio supremo e assoluto potere. L'Europa non potrà essere edificata che dal basso e dalla periferia, e da una mentalità completamente nuova rispetto a quella che ha finora impregnato la vita e la cultura europee. tà innaturale e artificiosa dei partiti, nella realtà fluttuante e sfuggente dei partiti, ma nella realtà solida e ferma, elementare e naturale delle etnie e delle famiglie. Uno Stato nel quale il cittadino possa identificarsi. Nel quale un padre di famiglia possa identificare il destino dei propri figli. Nel quale tutti possano sentirsi al riparo dalla prepotenza, dall'arroganza, dall'invadenza nel proprio privato quotidiano del Grande Potere Economico. Uno Stato quindi, quello dell'Europa di domani, che non potrà permettersi di lasciare le grandi banche e la grande macchina della cosiddetta informazione nelle mani dei cosiddetti privati. Che poi veri «privati» non sono mai - nel senso del comune singolo cittadino rispettoso della legge e dell'interesse comune - ma sempre grandi potentati finanziari, quasi sempre anonimi e quindi senza volto, sempre cosmopoliti in essenza e in natura, i quali sempre, per logica e naturale necessità di cose, tendono a controllare e a gestire i grandi giochi finanziari e l'intero apparato dei media nel proprio supremo interesse: vale a dire nell'interesse del proprio supremo e assoluto Potere. Ora, dev'essere ben chiaro che é contro questo Potere che va costruita l'Europa. Contro questo Potere, e quindi contro la sua ideologia, contro la sua cultura, e contro il suo sterminato esercito di portaborse, di scribi, di reggicoda e di lacché. Certo, sarà una battaglia che richiederà una immensa mobilitazione di forze, e tempi incalcolabilmente lunghi, e che non potrà muovere che da aree sociali, territoriali e culturali che siano totalmente estranee alle strutture e alla logica del potere attuale. In altre parole, l'Europa non potrà essere edificata che dal basso e dalla periferia, e da una mentalità completamente nuova rispetto a quella che ha finora impregnato la vita e la cultura europee. Chi può iniziare e condurre una battaglia di questa portata, un'impresa di questa epica portata, sono soltanto i giovani e, soprattutto, i giovanissimi. E non soltanto perché i giovani hanno, naturalmente, più vigore e più entusiasmo, e perché hanno, naturalmente, più tempo davanti a sé, ma soprattutto perché i giovani sono, naturalmente e certamente, estranei alla vecchia mentalità. Che é poi la mentalità del primo dopoguerra, la mentalità della sconfitta: quella del modello americano ad ogni costo, di Yalta e quindi del bipolarismo, della rassegnata sudditanza alle superpotenze. Mentalità integrata poi da quella del'68. Vale a dire la mentalità del permissivismo totale, del lassismo morale, dell'edonismo rampante, dei diritti ipertrofizzati, della denatalità, dell'aborto, del femminismo, dell'individualismo esasperato: in una parola, dell'egoismo assolutizzato ed istituzionalizzato. Ecco, di questa mentalità é figlia la generazione che occupa oggi l'intera gamma delle posizioni di potere - di vertice, intermedie e di periferia - in quest'Europa nata nel 1945. Ma l'Europa che ci sta oggi crescendo sotto i piedi, l'Europa appena rinata alla Storia, l'Europa della grande fiammata rivoluzionaria dei popoli dell'Est che ha cambiato la faccia del Continente e lo ha investito di una mentalità nuova e sconosciuta con la violenza di un uragano, questa Europa non é figlia del '45: quest'Europa é figlia dell'89 e del '91. E a proposito di questa mentalità nuova e sconosciuta, sarà bene che nessuno si illuda nelle soffici e ovattate stanze del Potere: giacché le masse che nell' '89 e nel '91 empirono le piazze, abbatterono i muri e le statue e rimisero in discussione i confini, non erano spinte - come qualcuno può credere in buona fede e come il Potere attuale ha comunque interesse a farci credere - non erano spinte soltanto o soprattutto da un'ansia di libertà individuale - che pure c'era - o da un sogno di benessere materiale - che anche c'era - ma da un istinto più profondo e più vero. Un istinto forse inconsapevole, come tutti gli istinti, ma non per questo meno potente e meno insopprimibile: quello dell'appartenenza ad una comunità di sangue, di storia e di destino - in una parola, dalla coscienza etnica. Con questa coscienza etnica dovrà fare i conti la storia dei prossimi decenni. Decenni che appartengono, per intero e per diritto naturale, alla gioventù europea di oggi. Gioventù che deve però iniziare subito la propria battaglia. E che deve iniziarla negando ogni consenso alla politica di servilismo filoamericano e filomondialista degli attuali vertici politici, rifiutando ogni stima a questi vertici, e anzi irridendo le loro piccole beghe provinciali. Tutto del resto in questi vertici é provinciale, é sciatto, é piccolo, é meschino. Solo nel cinismo sanno esprimere un minimo di statura. Un cinismo che sa certo giungere anche alla crudeltà, come ha dimostrato la distaccata indifferenza dei governi europei di fronte al martirio di popoli a noi vicini e vicinissimi: quello palestinese, quello libanese, quelli del Golfo, quelli caucasici, quelli baltici, e oggi quello croato. E come, recentemente ed emblematicamente, ha dimostrato, in Italia, il trattamento inflitto ai profughi albanesi. Un trattamento intriso di brutalità, di perfidia e di doppiezza, e che - ecco la misura del cinismo! - é stato imposto agli Albanesi, che sono fratelli europei, e che non si sarebbe mai avuto il coraggio di imporre loro se gli Albanesi, invece che bianchi, fossero stati di colore. Ma la crudeltà non é forza. E non é sul cinismo che si può costruire una Patria. Come non é col cinismo - e neppure con l'incremento, come oggi si dice, «dei mezzi e degli addetti» - che si possono vincere le battaglie contro la grande criminalità organizzata, contro il narcotraffico, contro il flagello della droga, contro le nuove pesti, contro la minaccia di ecocatastrofe. Sono tutte battaglie che esigono una linea «dura». Ma non si può tenere una linea dura con uomini molli - molli per vocazione ideologica e per formazione culturale. Ecco dunque quello che serve: una Nuova Cultura. Una cultura che ponga al vertice dei valori la forza di carattere, e il coraggio - morale e fisico - l'onestà, la pulizia morale, la durezza morale - verso se stessi prima ancora che verso gli altri - il senso del dovere, e la capacità di sacrificio nell'interesse generale. Una cultura che valorizzi la dignità virile, per consegnare un ruolo agli uomini e ai padri. Che nella donna coltivi la femminilità, per offrire ai figli una figura materna vera, fatta di grazia e di dolcezza. Che insegni il rispetto dell'età - anzi, la venerazione dell'età - perché la saggezza sia un pilastro della civiltà di domani. Che esalti l'audacia e la generosità nei giovani, perché la giovinezza sia la naturale riserva, il naturale serbatoio di vitalità dell'intero corpo sociale. E che tuteli, che difenda, che difenda con le unghie e coi denti l'innocenza infantile, per conferire un minimo di poesia alla vita - senza di che non v'é civiltà. Una cultura quindi che protegga la famiglia, che combatta la denatalità e l'aborto, che sostenga la religione, che nobiliti il costume, che elevi il senso estetico, che imponga la concordia e il rispetto fra concittadini. Che educhi al rigore, all'autodisciplina, all'orgoglio della virtù - e quindi al disprezzo per il vizioso, per il corruttore, per il degenere, per il parassita, per il vigliacco, per il disertore: ecco la vostra battaglia! Che era anche la battaglia di Reiner Sonntag. Reiner Sonntag, il giovane eroe tedesco - padre di quattro figli - assassinato da due prosseneti, da due protettori di prostitute, da due squallidi e turpi portabandiera della vecchia mentalità di quest'Europa corrotta e decadente che voi, o i vostri figli, spazzerete via. Noi abbiamo sofferto, sofferto fisicamente, alla notizia dell'assassinio di Reiner Sonntag. Ma ancor più abbiamo sofferto nel non vedere, alla cerimonia di Dresda in sua memoria, le bandiere della gioventù di tutta Europa a rendergli l'onore che meritava, e a testimoniare, insieme alla solidarietà, la comune volontà di lotta contro l'attuale degrado, l'attuale bassezza del costume europeo. Sono assenze che non si ripeteranno mai più. Hemos sufrido, sufrido fisicamente, con la noticia del asesinato de Reiner Sonntag. Pero hemos sufrido mucho mas al no ver, en la ceremonia de Dresden a su memoria, las banderas de la joventud de toda Europa, para rendirle el honor che merecia y para dar testimonio solidartyo de la comun voluntad de lucha contra la actual decadencia de las costumbres europeas. Tale ausencias no debieren repetirse mas.We were grief-stricken by the news of the assassination of young Reiner Sonntag. But our regret was even deeper, when we saw no flag of young European fellows being present at the Dresden memorial, being present to pay him the honour he deserved, and to testify, along with their solidarity, the common will of fighting against the present decay of European morality. Such absences shall never repeat. Io provo oggi una grande amarezza - insieme, lo confesso, ad una smisurata invidia per voi - nel riconoscere tutta la inadeguatezza fisica dei miei sessant'anni. Noi possiamo lasciarvi una testimonianza di verità. Noi possiamo lasciarvi un patrimonio di conoscenza, e l'esempio di una incorruttibile - e incorrotta - coerenza. Noi possiamo lasciarvi un incitamento e un auspicio. Ma la battaglia é vostra. Siete voi, gioventù d'Europa, gioventù di tutta Europa, che dovete oggi alzare il grido di battaglia, serrare i ranghi, scegliervi dei capi, e inondare le piazze e i vicoli di questa Terra antica dal nuovo destino. Inondarla delle vostre bandiere. Che non saranno certo quelle brutte bandiere da circo o da supermercato asperse di stelline in cerchio: non vi sono stelle nella tradizione europea! Le stelle appartengono alla tradizione americana, appartengono alla tradizione ebraica, possono appartenere, con la mezzaluna, alla tradizione islamica. Ma sulle nostre insegne, per millenni, da Roma al Medioevo a Napoleone agli ultimi spalti della Fortezza Europa, hanno campeggiato le aquile e le croci. Sia per ora vostro stendardo questo spezzone di bandiera: le tre lingue delle E di Europa, tre lingue di stoffa rossa che attendono un campo e un emblema. Let this segment of a fag be your banner for the present. the three strips of the E of Europe, three tongues of red stuff awaiting for a proper ground and for their own coat of arms. Sea por ahora vuestro estandarte esto esbozo de bandera: las tres lenguas de la E de Europa, tres lenguas de tela roja que esperan su propio campo y su propio emblema. Un campo ed un emblema che verranno da voi, o che verranno dai vostri figli. Come da voi verranno i portabandiera, i trascinatori, i capi, i cantori, i poeti, i vati e, domani, gli eroi necessari. Ora, da questo primo incontro tornate alle vostre terre, alle vostre piazze, alle vostre case. Studiate, leggete, pensate, discutete, parlate. Parlate della Patria europea. Predicate la Patria europea. Vivete la Patria europea, nei vincoli di fratellanza e di cameratismo che andrete a stringere per tutte le distanze di questo Continente. Entro pochi anni voi sarete tanti. E allora sarà difficile fermarvi. Soprattutto se ricorderete sempre quello che siete: gli eredi di una grande, di una millenaria, di una inimitabile civiltà. E se sempre resterete legati e uniti come alberi di una stessa foresta come onde di uno stesso fiume come gocce di uno stesso sangue. E abbandonate il costume borghese. Abbandonate il castrante rituale dei festival, delle discoteche, delle vacanze borghesi di massa. Che il tempo libero sia per voi, sempre, tempo di milizia. Tempo per incontrarvi, per conoscervi, per temprare i legami di affetto e di ideale. E andate a portare il vostro danaro dove i fratelli sono più poveri. Imparate ad amarli, imparatene le lingue e, insieme, pensate canzoni da gettare al vento e bandiere da levare nel sole. E cercate donne che vi dian tanti figli. Ecco la vostra battaglia! E incontratevi ancora. I vostri prossimi incontri li terrete in Spagna, in Francia, in Germania, o in Croazia, dovunque serva la vostra solidarietà militante a sostegno di una delle cento, delle mille trincee della Causa Nazionalpopola re europea. Entro pochi anni, voi sarete tanti. E allora sarà difficile fermarvi. Soprattutto se ricorderete sempre quello che siete: i figli, gli eredi di una grande, di una millenaria, di una inimitabile Civiltà. E se saprete sempre restare legati e uniti come lo sono gli alberi di una stessa foresta, le onde di uno stesso fiume, le gocce di uno stesso sangue. E se sempre, dentro di voi, saprete coltivare lo spirito e la memoria dei Padri. Viva l'Europa!

 
   
 

Vivere nella tradizione per non morire di utopia

Di Sergio Gozzoli -  Numero 9 del 01/01/1982
Regole e norme a fondamento della vita consociata - I valori come fattori di storia - Omogeneità sociobiologica e sistemi di Valori comuni - La crisi dei sistemi di Valori tradizionali - Discussione sulla validità dei Valori: l'approccio filosofico, la via religiosa, la metodologia scientifica - Arte e rito quali caratterizzazioni-tipizzanti della specie umana - Oggettività del fondamento dei Valori e dei Miti e della immutabilità della umana natura - Il ponte fra Conoscenza scientifica e Tradizione.
La vita, comunque la si concepisca - un dramma, una commedia, un gioco - esige e impone delle regole.
È questa una condizione che nessuno può sfuggire: infatti, nel momento stesso in cui un uomo tenta di ribellarsi a queste regole, violandole o maledicendole, col suo stesso atto ne riconosce e ne riafferma la realtà.
In termini pratici, senza regole e norme non avrebbe neppur preso inizio una qualsiasi forma di vita comunitaria, dal momento che sarebbe stata impossibile la sopravvivenza stessa di ogni gruppo umano: senza norme non v'è ordine, e senza un ordine non v'è società.
Ma, parlando di regole e norme, non intendiamo qui riferirci tanto a delle leggi - orali o scritte - in quanto piuttosto a quei fondamentali principi etici che ne fanno da substrato, ed ai quali tutti gli uomini, consapevolmente o meno, àncorano le proprie scelte ed i propri comportamenti nell'àmbito di una qualsiasi realtà consociata: intendiamo cioè riferirci ai Valori.
Fu intorno a dei valori che si coagularono e si articolarono le prime forme embrionali di vita sociale umana; fu su dei valori che crebbero le civiltà, che si fondarono le Religioni, che si ressero gli Stati; e fu il loro lento consumarsi, o il loro brusco spengersi, che condusse a decadenza, a rovina o ad estinzione popoli e nazioni.
Mentre fu lo scontro fra contrapposti sistemi di valori che determinò nella storia dei gruppi umani le svolte più decisive, segnando i conflitti più drammatici, più sanguinosi e più destruenti.
Se infatti vi fu anche, e forse più spesso, scontro di interessi - per la terra e le sue risorse, per i corsi d'acqua, e i mari, e i mercati, e le vie di traffico - i conflitti che ne derivarono furono per lo più limitati a rettifiche di frontiera, o alla conquista di una roccaforte, di un porto, di una provincia, o alla dura ma non distruttiva dominazione di un gruppo da parte di un altro; talvolta anche alla schiavizzazione e allo sfruttamento, ma raramente al genocidio.
Al contrario, cancellazione, annientamento o assimilazione di interi popoli furono assai spesso la fatale conclusione dello scontro fra due realtà storiche armate di opposti principi di civiltà.
Ma v'è un'altra verità che emerge dall'osservazione storica, e che qui merita considerazione.
Quand'anche furono trascinati o spinti a scontri di interesse, gli uomini sempre sentirono il bisogno di ammantare le proprie insegne di giustificazioni e principi morali: cioè di valori. Segno che i valori, nella psicologia degli uomini, vengono prima - e occupano un posto più alto - rispetto agli interessi.
Finché i singoli gruppi umani conservarono nette e ben definite le loro identità ed omogeneità genetiche, gli scontri fra diversi sistemi di valori avvenivano in genere nello spazio fra un gruppo e l'altro.
Ma proprio come risultato dei primi scontri fra gruppi di stirpe diversa, alla sovrapposizione di un gruppo di dominatori su di un gruppo di dominati succedevano la fusione e l'incrocio; e poi l'importazione di masse di schiavi, le lente infiltrazioni di minoranze più povere all'interno di società ricche, le grandi migrazioni e colonizzazioni compirono l'opera.
E con la progressiva perdita della omogeneità genetica, anche la naturale concordanza nella espressione e nell'accettazione di valori comuni da parte di interi popoli cominciò a venir meno.
Da allora, e sempre di più, la fronte di frizione e scontro fra diversi ed opposti Valori cominciò a passare anche all'interno delle singole società, con una sempre più profonda e ramificata linea di frattura a spezzare e a frammentare la compagine del gruppo. Ancora oggi, la relativa stabilità - in termini di costumi fondati su comuni sistemi di valori - di società geneticamente omogenee come quelle giapponese e cinese, o quelle scandinave, contrasta vivamente con la instabilità sociale e culturale di società multirazziali come quella indiana, sudafricana o nordamericana - per non citarne che alcune; mentre il pauroso potenziale esplosivo connesso alla molteplicità delle etnìe e delle culture dell'Unione Sovietica può oggi venir contenuto soltanto dalla enorme pressione di una struttura piramidale al cui vertice sta la etnìa dominante di stirpe russa europea.
Tutto ciò è facilmente spiegabile, alla luce della considerazione che omogeneità genetica significa affinità biologica, e quindi affinità di inclinazioni, attitudini, esigenze e tendenze comportamentali.
Ma accanto alla perdita o alla diluizione dell'omogeneità genetica, che è stato spesso processo lentissimo e quindi capace talvolta di trovare strada facendo un suo proprio equilibrio, altri fattori storici, connessi alla rivoluzione industriale e alla cultura che ne derivò, hanno più recentemente contribuito a precipitare l'odierna crisi dei diversi sistemi di valori sui quali si erano rette per millenni le svariate forme di convivenza umana in tanta parte del mondo.
Lo sconvolgimento è stato immane e pauroso in tutti i continenti: ha condannato al genocidio fisico numerose popolazioni, alcune delle quali ormai avviate ad estinzione, come Aborigeni australiani, Ainu, Pigmei, Boscimani e Pellerossa, ed alcune altre già da tempo estinte, come Tasmaniani, Dayak, Onas, Alacaluf, ed Esquimesi dell'entroterra nordamericano; ne ha condannate infinite altre al genocidio culturale, con conseguenze che per molti popoli, come quelli dell'Africa nera, giungeranno al loro tragico epilogo soltanto in tempi più lunghi; e altre ancora ne ha profondamente avvelenate, come quelle delle società cosiddette avanzate, sostituendo a tutti i precedenti sistemi di valori naturali quello del tutto innaturale e fittizio della felicità garantita dal benessere.
Tale malattia non è nuova, nelle società umane; e, in particolare, non è nuova nella nostra storia: la Roma della decadenza ce ne offre l'esempio più calzante. Già nel primo secolo dopo Cristo - quello del cui alto tenore di vita e dei cui bassi costumi possediamo la più esauriente testimonianza nei resti di Pompei ed Ercolano, giuntici intatti sotto la loro coltre di lava - Giovenale lanciava i suoi amari strali all'immorale città, esprimendo l'intenzione di abbandonarla in una corrispondenza con un amico, il quale gli faceva eco affermando, per parte sua, che egli lasciava Roma alla corruzione dei suoi ingegneri sanitari e dei suoi architetti municipali; e già da tempo dovevano essere in crisi i valori su cui si fondava la famiglia, se, all'inizio del secolo, Augusto aveva dovuto promulgare una legge - la lex Papia Poppaea - intesa ad incentivare il matrimonio, sempre più disertato in una società che al vertice della sua scala di valori poneva il benessere ed i piaceri.
Ma se l'attuale crisi di valori è comune a tutto il mondo occidentale e a gran parte del terzo mondo, la società americana non ne soffre la tragica frattura con un retroterra tradizionale che essa non possiede, mentre per le società europee il distacco delle proprie radici - profonde migliaia di anni - è causa di assai più grave malessere.
Un malessere dal quale l'Europa rischia di perire, se non farà presto a recuperare i Valori della propria tradizione.
Ma come recuperarli, se ne viene posta in discussione la validità stessa, se ne vengono negati come «irrazionali» i fondamenti, se essi sono oggi irrisi come «superati dai tempi», come retaggio pressochè barbarico di un mondo morto e sepolto, il mondo poeticamente infantile dei miti?
Recuperare i valori significa allora, innanzitutto, accertarne e dimostrarne la validità, il fondamento oggettivo, e la perenne attualità.
Qualcuno potrebbe ancora pensare che la via sia quella della speculazione pura: è un'illusione non nuova, deleterio retaggio della filosofia, contro la quale già ponemmo in guardia tutti coloro che, come uomini liberi in un mondo di esseri condizionati, cercano la verità quale strumento della propria autonomia di giudizio e garanzia della propria dignità.
La via è invece quella della scienza, e della sua metodologia fondata sul postulato di oggettività. Della scienza, si badi bene, e non di uno scientismo che altro non è se non una nuova metafisica.
Della scienza vera, quella che fa del dubbio il perno della sua metodologia, in quanto nega ogni verità a priori, e considera ogni affermazione una mera ipotesi finch'essa non sia verificata. Certo, la scelta della via scientifica per la riaffermazione del fondamento e della validità dei valori, dei miti e della Tradizione può sembrare paradossale e contraddittoria.
Non fu infatti proprio l'apparire della scienza moderna che pose in crisi - in termini intellettuali - i valori della Tradizione?
Non è già l'affermazione dei valori - di per sé - un'affermazione contro la scienza, dal momento che essa consiste in un'affermazione dei princìpi contro i fatti, del credere contro il dimostrare, del mito contro la logica?
E non è infine la scienza, fondata come essa è sul dubbio metodologico, una seminatrice - quanto la filosofia - di quella affascinante e pericolosa arte del dubitare che portò a morte le antiche certezze?
Il paradosso e la contraddizione sono solo apparenti. Risponderemo subito all'ultima di queste obiezioni, mentre risponderemo alle altre al momento delle conclusioni.
Vi è, fra scienza e filosofia, una differenza capitale: nella logica.della scienza, il dubbio è metodo per giungere a delle certezze; nella logica delle filosofie il dubbio è invece l'ineluttabile ancorché indesiderata conclusione.
Se non fosse così, esisterebbero quantomeno un sistema o una logica filosofici capaci di mettere d'accordo tutti gli uomini, così come tutti gli uomini che si applichino a questi problemi con un minimo di tempo e di cognizione si trovano d'accordo sul fatto che la terra ruota attorno al sole, che gravitazione e forze elettromagnetiche sono le principali espressioni dell'energia cosmica (1), e che l'ereditarietà del vivente giace nei singoli geni còntenuti nella molecola del DNA. E questo per non fare che pochi esempi. In verità, anche il più intelligente fra gli uomini, una volta incamminatosi lungo le vie tentatrici della speculazione filosofica, preso nell'inganno della larga e aperta strada della logica iniziale, si ritrova ben presto smarrito nei mean dri dell'iperlogica - che è sempre pseudologica - dove chiunque può trovare, a vantaggio soltanto della propria vanità, un angolo inesplorato dove attestarsi in un suo reame nel quale dettare le proprie leggi, fatte di affascinanti vuote parole, di razionalità solo apparente, di geniali insensatezze: non v'è altra scappatoia, una volta presi dai viluppi e dagli intrichi del dubbio cui è condannata l'umana ragione quando pretenda di giungere alla verità assoluta.
Ma torniamo, attraverso un esempio, al problema del fondamento dei valori come princìpi etici. Vediamo un po': chi potrebbe mai darmi la giustificazione razionale, in termini esaustivi, del fatto che per la maggior parte degli uomini uccidere i propri genitori o i propri figli è un male, o comunque un male maggiore che non uccidere un estraneo non consanguineo?
Intendo dire che mi attendo una giustificazione che riconduca - attraverso una serie di passaggi rigorosamente razionali in concatenazione logica - fino ad un principio etico assoluto che sia accettabile in chiave puramente razionale.
Inutile provarcisi: la conclusione finale sarà sempre quella che una giustificazione razionale pura è impossibile.
Diversa naturalmente la posizione di chi - collocatosi in un àmbito religioso - non abbia bisogno alcuno di andare in cerca della verità. dal momento che già ne possiede una rivelata: egli certo avrà la risposta. Ma tale risposta sarebbe valida - ossia accettabile ed accettata - se noi tutti vivessimo in un mondo in cui miti e valori non sono in crisi: dal momento che viviamo invece nella drammatica, disperata necessità di recuperarli perché essi sono smarriti, la via non può essere questa.
Torniamo perciò ad un approccio puramente razionale del nostro problema: allora l'unica conclusione, l'unica giustificazione raggiungibile attraverso un procedimento logico, non è una giustificazione logica, ma una giustificazione di fatto, è così perché è così, perché così sentono i più degli uomini.
Ma se invece che la presunzione soggettiva della umana ragione, convinta di contenere la verità dentro di sé, noi interroghiamo la logica oggettiva della scienza - che non pretende di raggiungere alcuna verità assoluta, ma che si limita a ricercare le certezze verificabili nell'àmbito del conoscibile - allora la giustificazione è ovvia, limpida e semplice: uccidere un consanguineo è un male per la maggior parte degli uomini, da qualche decina di millenni a questa parte, perché tutti i gruppi di predecessori nei quali la maggioranza - o la minoranza dominante - non «sentiva» così, furono incapaci di sopravvivere, sopraffatti da quegli altri gruppi che erano invece avvantaggiati da un maggiore solidarismo interno, sostanzialmente fatto di una naturale affettività verso i consanguinei.
Quei gruppi infatti nei quali era naturale, e quindi abituale, uccidere o lasciar morire i vecchi e i piccoli quando essi arrivavano a costituire un peso, potevano forse cogliere un momentaneo vantaggio nel garantirsi una maggiore abbondanza di risorse pro-capite o una superiore mobilità collettiva, ma alla lunga si condannavano a rinunciare a due fattori di sopravvivenza di incalcolabile portata: la memoria dei vecchi, che significava esperienza e primordiale sapienza, indispensabili alla genesi d'ogni cultura: e l'alto numero dei figli, che significava incremento demografico, indispensabile alla crescita biologica ed all'affermazione del gruppo.
Poiché, in breve tempo, tutti o quasi i gruppi in cui prevalevano o dominavano individui privi di una carica di affettività geneticamente orientata verso i consanguinei andarono all'estinzione, accadde allora che sopravvissero alla fine solo i gruppi favoriti dal possesso di questa inclinazione genetica, che si trasmise così alla stragrande maggioranza degli uomini.
Questo vale anche per tutti gli altri caratteri, fisici e comportamentali, che compongono ciò che oggi chiamiamo «umana natura», i quali - una volta selezionati dal proprio valore di sopravvivenza - si incisero immutabili nel programma genetico del gruppo, indelebilmente fissati nella struttura organica delle infinite molecole di DNA che costituiscono il patrimonio di geni di quel gruppo.
Ecco la giustificazione logica oggettiva del fondamento di tutti i princìpi etici che compongono i diversi sistemi di valori che i vari gruppi umani espressero nella loro storia: è Bene tutto ciò che concorre alla sopravvivenza e all'affermazione del gruppo, è Male tutto ciò che vi contrasta; è Bene tutto ciò che appare naturalmente nobile, bello e superiore, al senso estetico ed affettivo delle componenti più elevate e mature di quel gruppo; è Male tutto ciò che appare loro naturalmente volgare, spregevole, ed inferiore.
Quel che distingue l'uomo attuale - cioè l'unico essere al quale il termine Uomo sia applicabile - da tutti i suoi predecessori e ancestori - cioè omìnidi e proto-omìnidi - sono le attività spirituali: innanzi tutto la sepoltura ed il culto dei propri morti; poi le diverse forme di attività artistica, particolarmente quelle figurative; ed infine le pratiche rituali, sia individuali sia e soprattutto collettive, come manifestazione cosciente, intenzionale ed organica - cioè organizzata e finalizzata - di una fondamentale esigenza di rapporto col Trascendente.
Infatti, contrariamente alla diffusa credenza, originariamente alimentata dalle insufficienti conoscenze paleontologiche iniziali e dai goffi tentativi di «ricostruzione» operati da un'antropologia ai primissimi passi, le differenze fisiche non erano poi così rimarchevoli.
Molti gruppi di questi omìnidi - cioè gli Erectus, vissuti nei 600.000 anni precedenti l'apparizione dell'Uomo - avevano una capacità cranica e quindi un volume cerebrale pari o vicini ai nostri; e quanto a fattezze e struttura scheletrica, alcuni gruppi umani attuali presentano caratteri addirittura più, arcaici e «regressivi» di parecchi gruppi di questi nostri progenitori: in altre parole vi erano, fra i diversi omìnidi, individui o gruppi che erano più belli di molti individui o gruppi di uomini attuali (2).
Neppure le différenze culturali, in fondo, erano fondamentali e discriminative: anche i nostri progenitori si tramandavano esperienze e conoscenze, anch'essi parlavano, si fabbricavano strumenti con intelligente perizia, cacciavano con elevata abilità e coordinazione collettiva, combattevano in gruppo e per il gruppo.
Quanto al rituale, essi potevano certo praticarne alcune forme, dal momento che lo fanno anche molti animali: sono infatti veri e propri «riti», per esempio, le danze di corteggiamento di alcune specie di uccelli; mentre gorilla e scimpanzè hanno loro «rituali collettivi», sotto forma di finte aggressioni con urla e bastoni nei confronti di un nemico immaginario, o di danze che coinvolgono l'intero gruppo o una sola sua parte - per esempio, i soli maschi adulti - che essi ripetono più e più volte nella stessa identica sequenza di gesti, di modi e di tempi, e quindi secondo una ben definita «formula».
Tuttavia queste pratiche hanno una semplice funzione esorcizzante immediata nei confronti di stati di eccitazione o di angoscia collettive, senza alcuna consapevole ed intenzionale finalità ordinata ad un rapporto con entità trascendenti: esse non hanno cioè alcuna organicità spirituale. Così doveva essere per gli omìnidi, giacché essi - fra le decine di migliaia di reperti fossili giunti fino a noi - non ci lasciarono una sola traccia certa di attività a contenuto rituale: in particolare, nessuna traccia di sepolture o riti funerari.
Quanto all'arte, a prescindere da un minimo di intenzionalità estetica nella fattura di alcuni strumenti litici, essa era loro certamente sconosciuta: non vi è, neppure qui, alcuna traccia o reperto o ritrovamento di graffiti, pitture o manufatti figurativi. Abbiamo specificamente parlato di arti figurative, poiché diverso è il discorso per quanto concerne una qualche sorta di attività definibile come «musicale»: se danzavano, dovevano quantomeno possedere un senso del ritmo, anche se questo non significa certamente ancora «musica» nella sua piena accezione artistica.
Dall'arte e dal rito, al contrario, sono contrassegnate fin dall'inizio - ossia fin dalle primissime tracce della sua stessa comparsa - tutte le forme di vita dell'uomo attuale.
Reperti scheletrici umani, graffiti, e tracce di un organico rituale - funerario, propiziatorio o celebrativo - sono infatti pressoché contemporanei: assolutamente nulla fino a circa 35.000 anni fa, un'impressionante mole di testimonianze da 35.000 anni in qua.
E non si è data da allora forma di vita consociata, e soprattutto di ascesa civile di un consorzio umano, senza manifestazioni di queste due connotazioni tipiche - ossia unicamente umane - della nostra peculiare natura: l'arte ed il rito.
Ma se la produzione artistica fu sempre opera individuale di alcuni «superdotati», l'esigenza del rituale si espresse invece soprattutto in manifestazioni collettive e di massa, come necessaria proiezione dell'anelito al Trascendente dell'intero gruppo.
Necessaria, perché rispondente ad attitudini psichiche geneticamente determinate: ossia strutturalmente incise nell'immutabilità del programma genetico.
È dunque oggi la scienza - con le acquisizioni ultime di biologia molecolare e genetica, sociobiologia, etologia, paleontologia, neuro-fisiologia e psicologia sperimentale - che conferma e coonesta la validità oggettiva della morale naturale, e quindi dei Valori della Tradizione e dei Miti, naturali espressioni in cui presero forma oggettiva e trascendente nelle società e nella storia gli aneliti affettivi, estetici e quindi etici delle componenti più rilevanti e più elevate dei diversi gruppi umani, insieme all'innato, profondo bisogno del rituale che caratterizza l'umana natura.
È qui, nelle radici non razionali, ma spirituali della umana personalità, che sta la giustificazione di ogni imperativo morale naturale. Non nella persuasività razionale di una norma etica stanno allora la sua validità, la sua veracità, la sua fondatezza, la sua pratica applicabilità, ma nella innata rispondenza ch'essa può suscitare nelle attitudini psichiche degli uomini di un certo gruppo, espressione di strutture immutabili perché eredogenetiche.
Non nella frigida, dubbiosa, astratta ragione, ma nel sicuro «istinto» dello spirito.
Non nei «sistemi» dottrinali, non nelle elucubrazioni intellettualistiche, non nelle pressioni culturali, ma nella potenza evocatrice, trascinante ed unificante del mito, che travalica e trascende ogni soggettivismo individualistico per esprimere la spiritualità, la volontà, la vitalità dell'intero gruppo.
Ci si potrebbe però osservare che i grandi Miti, e i Valori, e le Tradizioni, furono sì capaci di sommuovere la Terra, e tracciare solchi nei millenni, e fecondare i popoli dei benèfici fermenti della civiltà, ma solo finché le società umane furono omogenee, piccole, e direttamente governate dall'uomo.
Oggi esistono società mostruose, e composite, e dominate da forze quali la tecnologia, l'economia, la produzione, i consumi, che hanno ormai acquisito una loro oggettiva realtà ed una loro oggettiva dinamica, il cui fatale cieco procedere sfugge ormai alla mano dell'uomo.
Queste forze sono estranee ai popoli come tali: esse sono infatti controllate - e forse solo in parte - da piccoli gruppi sovrannazionali di Manipolatori del tutto avulsi, nella logica necessaria del loro smisurato potere, da quella delle masse di uomini che costituiscono i gruppi tradizionali, le etnìe, le nazioni.
Quelle del passato erano società naturali; queste di oggi, soprattutto nei Paesi «avanzati», sono società in gran parte artificiali. Quale spazio possono trovare i miti e il rituale, in un mondo di computers e di bombe al neutrone? E sia pure. Tutto ciò è sensato. Ma si dà il caso che le componenti «artificiali» delle odierne società siano - proprio in quanto artificiali - del tutto contingenti.
Esse non sono immutabili.
Mentre invece la scienza ci insegna oggi che è immutabile la umana natura. Tutto può essere rimosso, modificato, cancellato, rimodellato nella storia dell'uomo, eccetto l'Uomo.
Se i valori, i princìpi, lo spirito, l'esigenza del rito, sono radicati nell'uomo di oggi come in quello di ieri; se i miti e le tradizioni sono l'espressione naturale - cioè spontanea, autentica ed innata - della realtà di un popolo biologica mente e spiritualmente ancora vitale, quanto a lungo potranno ancora i popoli tollerare di vivere in modo innaturale, e gli individui di galleggiare sradicati sulle instabili fondamenta di società che non son più le loro?
L'osservazione oggettiva della storia degli uomini ci dimostra ad ogni passo che tutti i gruppi, i popoli, le civiltà, hanno espresso il massimo ed il meglio - sopravvivendo alle sfide, affermandosi, elevandosi - quando hanno tenuto come perno centrale i grandi miti religiosi, politici o civili della propria tradizione; e, al contrario, che la mancata ascesa o la decadenza - spirituale, ma anche fisica - di gruppi, popoli e civiltà è stata sempre contrassegnata dall'assenza o dal declino di grandi Idee-forza espresse dal profondo della propria compagine.
La questione che allora si pone e questa: potranno davvero, le mostruose forze estranee all'uomo che governano oggi molte società, coartare la natura dell'uomo fino in fondo? Potranno i popoli, tutti i popoli, tollerare di vivere senza i propri miti e le proprie tradizioni, fino a morirne? O di ridursi, per soppravvivere con un surrogato, a fare un mito dei computers e delle «stanze coi bottoni?»
Le possibilità che il futuro dell'uomo nasconde, sono solo due: o moriremo tutti «manu atomica», o la natura umana dovrà prevalere alla fine.
E i popoli si riscatteranno.
Se l'uomo è ancora quello che è sempre stato - quello che ha fino ad oggi fatto la Storia - se alcuni popoli sono ancora quelli che sono sempre stati - quelli che han cambiato la faccia del mondo, penetrato la terra, solcato ogni mare, conquistato gli spazi, imprigionato l'energia nucleare - alla resa dei conti non saranno i miti a servire i computers, ma viceversa.
Una valutazione oggettiva dei fatti, alla luce di certezze scientifiche si dice dunque che gli uomini - oggi come sempre - non possono vivere senza riti che ne esorcizzino l'angoscia e che ne esaltino le energie, senza sistemi di valori comuni che cementino le singole società, senza Idee-forza che polarizzino e potenzino la riposta forza vitale dei popoli.
Dov'è allora la contraddizione fra la Tradizione e la Scienza?
Il dubitare metodologico della scienza. e le sue esaltanti ma ancora parziali conquiste al suo primo apparire, nutrirono di illusioni e false speranze l'utopico mondo razionalista dell'anti-Tradizione.
Ma la colpa non fu della scienza, che è solo metodologia. strumentale all'uomo nella conquista della conoscenza.
La colpa fu soltanto della cultura occidentale degli ultimi secoli, che erroneamente credette di trovare nella scienza la promessa di un finale avverarsi delle proprie utopie, e di alcune forze storiche - nate da questa cultura - che pensarono di poter fare del fossato fra Scienza e Tradizione uno strumento di eversione dell'ordine naturale delle cose.
Ma il fossato non era incolmabile, e l'apparente divergere, l'apparente vuoto divaricante fra il mondo dei valori e quello dei fatti, fra il credere e il dimostrare, è oggi colmato dal ponte della Conoscenza.
Quanto noi oggi conosciamo, in termini di certezze scientifiche, riafferma l'oggettività del fondamento dei miti, e la loro attualità perenne.
La scienza dà ragione alla Tradizione, non all'Utopia razionalista.
E una logica oggettiva addita all'Europa il ritorno alle proprie radici, come percorso obbligato di sopravvivenza.

(1) Le altre due indipendenti forme energetiche universali sono l'energia nucleare «debole» e l'energia nucleare «forte».
(2) Usando naturalmente, come metro di misura, il senso estetico dell'uomo attuale, anch'esso geneticamente fissato nella nostra «natura» da una lunga selezione operante nel corso di decine di millenni, durante i quali da quel che piaceva dipendeva la sopravvivenza del gruppo.