Da troppo tempo ormai le nostre comunità etniche sono divenute lande desolate nelle quali è sempre più difficile riconoscere e ri-trovare le nostre radici  e le nostre Tradizioni di Popoli Europei. La Sovversione massonico-mondialista, attraverso l'immigrazione selvaggia, cerca di perseguire un vero e proprio tentativo di genocidio etno-culturale ai danni dei nostri Popoli, distruggendone le radici etno-culturali, promuovendo l'uniformizzazione egualitaria della mentalità ed omogeneizzando i costumi all'insegna dei valori edonistici, creando un vero e proprio meticciato, dove cresceranno solo i vuoti miti del capitalismo mondialista.

Per questo è stata costituita l’Associazione Culturale Identità e Tradizione.
identita_tradizione@yahoo.it

Identità e Tradizione, più che una normale associazione culturale, è un vero sodalizio di Patrioti Etnonazionalisti che si sono posti come compito, come dovere imperativo, quello di salvaguardare l'immenso patrimonio etnonazionale, culturale, storico e linguistico dei Popoli Europei dai tentativi di sradicamento e d'alienizzazione posti in essere dall'ideologia mondialista, americanofila e terzomondista. Scopo principale dell'Associazione Culturale Identità e Tradizione è quello di promuovere ogni attività di tipo culturale, sociale, linguistico, storico, tendente alla valorizzazione ed alla difesa delle Identità e delle Tradizioni  dei Popoli Europei  ed alla diffusione del Pensiero Etnonazionalista  e dell’Idea Völkisch.

Il Presidente della Associazione Culturale Identità e Tradizione
Silvano Lorenzoni

Il Segretario della Associazione Culturale Identità e Tradizione
Federico Prati

 
   
 

Geopolitica come Destino del Sangue e del Suolo

di Luca Lionello Rimbotti
Una semplice osservazione del pianeta terracqueo sul quale viviamo è in grado di verificare, sin da una prima occhiata, che esiste un monoblocco fatto di continuità e compattezza, situato centralmente rispetto alle derive: è la Terra di Mezzo, l'Heartland, il Cuore della Terra. Questo monoblocco è il grande spazio destinale dell'Eurasia, il macro-continente che corre dalle coste atlantiche del Portogallo sino alla Siberia orientale. E' il luogo degli accadimenti biologici e storici in cui si è manifestata la facies indoeuropea dalla quale, volenti o nolenti, tutti gli europei oggi discendono.
L'esatta percezione di una corrispondenza tra dispiegamento della vita associata, politica, e continuità del suolo dal quale essa prende vita è nozione moderna solo relativamente alla sua sistemazione teorica. Prima della modernità, l'associazione tra essere e essere-entro-uno-spazio delimitato era spontanea, irriflessa, naturale. Un segmento culturale che non abbisognava di alcuna teorizzazione, poiché era vita, era ovvia associazione tra il sangue di un popolo e la terra da cui quel sangue prende vita e alimento. La geopolitica in quanto scienza dell'appartenere ad uno spazio e tecnica per difenderlo è una nozione culturale primo-novecentesca, un ripensamento occasionato dall'allargamento degli orizzonti planetari, quella vocazione alla dismisura che, rinnegando l'aspetto politico del limes e quello psicologico della scala dimensionale, lungo i secoli dell'espansionismo europeo – e molto di più oggi - ha fatto perdere all'uomo occidentale la nozione del contatto tra azione e territorio.
La geopolitica è il tentativo di correggere l'allontanamento causato dalla spinta mercantile, che nel suo slancio individualistico generò la perdita del senso dello spazio, abbandonandosi solo a quello del tempo, da comprimere e da ottimizzare.
Le politiche imperialiste che sono andate per qualche secolo a caccia di spazio planetario, ingurgitato ma mai digerito, compromisero quell'asse psicologico interno all'uomo civilizzato che è la simmetria fra provenienza e destinazione: cioè la sana percezione che l'allontanamento dall'origine, dalla casa, quando si verifica, deve essere in ogni caso una conquista e non una perdita. Il cosmopolita ha creato l'abbattimento delle barriere psicologiche atte a definire lo spazio, dilatando l'Altrove nell'Ovunque e perdendo l'Origine: e quindi causando il taglio di una radice vitale, prima di tutto psicologica. Lo sradicamento dell'uomo globalizzato è un guasto operato soprattutto nella psiche. L'errare migratorio del “cittadino del mondo” si è risolto in un tradimento prima culturale e poi effettivo della percezione della terra. L'erranza, ideologica prima ancora che reale e fisica, crea indisponibilità al luogo, disconoscenza di un combaciare di uomo e suolo. Ci si considera a casa dappertutto, e quindi da nessuna parte. E si è nulla ovunque. E' una visione impolitica, solo economica, questa, è una disintegrazione degli spazi e dei metri culturali di giudizio, una loro vanificazione come concetti legati alla realtà della disposizione geografica e di quella mentale.
Poiché lo spazio, al contrario, è soprattutto integrazione: tra individuo, prossimo, luogo della permanenza e terreno sul quale crescono i frutti delle opere. E' una relazione che intercorre tra l'uomo e la sua intelligenza che, come sempre nell'apprendere e nel sapere, chiede ogni volta delimitazioni, precisazioni, com-prensione: cioè, come dice la parola, divisione del proprio dall'altrui, dell'entro dal fuori, del sopra dal sotto. L'intellettuale snazionalizzato vive la sua a-politìa – il suo essere apolide, privo di città in cui essere se stesso, privo di mura psicologiche all'interno delle quali coltivare identità – come fosse un segno di libera sovranità, non riuscendo a comprendere le implicazioni che, al contrario, rendono la sua fluttuante ubiquità precisamente un non-essere: fantasma retorico, il cosmopolita è un orpello inessenziale alla vita dei popoli, ne costituisce anzi l'esatta antitesi.
Chi invece riesce a contenere la vertigine spaziale e a mantenere intatto il legame tra luogo di provenienza e luogo di destinazione è il popolo semplice. Gli emigranti italiani di inizio Novecento, come talvolta le masse terzomondiste oggi inurbate in Occidente, mostrano di trattenere una volontà di terra che è ignota al cosmopolita. Di qui i vincoli sempre potenti tra il povero emigrato e la memoria della sua terra-patria, le sue culture della terra, i suoi istinti memoriali pre-culturali: la cucina, ad esempio, che è sempre stato un umile mezzo di protezione identitaria altamente simbolico per le popolazioni private della patria fatta di terra, ma ancora in possesso della patria interiore. Si dice, a questo proposito, che ad esempio in Francia il cus-cus negli ultimi anni abbia soppiantato la cucina mediterranea come piatto nazionale: ciò è potuto accadere perché gli immigrati maghrebini hanno avuto un senso della terra più forte dei francesi metropolitani, e ne hanno potuto imporre, così, un simbolo evidente come quello della tradizione alimentare. Il cus-cus, quando mangiato in Francia o in Italia dai nordafricani, per dire, è spirito della terra fatto materia, che si prolunga negli spazi, ricreando le naturali leggi di una geopolitica della psiche.
Lo sradicato dagli insediamenti dell'Atlante sahariano alla banlieu parigina che apre una macelleria islamica o un ristorante di piatti maghrebini impone una sottaciuta, atavica e inconscia legge della terra. Egli è un evidente messaggero della insopprimibile energia che deriva dal suolo: i prodotti della terra su cui si è nati, elevati al rango di ultimo segno di appartenenza culturale, sono un argomento geopolitico di straordinaria vitalità, allo stesso modo della politica di potenza di un grande Stato nazionale. Sono segnali che ci mostrano una volontà di vita, una capacità di dinamismo e un'aderenza anche materiale ai bisogni necessari nati nell'origine, che derivano da un sangue non ancora corrotto dalle sovrastrutture ideologiche cosmopolite, quelle artefatte impalcature che un giorno inventarono l'uomo universale, quel fiore reciso che è l'individuo globalizzato.
Vorremmo infatti che si considerasse la geopolitica, oltre che la manifestazione delle necessità invariabili che regolano la collocazione di un popolo in un territorio, anche e soprattutto il suo vincolo interiore con gli spazi limitati della nascita e della provenienza: una concezione “ulisside” dell'essere che, anche quando sottoposta al distacco, veicola la necessità dell'andare ma custodendo la nostalgia dolorosa del ritornare che è vita, magnete culturale, fonte di capacità di giudizio altrimenti soffocata dall'indifferenza per la diversità dei luoghi e dal nulla esistenziale.
Geopolitica è innanzi tutto legge di vita, qualcosa che è regolato da un fluire delle cose che non è a disposizione del libero arbitrio individuale. “Gettati” nella vita da una nascita da loro stessi non voluta, affidata all'inesplicabile, gli uomini si connotano per un sigillo di appartenenza che è allo stesso modo non scelto, ma subìto, così come si subisce il tratto fisiognomico che ci connota, così come si subisce l'identità dei genitori non scelti o del trovarsi alla nascita qui anziché là. Questa è la legge del nomos, anzi, proprio alla maniera di Carl Schmitt, del nomos della terra.
Poiché nomos è essenzialmente legge – i greci definivano l'a-nomos come l'empio, il fuori limite, il precluso alla con-vivenza – ma legge della terra che sovranamente dispone i destini. Quando si nasce in un popolo che abita una terra, si esibisce un crisma, uno stigma, un segno di provenienza ovunque ci si rechi: né è possibile sottrarsene, senza allo stesso tempo vedere decaduto il proprio status di uomo differenziato dal proprio esclusivo legame sociale. E si rammenti che il nomos è non solo la legge che regola queste disposizioni della differenza dell'identità entro la differenza dei luoghi, ma è anche capacità di abitare il suolo.
Non si hanno ordine e legge dentro di noi se si è incapaci di renderli operanti nel mondo fuori di noi. Dice Massimo Cacciari, in Geofilosofia dell'Europa, laddove riprende i significati arcaici del vivere lo spazio di terra come spazio esistenziale, che il nomos si vincola al némein, che è appunto non solo l'afferrare e lo spartire la terra secondo i bisogni del vivere associato, ma anche il saperla abitare.
Questo sentimento dell'afferrare la terra è stato decisivo nella storia dell'Europa, ne costituisce un segno distintivo quale elemento di cultura superiore, fatta di popolo e non di astrazioni d'intelletto vagante. Esso ci conduce nel senso di volere, e volere fortemente, quel destino subìto e trovato già bell'e fatto alla nascita, di cui dicevamo. E proviene dalla capacità inconscia, e viva nei popoli che sono rimasti psicologicamente fedeli al suolo della nascita, di trattenere l'idea di terra-madre come proprio volto immutabile dinanzi al mondo mutevole. Afferrare la terra propria e condurla dentro di sé ovunque si vada è un permanere se stessi ben più grande che non lo sfaldato smarrimento di quanti, pur rimanendo fisicamente sulla loro terra, non ne riconoscano più i suoni e gli accordi di armonia: come di quei francesi – rimanendo all'esempio fatto sopra – che si trovino ad apprezzare di più il cus-cus che non i maccheroni. Essi, così facendo, irrompono in uno spazio culturale che li trova estranei, migranti apatrìdi, scollati dalle ascendenze e ormai incapaci delle discendenze. Essi non riconoscono più le madri, negano e non avvertono più un sangue fatto ormai di terra abbandonata, isterilita, devastata. Il cuore di chi abbandona la terra dentro di sé è un cuore freddo, secco, inetto a percepire i sussurri e i sussulti del sempiterno genius loci, il luogo umido e fecondo da cui salgono le culture vigorose e si inerpicano le frondose ricchezze dell'identità.
Seguire le leggi della città è il più alto titolo dell'uomo, secondo la cultura greca. E la città è essenzialmente collocazione storica e biologica su un territorio, l'innesto dell'uomo su un suolo che è quello, non un altro a piacere. La legge non la si sceglie. E questo suolo da cui scaturisce la legge ha i suoi diritti, le sue necessità, le sue aggregazioni e le sue repulsioni, che sono immutabili nel tempo. I problemi politici e sociali di un popolo dislocato in una certa posizione geografica sono i medesimi dall'antichità ad oggi. Ad esempio, la posizione continentale della Russia odierna impone la medesima politica, la medesima economia, la medesima ecologia del tempo degli zar; la posizione insulare del Giappone gravita sugli stessi versanti e chiede le medesime soluzioni strategiche e politico-economiche oggi come all'epoca Meiji. Le invarianti geopolitiche sono assai più tenaci delle variabili storiche. Ma anche il popolo è il medesimo, anch'esso, se inserito in uno spazio creativo e non distruttivo, non varie nelle esigenze vitali e nelle domande di fondo relative alla sicurezza: prima delle irruzioni etno-mondialiste di oggi, ovunque i popoli erano della stessa sostanza bio-storica di mille anni fa, cosicché l'Europa del XX secolo era, antropologicamente, la medesima dell'anno Mille.
Se infatti il nomos della terra è fondamentalmente un intreccio dinamico di atavismi, risultando come esito di Ordine e di Radice, questi elementi condizionano il territorio alla stessa maniera di chi quel territorio coabita. Poiché nelle armonie geopolitiche, popolo e suolo sono di fatto indistinguibili. Quella che una volta era la lotta per gli spazi, semplice risvolto dell'eterna lotta per la vita su scala comunitaria, quindi naturale legge d'ordine tra gruppi omogenei, oggi si è mutata nella lotta tra un progetto che vuole disintegrare e una resistenza, soprattutto presente nell'inconscio dei popoli, che non vuole farsi disintegrare. L'era globale segna il limite delle possibilità di dimensionare la politica sulle evidenze della terra, cioè sulla geografia. La sovversione mondialista è anche una sovversione della geografia, oltre che della storia e della legge d'ordine che con un lavoro di secoli aveva creato le appartenenze. Nella polverizzazione dello spazio, ottenuta attraverso le concentrazioni metropolitane di masse servili derubate della terra, accade di vedere il capolavoro di una modernità che non riconosce più i fondamenti umani dell'esistenza. I creatori di meccanismi sociali artificiali sanno che il loro dominio infernale sarà perpetuo il giorno in cui non verrà più riconosciuta alcuna legge: né quella del sangue, né quella del suolo, né quella dell'ordine, né quella dello spazio. Per questo il mercato, e soprattutto la finanza che lavora con una materia incorporea, virtuale, inesistente, il denaro telematico, non sanno nulla dello spazio e del territorio. Il mercato e la finanza mondiale sono ubiqui e quale elemento nutritivo concepiscono solo l'etere, l'abbattimento dei limiti al cui riparo si erano da sempre consolidate le identità. Senza l'identità nata sul suolo da un sangue comune che ha coscienza di sé, si apre lo spazio incontrollato del grande Nulla, e questo irrompe nelle coscienze e nella vita quotidiana di ognuno di noi con la demenza universale che ovunque, come un moloch reso pazzo dalla vertigine dello smisurato, impone la violenza di tutti i rimescolamenti in un Caos universale.

 
   
 

Guerra dell'istinto e socialismo aristocratico

di Luca Lionello Rimbotti
Dal marxismo al mito nazionale-popolare. In questo arco, che corre dall'impossibile al possibile, si racchiude gran parte della ventura politica di un ideale che è la chiave di volta della modernità: l'immissione delle masse nelle istituzioni borghesi, fino a decomporle, e la loro elevazione al rango di soggetto politico decisionista. Il marxismo, inteso nel senso di analisi degli antagonismi e "scienza" del mutamento sociale, ancora poteva veicolare credibili metodologie analitiche, se non fosse stato che il suo dogmatismo acritico gli impedì di leggere la realtà in tutte le sue manifestazioni, previste e imprevedibili, e non solo in alcune di esse. La trascuratezza marxiana nel vagliare variabili essenziali dei rapporti sociali di forza e delle strutture interne delle classi, condusse ad un fallimento di portata giacobina: molto sangue per nulla. Da allora in poi, la rivoluzione fu possibile solo un passo oltre il marxismo. E spesso, contro di esso. Qualcosa che i migliori osservatori, già a cavallo tra Ottocento e Novecento, non mancarono di rilevare. Per dirne una, la cecità marxiana di fronte alle logiche irrazionali dell'appartenenza, la sua incapacità di valutare e dare peso sociopolitico alle determinanti dell'immaginale o a conferire valore di potenziale rivoluzionario ai patrimoni tradizionali, fu tale che molti intellettuali di prima grandezza finirono con l'emanciparsi da una "scientificità" irrealistica e imboccarono le nuove strade della sintesi tra conservatorismo e rivoluzione: da Sombart a Sorel a Michels, da Labriola fino a Croce e Gentile. Tutti, in qualche modo, "verticalizzarono" le concezioni del cambiamento sociale e si avviarono, ognuno per suo conto, su quel terreno elitario e differenzialista sul quale già Stirner e Nietzsche avevano inciso i loro fecondi paradossi, indicando la via di tutti gli impensati superamenti della palude egualitaria. Da quel momento, la sparizione sostanziale del marxismo dalle dottrine politiche praticabili fu un fatto compiuto: e la storia del bolscevismo, anziché una smentita, in virtù della sua fredda incapacità di promuovere la dittatura del proletariato e di sostenere per l'appunto il peso del mutamento politico e sociale, ne è invece la più sonante conferma. In Psicologia politica, Gustave Le Bon scrisse che "il carattere primordiale del socialismo è un odio intenso contro tutte le superiorità…e costituisce una sorta di forza mistica, che sarebbe in grado di ovviare alle iniquità della sorte". Questo collettivismo programmato a tavolino da qualcuno che non aveva mai messo piede in una fabbrica né vissuto in prima persona le contraddizioni sociali reali, non patì mai un declino di propagazione a causa della propria assurdità, ma, esattamente al contrario, poté promuoversi come alternativo al capitalismo proprio in virtù del suo anti-marxiano tasso di nuova "religiosità" sociale. Oltre alla prospettiva di togliere ai ricchi – ovviamente eccitante per ogni sorta di povero – il marxismo ebbe slancio finché seppe auto- promuoversi come struttura del mutamento e cardine di una nuova distribuzione del potere, incentrata su un'utopia inarrivabile ma altamente mobilitatoria. Incapace di sopportare la stabilità e di creare da sé medesimo nuove spinte di oltranzismo, il comunismo è morto di vecchiaia nel giro di brevi decenni, sordo e muto dinnanzi al mondo che cambiava senza la sua partecipazione, in una sorta di parodia atea e quanto mai effimera dell'anti- Chiesa. Simile al cristianesimo nella promozione utopistica di una società dei giusti, il marxismo è spiombato come un cadavere impagliato perché sprovvisto, diversamente dalla Chiesa cattolica, di vere élites e di veri capi. Nel campo della "religiosità" politica e della mistica della rivoluzione, che è l'unico in grado di aggregare masse in alternativa al sistema della cooptazione capitalistica che muove il circuito produzione-consumo, dobbiamo dunque liquidare Marx e suoi discepoli di ieri come di oggi, e inquadrare altre realtà. Esiste un metodo di propulsione dell'attivismo politico, che ha già dimostrato in passato di sapersi gestire nello stesso odierno milieu politico-economico del capitalismo maturo: il mito politico. Esso è "un complesso di immagini capaci di evocare con la forza dell'istinto tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra ingaggiata dal socialismo contro la società moderna". Questa frase di Georges Sorel – che va adattata all'attuale, nel senso di non attribuire ruolo alcuno al defunto socialismo storico, dando invece ampio credito ad un socialismo di popolo ancora da forgiare – la possiamo incastonare in quell'unico quadro dell'antagonismo, che oggi è possibile rintracciare solo tra frange e marginalità ancora allo stadio di diffusa impoliticità. Periferie ideologiche, che cercano di assegnare rinnovata volontà politica alle scoordinate ma potenzialmente virulenti sacche di refrattarietà al metodo di dominio liberistico. Stando alle parole di Sorel, oggi noi dobbiamo sostituire il termine "socialismo" con quello di "istinto". Oggi nessun referente politico, nessun polo politico permette di riversare la carica di ribellismo sulle spalle di un soggetto credibile: non ci sono partiti, sindacati, organismi in grado di gestire neppure l'ombra di un progetto rivoluzionario o semplicemente alternativo. Oggi il rovesciamento deve essere pensato risollevando gli "istinti" soreliani di magnetismo sociale e di volontà di cambiamento del sistema, partendo magari dalle micro-realtà territoriali della vita sociale quotidiana. La nuova ideologia dell'avvenire registra la riduzione dei residui brandelli marxistici in altrettanti volani dell'economicismo, così da rendere vana, anzi nociva, una riattualizzazione dell'equivoco storico che per lungo tempo ha impedito alle masse di percepire correttamente il "progressismo" come un battistrada dell'ideologia industrialista. La nuova ideologia dell'avvenire ha ormai compreso che la catena di ferro che lega tra loro timocrazia e oclocrazia – cioè i ricchi e la plebe – è stata forgiata attraverso la borghesizzazione universale e il sopruso produttivistico. Per ottenere questo risultato, ai popoli sono state tolte la cultura e la cultura politica. Si osserva il sovvertimento della storia europea, nel vedere come il sovrano e il popolino, un tempo coalizzati contro la nobiltà e i ceti medi, si saldino oggi ad un borghesismo ridotto a individualismo di massa. In luogo di quelle antiche dinamiche sociali, legate al tradizionalismo dello Stato dei ceti – non necessariamente sistema dell'ingiustizia, ma tendenzialmente sistema della differenza - la borghesia cosmopolita, notoriamente priva ormai di capacità politiche rivoluzionarie o anche solo innovative e appiattita sui codici utilitaristici, è divenuta classe universale. I due rami borghesi, quello oligarchico dei tecnocrati e quello "democratico" delle masse consumatrici, impediscono ogni procedimento di lettura politica dei fatti, ogni progetto di superamento e ogni capacità di sintesi politica. Noi vogliamo, una volta di più, ricordare i fallimenti piramidali di quelle dottrine che, antistoricamente e intellettualisticamente, avevano preteso di anticipare i fatti con le teorie, la storia con i dogmi pensati a tavolino. Il fallimento delle palingenesi puritan-comunistiche non è che il segno della loro inefficienza e dell'efficienza, invece, del realismo gestito dalle classi economiche, facenti parte della medesima famiglia ideologica, come dimostra la loro convivenza strutturale nel sistema americano. Il paradiso in terra della società degli eguali è stato sveltamente sostituito dal paradiso in terra della società dei ricchi: ma i protagonisti sono gli stessi, e i trozkijsti che hanno fallito a Mosca hanno trionfato a New York. Quello che una volta Rousseau imputava ai regimi aristocratici, oggi è imputabile al regime "democratico" nato dalle sue stesse elucubrazioni egualitarie: "Rousseau volle far valere il fatto che un manipolo di potenti e di ricchi troneggi al culmine della società umana e al vertice della felicità, mentre la massa striscia sprofondata nel buio e nella miseria: tutto ciò era solo conseguenza di un principio d'autorità", scrisse Michels, aggiungendo: "la democrazia eliminò così poco la miseria che, nella prima metà del secolo, proprio là dove la democrazia dominava nel modo più ampio e illimitato, come in Inghilterra e in Belgio, la miseria del proletariato di fabbrica raggiunse il più alto grado". Dunque la "democrazia" borghese liberale, dopo guerre e rivoluzioni, alla metà dell'Ottocento aveva raggiunto lo stesso risultato dell'ancient regime: una feroce ingiustizia sociale. Basta sostituire il Belgio con l'America e la "democrazia" ottocentesca con quella dell'odierno tecnopolio e otteniamo un quadro del presente: sono le due facce di una medesima realtà. Utopismo comunistico e lobbismo usurario lavorano da buoni due secoli a braccetto, e ogni volta ripropongono geneticamente lo stesso risultato: lo sfruttamento economico e lo sfaldamento coscienziale. E tutti, nondimeno, comprendiamo che non è in gioco il principio dell'autorità, ma la gestione dell'autorità da parte dei nemici eterni della politica, repressa nel nome della retorica apocalittica ebraico-calvinista circa il primato dell'economia su ogni altro aspetto della vita associata. In questo modo, le strutture dell'appartenenza culturale tornano ad essere fondamentali proprio nel senso soreliano di un risveglio delle riserve di energia promotrice nascosta tra le maglie del rimosso mitico ed immaginale. Sorel rappresenta oggi più di sempre il punto di congiunzione tra la modernità delle teorie sociali dinamiche e aggressive e l'impalpabile potenza evocatrice che talune matrici tradizionali – ad esempio, il neo- nazionalismo – continuano a mantenere nei ristretti ambiti del tradizionalismo rivoluzionario. La "borghesia conquistatrice" si è finalmente conquistata il diritto a sparire dai cicli attivi della storia, in virtù della propria partecipazione al disegno di espropriazione dei popoli dalla loro cultura nel nome dell'universalismo globalizzatore. Essa è seguita a ruota dagli intellettuali progressisti, che hanno come unico ideale residuo quello di assomigliare sempre più alle oligarchie economiche. Le frange neo-marxiste tenute fuori dal gioco del liberismo egualitario dovrebbero tenerne conto. La materia di cui era fatta la cultura politica del sorelismo è chiara: un procedimento di maturità politica che seppe condurre a concorde punto di vista rivoluzionario tutto un fianco dello schieramento antiborghese, tipicamente rappresentato dalla linea francese che va da Proudhon a Blanqui a Lagardelle, da Péguy fino a Doriot e a Drieu La Rochelle. Riproporre dunque una "patristica" del rivoluzionarismo a-marxista? Il socialismo aristocratico, più che nei libri e nelle idee, è nei fatti, è nella storia, è nella composizione del gene politico europeo. La rivoluzione culturale che vogliamo forgiare, nell'attesa che sorga una credibile classe politica in grado di assumerne i caratteri fondanti, si abbevera essenzialmente alla refrattarietà nei confronti del sistema usurocratico. La mobilitazione di questi ambienti, e la liberazione di alcuni di essi dai complessi storici costruiti su di loro come gabbie incapacitanti – ad esempio, l'anti-fascismo scolastico – sono l'anticamera di un radicalismo basato sulla mistica dell'eroismo e del sublime. Senza il "socialismo dei migliori", voce moderna dell'appartenenza, la strada si libera definitivamente per la vittoria finale dei mercantilisti, su tutto il pianeta. In un tempo di rinascite fondamentaliste, in cui alcune religioni – non la cristiana, ormai troppo "occidentalizzata" e "atlantizzata" - sembrano volersi attrezzare per contrastare il livellamento universale e l'esportazione violenta della "democrazia" da parte dei padroni della ricchezza, la resurrezione dei simboli popolari della partecipazione politica indica l'unica strada percorribile. E' quella della ripresa dell'iniziativa politica per mano delle nazioni. E' quella della rinascita di ogni singolo popolo come centro di resistenza culturale, sociale e politica all'aggressione etno-pluralista e globalizzatrice. Il livellamento universale gestito concordemente dalle destre e dalle sinistre economiche ha il suo unico nemico nella possibilità di suscitare il risveglio dell'istinto soreliano dell'appartenenza che sta dormendo nei popoli. La nazione popolare che esprime aristocrazie del coraggio è in grado – essa sola, in questi tempi, e molto meglio degli effimeri fanatismi religiosi - di portare guerra di sani istinti di vita a coloro che sono abituati a condurre guerre di morte e distruzione

 
   
 

DARWINISMO ETNICO E PROTEZIONE DELLA VITA

Luca Lionello Rimbotti
Quello occidentale è un sistema conservatore fondato sulla sovversione. In questa devastante contraddizione consiste il segreto della sua forza ma, fortunatamente, anche della sua più o meno prossima rovina. Il modello oggi egemone si pone essenzialmente come scoria de-ideologizzata, in quanto concepisce il liberalismo non come ideologia, appunto, oppure come ideal-tipo, come idea-forza, ma come metodo primario della convivenza, qualcosa di oscuramente pre-politico, affidato agli spontaneismi dell'interesse e comunque svincolato da legami sia sociali che immaginali, sia tradizionali che bio-storici. Ma, per dar luogo a questo sbriciolamento della politica, conseguenza prima dell'abbattimento dell'ideologia, si è dovuto necessariamente costruire un mondo di necessità coatte ed utopistiche - la libertà, l'individualismo, il profitto economico: situazioni oggettive elevate a dogmi di convivenza - in base alle quali dare un fondamento falsamente realistico alla sua pratica. L'odio e la diffidenza liberali per qualunque cosa ricordi patrimoni ulteriori, legati al plurale - la nazione, la stirpe, la memoria collettiva, la tradizione, il popolo…- sono la spia del suo malessere, la rivelazione che la nascita del liberalismo coincide col manifestarsi di una malattia, una distorsione storica, frutto a sua volta di un'ideologia rovesciata.
Bisogna per un attimo rammentare che il moderno liberalismo liberista e cosmopolita non è affatto un derivato del nazional-liberalismo ottocentesco, che molto spesso è stato in Europa la matrice prima del nazionalismo, bensì un derivato della vaga e indecifrabile nozione illuminista di cittadino e di essere umano: due artifici pensati a tavolino, necessari a quei concetti di neutralismo e di astensione che sono il segreto conservatore del Sistema mondiale globalizzato.
All'individuo, infatti, si propongono come modi d'essere esemplari la neutralità di fronte a tutte le grandi scelte esistenziali, politiche, filosofiche, in modo che al singolo sfugga ogni nesso tra sé e tutto il resto, e rimanga attiva soltanto la sfera dell'interesse immediato. Questo significa che il liberismo è soprattutto insegnamento all'astensione e alla renitenza di fronte alle scelte. Privato di Weltanschauung, il cittadino astratto è pronto per svolgere i due ruoli essenziali del capitalismo: produttore e consumatore, venendo necessariamente allontanato da ogni altra presa di posizione, ignaro di ogni altro coinvolgimento ad altri e superiori livelli.
Questo è il nocciolo della de-ideologizzazione liberal e il cuore della progettazione sociale depotenziata e minimalista. Estinzione della politica, quindi, ma anche, come logico portato, estinzione della società: ed ecco il germe rovinoso, di cui dicevamo essere portatore il modello capitalista globale, votato fin dall'inizio, per vizio d'origine, alla sua catastrofe. In quanto negatore della società, il liberalismo getta i fondamenti della sua liquidazione, che avverrà proprio per mano di ciò che egli non può riconoscere: i valori condivisi dall'appartenenza.
Il problema, infatti, di cosa fare di fronte al dilagare, solo apparentemente inarrestabile, della necrosi liberal, non è un problema di tenuta conservatrice di ciò che resta di inerte, ma un problema di rilancio rivoluzionario di ciò che è potenziale vivo e non ancora sfigurato dall'erosione mondialista, e che quindi giace intatto: l'ancestrale identità di popolo.
Essa è una realtà ancora potentemente presente nei sostrati bio-storici. Non dobbiamo lasciarci ingannare dalle apparenze. Le riserve identitarie profonde dei popoli sono le ultime ad entrare nel gioco. Esse, per la loro stessa natura, languono e perseverano occultamente nel gene riposto della comunità etnica, e solo in presenza di un attacco biologico diretto, vengono allo scoperto per fare dei propri caratteri naturali, come in ogni organismo vivente, un elemento reagente al pericolo.
Questo attacco, appena agli inizi col programmato processo immigratorio, è ancora lungi dall'aver toccato il nervo sensibile. Oggi, a differenza di altre epoche, il pensiero segue gli eventi, anziché anticiparli. Anche ciò che noi stessi chiamiamo progetto mondialista, in realtà non è l'esito di una meditazione o di una volontà, ma solo il risultato del lavoro di una macchina: un pensiero liberal è esistito due o tre secoli fa. Oggi non esiste alcun pensiero liberal - a dispetto delle varianti propagandistiche neo-cons, teo-cons o quant'altro - poiché ciò che sta marciando a tappe forzate è un meccanismo, un sistema, il cui progetto si colloca nella fase di avvio, quindi in un remoto passato, e non in quest'epoca di pieno dispiegamento delle conseguenze. Vogliamo dire che, neppure ai vertici della sovversione finanziaria, si ha qualcosa di simile a un pensiero sulla sovversione. La congiura mondiale non pensa ormai più se stessa, semplicemente si attua. Le massonerie e le centrali pianificatrici non contano più da un pezzo. Contano i consigli di amministrazione. E questi non programmano la sovversione, semplicemente la eseguono eseguendo i loro programmi finanziari e produttivi. La mostruosità di ciò che ci governa consiste per l'appunto in questa sua mancanza di una testa qualsivoglia. Il disfacimento dei valori e l'annientamento delle riserve identitarie dei popoli, non hanno già più nulla del progetto: si tratta essenzialmente di macchine in movimento, di programmi in esecuzione, e ciò conferma ciò che dicevamo, relativamente all'essere quello presente un modello conservatore. Poiché sta semplicemente eseguendo se stesso, con macchinale e ottusa ripetitività e accelerazione. La direzione opposta a questo moto è la rivoluzione dei sostrati etnici ancora latenti. L'unica vera rivoluzione. E l'unico socialismo ancora pensabile. Qualcosa che, a differenza delle rivoluzioni francese, russa o industriale - in fondo, semplici fasi di assestamento di un sistema già attivo in precedenza - si presenta con i caratteri della vera rivoluzione autenticamente demolitoria di un ordine e autenticamente tesa a erigere un ordine opposto. Il problema del che fare? investe direttamente il sovvertimento dei sovvertitori. Un'operazione che appare, a ben guardare, per la prima volta nella nostra storia, poiché impegna l'essenza dell'esistere, impegna anzi l'esistere stesso nella sua radice. La rivoluzione del futuro ha infatti il suo elemento scatenante proprio nella volontà di garantire le basi della vita, della sopravvivenza, direttamente minacciata da un Sistema mondiale che sta portando rapidamente alla morte i popoli in quanto tali.
I vecchi rivoluzionari marxisti, e i loro tardi epigoni borghesi che per decenni hanno prodotto cattiva letteratura rivoluzionaria basandosi sui concetti, non si sono mai avveduti del grave errore di procedere per mere sintesi di pensiero: essi volevano abbattere un ordine semplicemente pensandone, immaginandone, fantasticandone uno diverso. Una forzatura utopistica dello scientismo e dello sperimentalismo sociale, che ha portato, come si è visto, alle più cocenti delusioni sul piano dei fatti storici. Noi "inattuali" abbiamo, al contrario, la ventura di voler procedere per fatti. L'assalto alla vita di un popolo è un fatto. Noi non possiamo pensare a rovesciamenti sociali, se non dopo aver effettuato quelli politici, ideologici ma, prima di tutto, dopo aver ristabilito l'ordine delle appartenenze secondo la grande categoria storica e antropologica dell'ethnos, unica struttura naturale che sia in sé politica, senza alcun bisogno di svolgere in proposito teorie innovative. Essa è data, e data una volta per tutte. Ma questi rovesciamenti ancora racchiusi da un futuro possibile non potranno esser frutto di un pensiero, di una dottrina, di un'ipotesi. Essi potranno soltanto esser frutto di una realtà. Per la prima volta nell'evo moderno, vediamo popoli posti davanti alla prospettiva di soccombere fisicamente in quanto tali, per mano del capitalismo internazionale e delle sue armi etnopluralista e finanziaria.
Tutte le illusioni legate a un progressismo indolore e liberatorio, che a far data dal secolo XIX si proclamava naturalmente emancipatorio delle masse arretrate, sono nel frattempo crollate una dopo l'altra, sotto il peso della schiacciante evidenza dei fatti. A credere nel progresso apportato dagli strateghi della Quinta Strada sono rimasti gli speculatori internazionali e i loro fantocci massmediatici. I popoli, selvaggiamente derubati dell'anima e delle risorse, cominciano a ricredersi, nonostante il terrorismo psicologico e le propagande minatorie. E i dubbi, in espansivo irraggiamento nelle piattaforme popolari europee, circa ad esempio la bontà dell'Europa unita sotto i simboli della tecnocrazia del profitto, sono la spia che il meccanismo progressista inizia a dar cenni di inceppamento, in maniera probabilmente irreversibile. L'idea utopistica elaborata da generazioni di intellettuali liberali e democratici, secondo cui l'avanzata del progresso politico avrebbe comportato automaticamente l'allargamento della libertà personale e l'aumento di cultura, si è dimostrata del tutto infondata. E' accaduto piuttosto il contrario. Si è visto che l'aumento di democrazia nominale ha coinciso con la dotazione di forme di libertà inutilizzabili, persino inesistenti, speso semplici slogan di cui popoli e individui non sanno cosa fare. Si tratta, infatti, per lo più di una libertà circoscritta alle possibilità date dal Sistema liberale, e messe in condizioni di non poter oltrepassare il recinto delle scelte obbligate, tanto quanto in un qualsiasi regime totalitario manifesto.
Insieme alla libertà di regredire a situazioni di primitiva lotta per la sopravvivenza sociale entro società disarticolate in violenti tassi di competitività e private di meccanismi solidali, il cittadino investito dal progressismo ha ottenuto una drammatica perdita di cultura in senso generale. Il progressismo non reca cultura, come pensavano gli ottimisti, ma, al contrario, degradanti forme di incultura. I popoli fatti segno alle attenzioni liberali hanno ben presto e in maniera crescente smarrito memorie millenarie, saperi acquisiti lungo secolari catene generazionali, hanno visto sbriciolarsi costumi, abitudini, stili, conoscenze e certezze collettive: in una parola, hanno perduto la loro cultura e, con essa, la loro insostituibile specificità, e quindi ogni capacità di elaborare modelli di crescita autonoma. Tutte cose sostituite, come si sa, dal quel superficiale coacervo di gerghi di base, di comportamenti massificati e di obbligazioni consumistiche che fanno parte del bagaglio distruttivo di ogni liberal-democrazia.
Il "trasferimento delle ideologie dal Primo al Terzo Mondo", preconizzato ad esempio da Karl Bracher negli anni ottanta del Novecento, non si è compiuto. Il Terzo Mondo ha soltanto assorbito qua e là teorie di importazione, semplicemente imposte con la forza e con il ricatto: qualche scheggia di marxismo all'epoca della guerra fredda, tonnellate di liberismo attualmente. Ma, nell'uno come nell'altro caso, sono state assorbite ingenuamente - quando non subite passivamente - solo nella speranza di farne strumenti di crescita materiale, l'illusione del benessere democratico, oppure di liberazione nazionale. Mai un'ideologia europea, già soppressa in patria, si è vista ripotenziarsi autonomamente nel Terzo Mondo. Le ideologie, come risposta di lotta al mondo della conservazione economicista borghese, sono nate e morte in Europa e non hanno lasciato erede alcuno. I fondamentalismi religiosi levantini, al riguardo, confermano, proprio in quanto vuoti di ideologia politica e pregni unicamente di aggressività spontaneista, la mancanza di un nesso tra ideologia e Terzo Mondo. In questo senso, il disegno, teorizzato da tempo da De Benoist, di un'alleanza strategica tra Europa e Terzo Mondo, al fine di fronteggiare l'espansionismo liberale occidentale, non potrà aver luogo a procedere, fino a quando si avrà la conferma dell'abbandono europeo dell'ideologia come mezzo di forza politica propria: il che non può che causare, di conseguenza, l'abbandono definitivo del Terzo Mondo a se stesso e quindi ai suoi atavismi impolitici, ottimamente sfruttabili da Washington e dalla sua corte di servi liberal e post-comunisti come terreni di conquista.
"Progresso come libertà e progresso come potenza", diceva Robert Nisbet: né l'una né l'altra cosa si sono verificate. Il progresso gestito in nome del profitto multinazionale ha invece prodotto illibertà, coazione allo sfruttamento e totale impotenza di individui e popoli di fronte al potere mondiale, come mai prima nel corso della storia.
Tuttavia, esiste un'ideologia che non è sopprimibile dalla guerra occidentale alla politica. Essa è l'ideologia primaria e primordiale della vita, della volontà di sopravvivenza dei popoli, qualcosa che non può essere sradicato e affogato nella palude liberista, senza che prima non si assista a vicende cataclismiche. La distruttività del liberalismo, la sua naturale propensione alla decomposizione dei popoli, non può avere che un reagente, la volontà di vita, individuale e collettiva: come accade che chiunque, anche la più mansueta delle persone, di fronte all'aggressione di un assassino trovi in sé lo scatto di un'energia latente insospettata, e predisposta a difesa istintiva della propria vita, così i popoli conoscono la via della reazione vitale, di fronte a minacce che si spingano fino oltre la soglia della disintegrazione del Noi comunitario. Si tratta solo di tenere deste queste riserve, di sollecitarle e ravvivarle. E certo non è lavoro da poco.
Henri Bergson propose a suo tempo, come in una sorta di riequilibrio nei confronti del darwinismo sociale imperante ad inizio Novecento, la sua idea mistica e insieme rivoluzionaria di "evoluzione creatrice": essa avrebbe dovuto rompere il circuito progresso-reazione - sul cui binario correvano allora e corrono ancora oggi tanto il liberalismo, quanto la "sinistra" progressista - e avviare un procedimento di convivenza e interazione tra valori della tradizione e valori dell'innovazione, tra necessità conservatrici e necessità rivoluzionarie, così da soddisfare la duplice esigenza dell'individuo e dei popoli di proteggere l'identità ma, al tempo stesso, di inserirsi armonicamente nell'epoca tecnologica e della socialità avanzata. Questi spunti ebbero, come noto, un loro peso su tentativi storici di rovesciamento tanto del capitalismo cosmopolita quanto del democraticismo comunista internazionalista. Si tratta di un enorme e dirompente patrimonio ideologico che è ancora in attesa che suoi nuovi eredi ne rivendichino finalmente il possesso.
Oggi il compito di quanti intendono disegnare un futuro possibile a uomini e masse, a individui e popoli, si spinge oltre, fino a riconsiderare che l'ingiurioso assalto liberale alle identità è giunto a coinvolgere sfere talmente intime di sostanza vitale, che sono tali da reinnestare proprio frammenti di darwinismo nei comportamenti esasperati dei popoli e delle minoranze minacciate. Non più un darwinismo sociale, stavolta, ma un darwinismo etnico. Una forma post-moderna di lotta dei diseredati ha la possibilità di affacciarsi come alternativa ultima, come ultima possibilità data a quanti, negando il processo di disintegrazione del comunitarismo nazionale, intendono fare appello all'ultimo istinto ancora vivo, prima che subentri la morte spirituale e fisica di ogni aggregazione politica e identitaria sancita dal tempo.
Questo permette di dissolvere il pericoloso binomio liberal-democratico progresso-reazione, che minaccia la vita col ricatto dello sviluppo, e libera le energie ancora vive di culture etniche oggi sull'orlo della rovina, quelle europee in primis. La lotta dei popoli che vogliano sopravvivere alla minaccia mondialista non può trarre energia che dai patrimoni atavici, che da soli, quando liberati e trasformati in energia politica, forniscono le armi della contrapposizione attiva. Tanto il liberalismo quanto il riformismo socialcomunista occidentale hanno da sempre sottovalutato le riserve irrazionalistiche, immaginali, simboliche dei popoli, le hanno diffamate e irrise. Ma proprio in esse giacciono le possibilità ancora inespresse di forzare gli eventi per costruire solidi antagonismi. E' in questi nessi che la rivoluzione politica si lega alla conservazione identitaria, e il tradizionalismo lavora fianco a fianco con l'innovazione e il cambiamento, ottenendo nei fatti ciò che intellettuali anteveggenti proclamarono nella teoria come rivoluzione conservatrice.
Soltanto da posizioni siffatte è oggi possibile scorgere la portata del pericolo planetario e organizzare le energie atte al fronteggiamento. Liberalismo e democraticismo di "sinistra" non solo sono estranei ai popoli, ma ne costituiscono la più grave delle minacce. "Essi - scriveva Moeller van den Bruck settant'anni fa - cercano solo i vantaggi del proprio presente. La loro ultima idea è diretta alla grande Internazionale in cui vengono del tutto ignorate le differenze di lingue, di razze e di culture: si dovrebbe essere governati come un unico popolo di una famiglia fatta di fratelli selezionati dalle intelligenze di tutti i paesi, i quali assommerebbero in sé le prerogative morali del mondo nella sua globalità. Essi piegano la nazionalità a questo internazionalismo, e per fare ciò si servono anche del nazionalismo".
Queste parole, a tanta distanza, aspettano ancora che qualche evento le trasformi in programma politico o, meglio ancora, in insurrezione di masse. In un'epoca in cui si assiste a regimi che crollano sotto la flebile spinta di processioni o semplici assembramenti al lume di candeline, in un'epoca di "rivoluzioni" soffici, fiorite e colorate, quasi "psichedeliche" (abbiamo avuto una "rivoluzione" dei garofani, una "rivoluzione" arancione, etc.), si è autorizzati a credere che masse energizzate da nuove ideologie della mobilitazione aggressiva avrebbero qualche titolo per presentarsi come credibili. Se le prime sono state certamente pilotate e gestite da centrali finanziarie occidentaliste, le seconde potrebbero essere animate e armate da spinte di eguale e contraria efficacia, come l'istinto vitale di popoli non ancora completamente corrotti. Ancora una sorta di finale resa di conti del sangue contro l'oro? Forse, ma senza certi romanticismi né certe retoriche del passato, bensì con la consapevolezza nietzscheana che sono in gioco i destini finali di nuove élites che attendono di esprimersi fuoriuscendo dal ventre ancora fecondo di popoli, che si vogliono sterilizzare con la violenza occulta e quella palese.
Noi vediamo che, ancora oggi, la resistenza al liberalismo mondialista proviene dalle più lontane province dell'impero economicista, e allo stesso modo dalle più profonde pieghe dell'Europa eterna. Non tutti sono disposti, come l'Ucraina o l'Afghanistan, a farsi giocare per il piatto di lenticchie liberali. Dal fellah mediorientale abbiamo esempi di fiera opposizione. La nostra Europa, pur nella sua catastrofe spirituale, sa anch'essa fornire segnali. In ciò che rappresenta, ad esempio, la ribellione del contadino bretone (Francia docet) alle letali seduzioni dei banchieri di Maastricht, si ha la riprova che esistono ancora, qua e là, resistenti nuclei della contrapposizione che attendono soltanto di essere liberati dalle loro catene. Rafforzare dal basso queste culture antagoniste, ognuna nella propria specificità di valore etnico, storico e politico diverso, nell'attesa che eventi rivoluzionari causati dalla stessa globalizzazione li mutino da passive resistenze in attive fasi di sovvertimento dei sovvertitori, è il lavoro da farsi in ogni attimo di questa lunga stagione di eclissi politica.

 
   
 

Teoria tradizionale delle razze: Julius Evola

di Silvano Lorenzoni
Avendo menzionato il fatto che la razza è un fatto non solo biologico ma anche e soprattutto metabiologico, è il caso di dare un'idea estremamente schematica della teoria tradizionale delle razze, che diverrà della massima importanza per quel che segue di questo libro, in particolare i Capp. 1 e 3 della III parte.
Questa teoria (1), il cui sviluppo è dovuto quasi esclusivamente a Julius Evola, è basata sull'assegnazione di caratteri razziali propri a ognuna delle tre componenti che, tradizionalmente, costituiscono il 'composto umano': corpo, anima e spirito (2). Il corpo viene a essere la manifestazione tangibile e visibile dell'individuo - umano e non-umano -, mentre lo spirito ne è il 'pricipio informatore' metafisico, posto fuori dal tempo, che ne dirige la prassi e il pensiero in senso anagogico o catagogico. L'anima, o psiche, "è connessa a ogni forma vitale così come a ogni forma percettiva e a ogni passionalità. Con le sue diramazioni inconsce stabilisce la connessione fra spirito e corpo" (3). Essa, come il corpo, è peritura, ed è il fattore determinante per lo stile della persona - per il modo in cui essa affronta ogni compito, ma senza alcun riferimento al valore etico del compito stesso. "Gli uomini sono diversi non solo nel corpo ma anche nell'anima e nello spirito ... la dottrina della razza deve articolarsi in tre gradi " (4). Quindi: c'è una razza del corpo, una dell'anima e una dello spirito, ognuna delle quali è suscettibile di classificazione, e questo Julius Evola lo ha affrontato nella sua Sintesi di dottrina della razza, mentre una versione semplificata fu da egli esposta in un suo libretto didattico, Indirizzi per un'educazione razziale (5). Per quel che riguarda le razze del corpo e dell'anima, Julius Evola si appoggiava ai lavori degli antropologi seri dei suoi tempi - in particolare modo Hans F. K. Günther, un autore sul quale si avrà occasione di ritornare nella III parte, e Ludwig Ferdinand Clauss (6) -, che però si occupavano essenzialmente delle differenze esistenti fra i diversi tipi umani riscontrabili in Europa o al massimo nel Medio Oriente. Egli invece propose, in via del tutto indipendente, una classificazione delle razze dello spirito - in riguardo il lettore è riferito ai testi originali.
Per quel che riguarda il nostro assunto, di fondamentale importanza è che "l'un elemento cerca di trovare, nello spazio libero che le leggi dell'elemento a esso immediatamente inferiore gli lasciano, una espressione massimamente conforme (...) non semplice riflesso, ma azione a suo modo creativa, plasmatrice, determinante" (7). In altre parole, le razze dell'anima e dello spirito che intervengono in ogni composto umano abbisognano di un 'supporto adeguato' a livello immediatamente inferiore. Ben difficilmente una razza dello spirito di 'prima qualità' potrà tovare spazio accanto a un'anima che non le sia strumento adeguato per manifestarsi; e lo stesso dicasi per la razza dell'anima rispetto a quella del corpo.
Questo tipo di considerazioni danno adito anche ad altri sviluppi, adombrati dallo stesso Julius Evola, che sono gravidi di conseguenze per le problematiche qui sotto esame. "Una idea, dato che agisca con sufficiente intensità e continuità in un determinato clima storico e in una data collettività finisce con il dare luogo a una 'razza dell'anima' e, con il persistere dell'azione, fa apparire nelle generazioni che immediatamente seguono un tipo fisico comune nuovo da considerarsi ... una razza nuova" (8). Cioé: il cambiamento nella 'qualità psichica' di una determinata popolazione può innescare cambiamenti anche morfologici. Questo ragionamento, portato alle sue ultime conseguenze, adombra un possibile effetto a catena. In una popolazione nella quale lo spirito, magari per qualche imperscrutabile ragione, si sia spento o capovolto, si produrranno prima fenomeni degenerativi di tipo psicologico che poi, alla lunga, non mancheranno di rifletttersi anche nel soma (su di questo argomento si riverrà nella III parte).

(1) Di questa teoria, un riassunto molto schematico è dato da Silvio Waldner, La deformazione della natura, Edizioni di Ar, Padova, 1997.
(2) Sulla dottrina tradizionale del composto umano cfr. Julius Evola, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Mediterranee, Roma, 1971 e anche Sintesi di dottrina della razza, Ar, Padova, 1994 (originale 1941). Un sunto di questa dottrina è dato anche da Silvano Lorenzoni, Chronos, saggio sulla metafisica del tempo, Carpe Librum, Nove, 2001.
(3) Julius Evola, Sintesi, cit.
(4) Julius Evola, Sintesi, cit.
(5) Julius Evola, Indirizzi per un'educazione razziale, Conte, Napoli, 1941.
(6) Ludwig Ferdinand Clauss, Rasse und Seele, Lehmann, München, 1941.
(7) Julius Evola, Sintesi, cit.
(8) Julius Evola, Sintesi, cit.

Il presente saggio costituisce il paragrafo 1, capitolo 1 del libro di S. Lorenzoni Involuzione. Il selvaggio come decaduto, di prossima pubblicazione da parte delle Edizioni Ghénos di Ferrara.

 
   
 

I Veneti preromani nel contesto europeo

di Silvano Lorenzoni
'Veneti' ce ne furono non solo nell'Adriatico settentrionale ma anche in Armorica (Bretagna), sulle Alpi (Lago di Costanza), alla foce della Vistola (Prussia occidentale), nel Lazio e anche in Asia Minore, ma gli unici sul conto dei quali si sappia qualcosa - per quanto poco - di storicamente fondato sono i veneti del Veneto. - Quanto alla presunta origine microasiatica dei veneti - essi sarebbero venuti dalla Paflagonia guidati da certo Antenore, troiano, dopo la caduta di Troia proprio come i romani sarebbero arrivati nel Lazio da Troia guidati da Enea, secondo l'Eneide di Virgilio - si tratta di un'invenzione lanciata inizialmente da Plinio, che a sua volta faceva riferimento a Catone, poi continuata da Livio in un clima di esaltazione politica della grandezza di Roma.
Come dappertutto in Europa, e non solo, la genesi delle diverse nazioni e culture, quali grosso modo sono riconoscibili ancora adesso, risale alla dominazione del continente da parte di signori indoeuropei che si imposero su popolazioni paleoeuropee non certo tutte uguali. Dal punto di vista culturale ed etnico il Veneto arcaico - fino, grosso modo, al secolo XI - apparteneva all'ecumene centroeuropeo, del quale la Padania viene a essere il meridione. Il tipo umano predominante era ed è quello alpino (cioé: il tipo alpino della razza bianca o europide), che non è quello mediterraneo e neppur quello nordico o quello balcanico. Esso assomiglia piuttosto a quello prevalente nel Baltico e, in generale, nell'Europa Nord-orientale, e anche le lingue pre-venete/pre-indoeuropee parlate nel II millennio dovevano essere di tipo finnico-uralico. Incomincio perciò con dare un'idea di quali potessero essere le caratteristiche del Veneto pre-veneto. - Sia fatto l'appunto che fin dai tempi preistorici le genti alpine ebbero come caratteristica la laboriosità, la serietà nell'impegno preso e l'ingegno tecnico; e questo si riflette nei tempi moderni quando le zone trainanti dal punto di vista economico (economia reale, non virtuale all'americana) sono quelle dove c'è un forte elemento alpino: quindi la Padania, l'Austria, la Germania meridionale, la Francia centrale. Anche in Spagna, le zone più forti in questo senso, tipo la Catalogna, rivelano un'importante presenza genetica alpina. Viceversa, gli alpini, di massima, furono genti chiuse, poco aggressive e anche poco portate alla cultura astratta e alla creazione artistica brillante. Non a caso i razziologi dell'anteguerra tendevano a dimostrare una scarsa stima per le genti alpine - salvo vedersi costretti a contraddirsi spesso, obbligati dall'evidenza.
Gli abitanti pre-veneti della pianura veneta furono i cosiddetti euganei, sul conto dei quali non si sa praticamente niente, mentre le zone montagnose erano abitate dai reti, che si estendevano in tutto il Tirolo fino alla Baviera meridionale. Queste due popolazioni dovevano essere virtualmente identiche e si dice che con il sopraggiungere dgli indoeuropei gli euganei siano fuggiti e si siano attestati sulle montagne assieme ai reti. È invece molto più probabile che la stragrande maggioranza degli euganei siano rimasti dov'erano e abbiano continuato la loro vita come vassalli dei veneti indoeuropei dei quali, un poco alla volta, essi adottarono la lingua. I reti continuarono ad avere un'esistenza politicamente indipendente per molto tempo - fino al I secolo, e dal punto di vista culturale anche dopo. In riguardo, su di loro ci sono delle informazioni, che ci lasciano intravvedere come dovettero essere anche gli euganei.
Già nei secoli XVIII - XI nel Veneto c'era un'importante industria del bronzo, che veniva importato grezzo dal Trentino e lavorato localmente in diversi luoghi. A quei tempi venivano già fatti i bronzetti votivi tipicamente veneti che si continuarono a fare anche dopo l'avvento degli indoeuropei - non a caso, nel Veneto, gli ex-voto furono sempre di bronzo e non di ceramica come nel resto dello spazio geografico italico. L'industria del bronzo continuò a essere, anche in tempi romani, particolarmente importante nel Veneto: le cosiddette situle, vasi di bronzo ornati di scene quotidiane, di contro agli stili geometrici in vigore in quasi tutto il resto dell'Europa, incominciano a essere prodotte nel VI secolo e rappresentano una continuazione ed evoluzione di un artigianato del bronzo già in pieno rigoglio agli inizi del II millennio. Già in tempi preindoeuropei, è chiaro, c'era una florida attività artigianale e commerciale.
I reti, lo si è già detto, ci danno un'idea di come potesse essere il Veneto pre-indoeuropeo nel suo insieme. Dopo l'arrivo dei veneti, fra reti e veneti ci fu un nteressante intercambio culturale. I reti (e quindi probabilmente gli euganei) utilizzavano la tecnica architettonica di fabbricare case semiinterrate usando blocchi di pietra (se ne trovano resti in tutta l'Europa alpina), adottate anche dai veneti. In margine alle zone indoeuropeizzate, i reti - che erano veneti pre-veneti - continuarono ad avere una fiorente società ancora in tempi romani. Valpolicella, nel I secolo, era ancora un centro retico e centro retico era stata Verona prima della sua celtizzazione, come lo fu Trento. I reti, oltre a ottimi contadini e artigiani, costituivano società fortemente organizzate dove vivo era il senso della proprietà, della casa e della famiglia: qui si intravvedono molte delle qualità che distinguevano i veneti fino a tempi molto recenti. Già molto presto i reti avevano adottato l'alfabeto etrusco e rimangono alcune iscrizioni, di epoca romana. Si tratta di una lingua non indoeuropea, non ancora decifrata (lo si è già detto, probabilmente di tipo uralico). È stato detto che essa presenta affinità con il ligure; ma l'unica affinità di cui si possa essere sicuri è che ambedue erano lingue non-indoeuropee (il ligure era una lingua mediterranea, di tipo, se vogliamo 'etruscoide'). - Dal lato religioso, i reti avevano l'abitudine di accendere grandi fuochi cultuali e i veneti indoeuropei sembra abbiano mutuato queste abitudini. In Lessinia, zona di forte presenza retica, ancora circa un secolo fa si accendevano verso il Solstizio d'inverno dei grandi falò sulle cime dei monti, e i carboni che ne risultavano servivano a proteggere contro il fulmine. A questi fuochi erano anche legate pratiche divinatorie. Fra dicembre e gennaio si bruciavano sterpi per 'aiutare' il Sole nel processo stagionale dell'allungamento delle ore di luce.
Altra fenomenologia arcaica pre-indoeuropea è quella architetturale dei castellieri, grandi costruzioni di pietra a secco e di terra battuta in cima a certe colline, difese da fossati. Fino a tempi romani, in Istria e in Dalmazia, furono luoghi fortificati e di abitazione, ma ne esistevano anche in Tirolo, orientati secondo criteri astrologici, e nella pianura, fino al Garda e oltre (quindi identità, in tempi pre-indoeuropei, fra le genti della montagna e della pianura veneta). C'è chi ha voluto vedere nei castellieri un'influenza mediterranea - né la cosa è impossibile, visto che le genti mediterranee erano dei grandi costruttori in pietra, ma questo è ancora da dimostrarsi.
Il Veneto indoeuropeo esordisce con l'insediamento dei veneti nei secoli XI - X. Si trattava di indoeuropei di ceppo italico, come testimonia la loro lingua, molto simile al latino e della quale incominciano a trovarsi documenti a partire dal secolo VI, scritti in alfabeto veneto, derivato dall'etrusco chiusino (di massima, come sempre e dappertutto, si tratta di iscrizioni funerarie). Dei veneti si è anche detto che fossero celti o protocelti, ma si tratta di un fatto ambiguo, in quanto ancora alla fine del II millennio la distinzione fra celti e italici non era del tutto chiara. Tratto celtico, ma anche italico (si ricordi il particolare rapporto fra Numa Pompilio e la ninfa Egeria) è l'importanza religiosa data alle fonti e agli spiriti acquatici, su di cui si riverrà anche più avanti, e che fu caratteristica anche dei veneti (il ricordo delle anguane, spiriti acquatici, era vivo nelle popolazione veneta ancora meno di un secolo fa). I templi veneti erano quasi sempre vicini a fonti o a corsi d'acqua; e libagioni d'acqua erano offerte ai loro dei.
Come tutti gli indoeuropei, anche i veneti costruivano in legno. Le genti mediterranee erano state grandi costruttori in pietra, quelle centroeuropee usavano, a quanto sembra, tecniche miste. Non a caso tutte le città venete - principalissime Padova ed Este, ma anche Vicenza, Montebelluna, Oderzo, Treviso, ecc. - furono città di legno delle quali sono rintracciabili soltanto le fondamenta.
La vitalità e l'intraprendenza indoeuropea portò a un fiorire culturale e commerciale che nel veneto antico era stato meno dinamico. L'alto Adriatico, crocevia fra l'Europa settentrionale e orientale e il mondo etrusco e greco e poi romano, divenne un centro artigianale e un crocevia commerciale di tutto rispetto. Attraverso il Veneto passava la via dell'ambra, proveniente dal Baltico, ma si commerciava anche in sale, vino, metalli grezzi e lavorati, ceramica (il Veneto, fin da llora, fu terra di grandi ceramisti) e in cavalli, i cavalli veneti essendo fra i migliori d'Europa - i veneti furono grandi allevatori di cavalli (tratto, questo, fortemente indoeuropeo). Già nel secolo VII c'era una moneta veneta, l'aes rude, sostituita nel secolo III dalla dracma venetica di tipo massaliota e poi, nel I secolo, dalla monetazione romana.
Per quel che riguarda il lato religioso, le informazioni che abbiamo sono scarse. Come dappertutto in Europa - e anche in Asia - lo stabilirsi delle aristocrazie dominanti indoeuropee portò a sincretismi religiosi per cui la religione uranica dei dominatori convisse e acquistò caratteristiche delle religioni dei paleoeuropei sottomessi. Se per il mondo greco molti studi sono stati fatti e, entro ragionevoli limiti, si è riusciti a districare fra ciò che c'era di ellenico e di pre-ellenico nella religione greca, nel resto dell'Europa le cose si presentano molto meno chiare; e quale fosse la religiosità delle popolazioni pre-indoeuropee non-mediterranee è quasi sconosciuto. Aggiungiamo che, specificamente nel Veneto, i luoghi di culto dovevano essere solo eccezionalmente dei templi veri e propri, e generalmente recinti sacri posti nella prossimità delle fonti - comunque, si trattava sempre di strutture in legno delle quali adesso sono riconoscibili soltanto i tracciati. La prossimità delle fonti, se ne è già parlato, potrebbe essere un carattere indoeuropeo, di tipo italo-celtico.
Non c'è dubbio che i veneti dovevano avere una struttura religiosa non dissimile da quella paleoromana, improntata dalla tripartizione indoeuropea (Juppiter, Mars, Quirinus). Ma notizie in riguardo non ne rimangono. I lasciti archeologici puntano invece, con ogni probabilità, essenzialmente alla religione popolare del substrato pre-indoeuropeo della popolazione (come, del resto, è il caso anche in tutta l'area italica, dove però la fabbricazione di templi e di aree cultuali in pietra, per non parlare di una abbondante documentazione scritta, permise agli studiosi contemporanei di farsi un'idea migliore di quali relazioni intercorressero fra fra le diverse stratificazioni religiose).
Prettamente indoeuropeo - anzi, identico a certe pratiche comuni in Lituania fino alla fine del Medioevo - è il sacrificio del cavallo, che poi veniva sepolto sotto tumuli artificiali di terra - diversi scheletri di cavalli sono stati trovati sotto tumuli del genere in terra veneta. Tendenzialmente indoeuropeo potrebbe essere il fatto che le tombe trovate sono prevalentemente a cremazione e poche quelle a inumazione, probabilmente di servi. Anche se sia indoeuropei che paleoeuropei usavano l'una e l'altra pratica funeraria, la prevalenza della cremazione potrebbe indicare una predominanza indoeuropea.
Per il resto, quanto ci è dato di sapere sulle pratiche cultuali nel Veneto pre-romano suggerisce che si tratti in massima parte, come già detto, di sopravvivenze pre-indoeuropee - 'euganee' - e magari anche di influenze mediterranee o di sincretismi a esse legati. La dea più conosciuta del culto veneto preromano era Reitia (radice veneta rekt = tedesco richten = raddrizzare), anticamente Pora, dea del guado o del passaggio, verosimilmente verso le regioni dell'Oltretomba (tratto essenzialmente pre-indoeuropeo). I suoi principali santuari furono a Este e a Vicenza, dove essa aveva l'attributo di sanante e facilitava le guarigioni e i parti. Nei siti dei suoi luoghi di culto sono stati trovati un numero grandissimo di ex-voto, dalle cui iscrizioni si può dedurre che devote a Reitia erano soprattutto le donne. L'aspetto religioso di Reitia sembra coincidere, sia per quel che riguarda la sua attività che per il tipo di culto che le si rendeva, con quello di Esculapio, anch'esso un dio vicino agli umani e verosimilmente di origine pre-indoeuropea. Ad Abano si venerava un non meglio identificato Apono e a Lagole (in Cadore), la tricefala Trumusiate (o Icate), forse affine all'infernale Ecate pre-ellenica: qui, forse, ha da vedersi un influsso mediterraneo. Stranamente, in tempi romani, Trumusiate divenne Apollo.
Storicamente, i veneti gravitarono sempre nell'orbita di Roma, che era un alleato naturale per affrontare gli attacchi dei galli della Padania occidentale e meridionale e contro i quali sia i veneti che i romani si dovettero difendere per secoli. Né si escludono affinità naturali di tipo culturale e linguistico, per cui i veneti, anch'essi italici, si sentivano più vicini ai romani che ai celti. Nel I secolo il Veneto passò, in modo più o meno indolore, a formare parte dell'Impero Romano. Buona parte dei caduti nella battaglia della foresta di Teutoburgo furono veneti.

Bibliografia essenziale: Giulia Fogolari, I veneti, in AA.VV., Antiche genti d'Italia, De Luca, Roma, 1994; Giorgio Chelidonio, Le feste e le tradizioni del fuoco in Lessinia, edizione della Comunità montana della Lessinia, Verona, 1999; Giulio Romano, Archeoastronomia italiana, CLEUP, Padova, 1992; Raffaele Mambella e Lucia Sanesi Mastrocinque, Le Venezie, itinerari archeologici, Newton Compton, Roma, 1988; Roberto Guerra, Antiche popolazioni dell'Italia preromana, Aries, Padova, 1999; Jean Haudry, Gli indoeuropei, Ar, Padova, 2001; Hans F. K. Günther, Tipologia razziale dell'Europa, Ghenos, Ferrara, 2003; Marija Gimbutas, Die Balten, Herbig, München, 1982.

 
   
 

Richard Walter Darré

Richard Walter Darré, ministro nazionalsocialista per l'agricoltura e per l'Alimentazione dal 1939 al 1942 e Presidente della Lega dei contadini tedeschi, non fu solo l'uomo del "Blut und Boden", sangue e suolo. Fu anche l'organizzatore di una ideologia agraria radicale che può essere considerata a tutti gli effetti una sorta di manifesto "verde", una premessa a problemi ecologici che diverranno patrimonio ed appannaggio di partiti moderi e democratici.
Nato a Belgrano, in Argentina, nel 1895, figlio di un commerciante tedesco Darré è convinto che l'ambiente americano risulti mortificante per la formazione della personalità. Più tardi, a conferma di questa idea, che l'ambiente e la terra esercitino una influenza fondamentale. per lo sviluppo dei carattere scriverà: "In un fanciullo, allevato nello spirito terribilmente freddo degli ambienti americani è impossibile risvegliare la comprensione delle leggende e dei racconti tedeschi. E' una situazione senza via d'uscita, inconcludente. Chiunque è vissuto laggiù sa a quale monotonia e a quale mancanza di colore venga esposta sin dall'origine della sua evoluzione l'anima di un bambino" . Durante il Reich guglielmino partecipa alla guerra come ufficiale ed intanto unisce alla formazione tecnico - scientifica ,si diploma ingegnere agronomo e coloniale, la lettura dei classici del nazionalismo tedesco: Paul de Lagarde, Treitschke, Houston Stewart Chamberlain. L'agricoltura concepita in funzione anticapitalista Nonostante il Darré sia stato definito a più riprese visionario, mistico, romantico o idealista incapace, è certo che seppe infondere alla storia di quegli anni un corso ed un rilievo notevole, a causa di teorie davvero rivoluzionarie e concependo l'agricoltura in funzione anticapitalista. Con il suo scritto più rappresentativo, Neuadel aus Blut un Boden, auspicava la riorganizzazione della Germania sulla base di corporazioni rurali e celebrava le virtù contadine come baluardo di resistenza di fronte alla desolante desertificazione che l'urbanizzazione e l'industrializzazione, sempre più violentemente, stavano effettuando nei confronti del mondo agricolo. Intrise di tematiche Volkisch e Bundisch queste concezioni diverranno rivendicazione dello stretto legame esistente tra contadino e suolo, tra comunità, stirpe e terra in cui la stessa etnia si sviluppa e trova identità. Proprio per questo rivoluzionario radicalismo agrario il quale porrà le premesse di un movimento ecologista militante e non avidamente intellettualistico, Darré diventerà il capo della importante Lega degli Agricoltori e della Bauerverein (Lega dei Contadini) e potrà influenzare, attraverso il peso di questi voti, le elezioni del 1932 in cui avranno affermazione i nazionalsocialisti. Anche se la morte del Darré, avvenuta nel 1953, svelerà un doloroso fallimento, possiamo dire che la Germania nazista fu l'unico paese a tentare di avviare, una seria e profonda politica agraria che fosse svincolata dagli interessi plutocratici e capitalisti. Già prima del nazismo Feder, ad esempio, o Strasser desideravano un capitale non speculativo ma "creativo e produttivo", un socialismo autoritario che modernizzasse lo stato e avviasse le piccole aziende agricole ad una produttività autonoma e sicura.
La ridistribuzione della terra Darré rivendica la "contadinità" e il diritto all'autodeterminazione del popolo tedesco senza cui non può esserci libertà.
Nel suo desiderio di ridistribuzione della terra, che avverrà ad esempio col reinsediamento dei coloni tedeschi nei territori polacchi, si ispirava alla figura del piccolo proprietario inglese come aveva fatto lo stesso Von Thunen, economista tedesco, proponendo un latifondo distribuito tra i contadini e riscattato mediante lavoro. Allo stesso modello si ispireranno Herbert Backe, successore di Darré al ministero dell'Agricoltura, ed il sovietico Chayanov.
Il ruralismo darreiano, insomma, si fondava su elementi piuttosto variegati ma su tutti c'era l'idea di una agricoltura che doveva osservare il rispetto per il suolo concepito come veicolo di trasmissione della vita della comunità, quindi sacro, e che doveva essere indipendente economicamente dalle tendenze centralizzatrici e soffocanti dello stato industriale.
I movimenti ecologisti oggi percorrono le stesse strade.
Dal neonato RNS (Reichnahrstand, Corporazione Alimentare Nazionale) Darré attacco il prussianesimo e lo sfruttamento capitalistico della terra, sostenendo l'utilizzo di impianti a gas metano e di piccoli trattori.
Nel 1934 fece varare una legge per le operazioni di rimboschimento proponendo nuove forestazioni e la formazione di parchi naturali. Inoltre non si dovevano tagliare alberi per favorire la nascita di centri agricoli e veniva chiesto il rispetto delle proporzioni per piante decidue e sempreverdi.
Si pensi che quando alcuni agronomi inglesi visitarono la Germania nel dopoguerra, rimasero stupiti nel constatare il valore innovativo delle tecniche agricole adottate dalla Germania nazista: aratri a disco, spruzzatori, concimi misti di torba e letame, macchinari avanzati per la setacciatura delle sementi.
I movimenti ecologisti oggi percorrono le stesse strade: il pericolo dell'estinzione delle specie animali, la distruttiva urbanizzazione delle terre coltivabili, il dissesto idrogeologico, l'intensa tecnologia che svende l'ambiente al "dio danaro", la carenza di norme sociali di fronte alla esasperazione moderna del concetto di lavoro.
Di questi problemi, sin dal 1934, Darré fece degli slogan politici e dei motivi di lotta. Fino alla morte scrisse ricerche riguardanti l'erosione dei suolo, o a proposito dei pericoli insiti nei fertilizzanti artificiali e sulla necessità di conservare la biomassa per arrivare all'agricoltura organica.
Il "ritorno alla natura" era un esigenza sentita profondamente dai movimenti giovanili tedeschi precedenti il nazismo.
Darré avversava la tecnologia in quanto distruttrice delle antiche tradizioni popolari e sviluppatrice di forme di vita dominate dal mercato e dallo sfruttamento.
L'industrialismo, la città, vista come sede di un nomadismo e di una cultura cosmopolita, erano frutto di una concezione estranea allo spirito del popolo tedesco, che mirava solo all'utilizzo dei popoli e delle materie prime in funzione del danaro.
Il legame indissolubile tra sangue e suolo Darré ottenne nel settembre 1933 la promulgazione del Reichserbhofgesetz, la legge sull'istituzione del bene agricolo ereditario per i contadini di puro sangue tedesco per sottolineare ancora di più il legarne indissolubile tra sangue e suolo.
Teneva bene a mente l'insegnamento di Gottfried Benn: " ... poiché io sono cresciuto in campagna e accanto ai greggi, so ancora cos'è la patria".
"Metropoli, industrialismo, intellettualismo, tutte le ombre che il secolo ha proiettato sul mio pensiero ... tutto, tutta questa vita angustiata sprofonda in certi momenti, e sola rimane la pianura, la vasta pianura, le stagioni, la terra, parole semplici: popolo".
Darrè era, dunque, per un ritorno alla natura come soluzione alternativa agli effetti negativi della modernizzazione.
Venne destituito da ministro dell'Agricoltura nel 1942. Iniziò allora il periodo più doloroso della sua vita tra problemi di salute, fallimenti personali e processi intentati dalla "giustizia dei vincitori".
I suoi temi di ruralizzazione, di autarchia,di decentramento e di razzismo inteso eugeneticamente e come difesa dell'identità culturale lo avevano fatto divenire il "Fuhrer dei contadini tedeschi" .
Ma forse proprio l'antiurbanesimo gli risultò fatale. Il regime nazista, nonostante la forma agricola e tradizionalista che voleva mostrare, si diresse verso una politica imperialista e moderna testimoniata dalla estrema importanza che in esso aveva assunto l'industria bellica.
Nonostante le inimicizie con Bormann, con Goering, con Himmler il Darré riuscì a divenire il capo di un "nazionalsocialismo verde" che vedeva nella riforma agraria la politica di base per una vera indipendenza dal capitalismo e dall'influenza americana e anglosassone.
Il populismo contadino di Darré, la volontà di strutture corporative e sindacalizzate come il Reichnahrstand erano in contrapposizione con lo spirito accentratore del Reich.
Egli era contrario alla politica imperialista del Fuhrer poiché sapeva che essa rischiava di portare alla rovina e alla scomparsa i contadini tedeschi.
Il piano di formare una nuova nobiltà di popolo sarebbe naufragato, sconfitto irrimediabilmente dall'espansionismo hitleriano.
La speranza di una Santa Alleanza tra Contadino, Sangue e Suolo non poteva scaturire da una politica di dominio e di guerra totale.
Ma, coerentemente, preferì allontanarsi dallo Stato troppo industriale che non garantiva la libertà dei contadini piuttosto che lo spirito di "sangue e suolo".
Le parole di P. Schultze Nauynburg, a conclusione, si riagganciano a quella che doveva essere l'etica darreiana di radicalismo agrario come resistenza alle angosce generate dall'estremismo rnodernizzante: " Verrà un giorno in cui si riconoscerà che l'uomo non vive unicamente di tecnica e di cavalli - vapore. Oltre a ciò vi sono altri beni che l'uomo non può né vuole perdere.
Bisognerà imparare a limitarsi e non privarsi di tutto il resto per progredire in questo solo campo. Se l'uomo realizzasse tutto quello che gli permettono le possibilità della sua tecnologia, arriverebbe allora a comprendere che la vita su questa Terra sfigurata, vita resa troppo automatica e troppo impersonale, non varrebbe più la pena di essere vissuta.
Vedrebbe che, sfruttando tutto quello che la Terra può dare, noi la distruggeremmo e questo cataclisma ci distruggerebbe a nostra volta.
Che ciascuno di noi vegli, nei limiti delle proprie forze, affinché il cambiamento di rotta intervenga prima che sia irrimediabilmente troppo tardi!".

 
   
 
Famiglia, tradizione, federalismo e immigrazione selvaggia
il 13 Marzo Silvio Waldner a Orzivecchi.

Continuano alla sala polifunzionale di via Matteotti le conferenze patrocinate dal Comune

Silvio Waldner scrittore, traduttore e autore di saggi ("Etnonazionalismo ultima trincea d’Europa", "La deformazione della natura", "Stati Uniti, Iberoamerica e Sudafrica"). Collaboratore de "la Padania" e' artefice della traduzione di diversi testi tra cui il libro "Tipologia razziale dell'Europa".
"Da troppo tempo ormai le nostre comunità etniche sono divenute lande desolate nelle quali è sempre più difficile riconoscere e ritrovare le nostre radici  e le nostre Tradizioni di Popoli Europei, l'immigrazione selvaggia, cerca di perseguire un vero e proprio tentativo di genocidio etno-culturale ai danni dei nostri Popoli, distruggendone le radici etno-culturali, promuovendo l'uniformizzazione egualitaria della mentalità ed omogeneizzando i costumi all'insegna dei valori edonistici, creando un vero e proprio meticciato, dove cresceranno solo i vuoti miti del capitalismo mondialista".
E' con la semplicita' e la forza di questo pensiero che Silvio Waldner parlera' Martedi' 13 marzo alle ore 20.30 presso la Sala polifuzionale della Scuola media di Orzivecchi. L'incontro, il terzo promosso dall'Associazione culturale "archiviostorico" e patrocinato dall'Amministrazione comunale di Orzivecchi, pone lo sguardo su una tematica importante ma poco nota al grande pubblico, l'Etnonazionalismo.
Abbiamo rivolto a Silvio Waldner alcune domande.

Che cos'e' l'etnonazionalismo?
L'etnonazionalismo è quella corrente di pensiero politico secondo la quale ogni organismo statale dovrebbe avere come soggetto una popolazione il più possibile omogenea dal punto di vista culturale, linguistico, religioso, genetico/razziale. Si tratta dello stato etnico, il quale per sua natura è l'unico che ha, a lunga scadenza, reali prospettive di stabilità. Antecedente immediato dellàidea etnonazionalista è il nazionalismo 'volkisch', che si sviluppò in Germania forse un secolo addietro.

Quali risposte puo' dare il pensiero etnonazionalista all'attuale visione mondialista?
La visione mondialista è la conseguenza ultima di un processo storico millenario sfociato nell'imporsi su scala planetaria il paradigma religioso monoteista. Nel pensiero mondialista non c'è posto per i popolo, dotati di una loro specifica fisionomia, ma solo per atomi umani mossi esclusivamente da pulsioni edonistiche. E nello stesso modo in cui etnie disparate sono state compresse entro confini innaturali per dare origine a 'popoli' artificiali, adesso si vorrebbe 'comprimere il mondo' per farne un comunitario scatolone dove staranno assembrati quegli atomi umani senza volto, senza razza, senza religione. E' il sogno sia del marxismo che del liberalcapitalismo. Una situazione del genere non può portare se non a disordine, guerre, odi etnici e razziali; perchè l'atomo umano sognato dagli utopisti ugualitaristi rimarrà sempre un'utopia. l'applicazione del mondialismo porterà soltanto a una scalata delle violenze, della povertà e della conflittualità. Vedi, per esempio, l'ex-Jugoslavia - ma anche l'Italia, fatta di due tronconi eterogenei messi assieme per forza e destinati, secondo la logica storica, a separarsi a lunga o a corta scadenza. Sotto condizioni etnonazionaliste questo tipo di problematiche non si darebbero.

Quali pericoli comporta una cosi' alta immigrazione per la nostra societa'?
Qui vorrei fare riferimento al mio libro 'La deformazione della natura' (Ar, Padova, 1997) e a quello di Silvano Lorenzoni 'Il selvaggio' (Ghenos, Ferrara, 2006). premesso che un'immigrazione disordinata e massiccia è sempre indesiderabile, bisogna distinguere fra un'immigrazione europea/europide e un'immigrazione extracomunitaria. Un'immigrazione europea, a lungo termine, non comporterebbe problemi, in quanto trattandosi di immigrati della nostra stessa cultura e formazione genetica, si tratta di un'immigrazione (per usare un termine abusato) a lunga o a corta scadenza 'integrabile'. diversa è l'immigrazione extracomunitaria, che prospetta due problematiche diverse e ambedue gravissime: (a) l'incistirsi ( > l'insediarsi coattivamente ) nelle nostre terre di una massa parassitaria e criminale (il crimine come forma estrema del parassitismo) che poi, dovutamente organizzata da elementi di sinistra, formerà bande di razzaitroi nei nostri territori, (b) il meticciato, incoraggiato dalle sinistre e da certo clero, con conseguente snaturamento della nostra popolazione e con diminuzione delle sue capacità di prestazione qiondi con terzomondializzazione delle nostre terre e con l'acuirsi - non con la diminuzione - dei problemi sociali a sfondo razziale - vedi 'La deformazione della natura'.

Il liberismo capitalista e' sinonimo di liberta' e benessere?
Il liberismo capitalista è sinonimo di opulenza per chi ha la vocazione dell'avvoltoio, non per chi lavora. La preeminenza del capitale sul lavoro stravolge le condizioni naturali dell'economia: non è più il lavoro che crea capitale ma il capitale che (dovrebbe) creare lavoro. lo speculatore finanziario diventa sempre più ricco mentre chi lavora si impoverisce. Adesso i grandi usurocrati dominano anche i governi e la sinistra, da Marx a questa parte, è sempre stata la stampella e lo sciacallo del grande capitale usurocratico per aggredire la classe media - cioé chi lavora - e suo strumento-principe, la feccia sociale. Un esempio perfetto è dato dall'attuale governo italiano: Prodi, impiegato degli usurocrati internazionali, si è impegnato a prosciugare per conto loro il lavoro e il risparmio degli italiani/dei padani mentre ad appoggiarlo con i loro suffragi perché possa rimanere lì a espletare questo lavoro ci pensano i parassiti e la feccia sociale.

Perche' si parla cosi' poco delle problematiche razziali?
Le problematiche razziali sono divenute tabù perché così fa comodo ai padroni del vapore, che sanno che da una popolazione dilacerata e in buona parte formata da maeticci ballerini e venali avrebbero relativamente poco da temere. L'obiettivo ultimo di quegli 'eletti' è il dominio glabale attraverso il monopolio del denaro. Un'industria sempre più meccanizzata e computerizzata produrrebbe quei beni che sarebbero destinati solo a loro, e quest'industria sarebbe mandata avanti da un numero limitato di tecnici. Fuori starebbe la gran massa dei reietti, ridotti a una misria quasi inimmaginabile - e per evitarsi ribellioni significative in questa massa, è per loro auspicabile che essa sia genetica il peggiore possibile.

Globalizzazione e omologazione hanno aspetti positivi?
L'omologazione/l'appiattimento assoluto dovrebbe essere chiaro che non ha e non può avere alcun aspetto positivo - e che comunque è un'utopia. Quanto alla globalizzazione - movimento di merci, capitali, masse umane in modo pandemico in tutto il pianeta - essa viene a essere un veicolo usato dal grande capitale e dal suo sciacallo marxista per portare avanti i suoi piani. Quindi neppure quella ha aspetti positivi. La politica delle frontiere chiuse, salvo che per traffici e movimenti di merci e prodotto o materie prime veramente necessari, è molto preferibile.

Quali soluzioni e' possibile intraprendere per fronteggiare il problema?
In questo momento, come si suol dire, il nemico ha 'il coltello per per il manico' ma ricordiamoci che l'ultima parola non è mai detta. Sta a noi, i migliori, a mantenere accesa la fiaccola e a essere pronti ad assumere l'iniziativa quando si presenterà l'occasione. Si stanno preparando rivolgimenti estremi (cfr. Silvano Lorenzoni 'Contro il monoteismo', Ghenos, Ferrara, 2006) - per esempio il prossimo calo nella produzione di idrocarburi. Inoltre la superpotenza americana che è il garante delle attuali tendenze - e quindi, fra l'altro, garante delle sinistre, per le quali esse professano odio, ma ogni comunista in cuor suo vorrebbe essere americano, a partire da Lenin. Caduta l'America, che ormai è un paese di colore, ogni possibilità rimarrà di nuovo aperta.
Introdurra' l'evento il dott. Francesco Algisi.
Per informazioni: tel. 320 3349 672 - 392 5063 067 - sito internet www.archiviostorico.info.
Gran.Ma.
da Paese Mio marzo 2007 pag.14

 
   
 
L'incolmabile fossato

Di Sergio Gozzoli - Numero 19 del 01/10/1984
Al di qua e al di là dell'Atlantico - Cento e un'America - Una società senz'anima - Il revanscismo dei proscritti - Da Kadesh a Stalingrado, da Saratoga alla Normandia - Ma quale Occidente? Il mortale veleno dell'equivoco - E' sul terreno del costume la battaglia decisiva.
Un Europeo, in qualunque città o borgata venga alla luce, apre gli occhi su di una realtà in cui presente e passato sono inestricabilmente frammisti.
Gran parte di quel che lo circonda è antico. Talora, antichissimo. Da Altamira a Kiev, da Cnosso a Stonehenge, l'ambiente nel quale egli si muove ha il respiro lungo dei secoli, quando non dei millenni. Può anche nascere e crescere nel quartiere più moderno della più moderna delle città, e tuttavia prima o poi — spesso ancora ragazzo — egli incontrerà fatalmente le testimonianze del «suo» passato.
Testimonianze non fossili, ma vive, componenti sostanziali del mondo nel quale è immerso e nel quale si forma.
Non è necessario che egli vada a cercare le stupende pitture rupestri del Paleolitico, né le misteriose costruzioni megalitiche dei templi maltesi o dei menhir di Corsica o Cornovaglia, e neppure il raffinato splendore dei monili scitici, etruschi o celtici: basta che egli si guardi attorno nel suo mondo di tutti i giorni. Il selciato dei vicoli, le statue del parco che circonda la villa rinascimentale, le torri rivestite d'edera, la facciata e le guglie della cattedrale, il castello diroccato, i fossati, i canali, i cippi confinari fra podere e podere, i ruderi delle mura cintoie della città, le fontane della piazza lastricata in pietra, le inferriate e i portoni dei palazzi patrizi, gli affreschi e gli intonaci nell'ombra perenne dei chiostri, il ponte medioevale, la colonna e l'arco romano, sono per lui presenze naturali, come il cielo, gli alberi, o i corsi d'acqua. I colori del mattone, della pietra, del marmo, sbrecciati o levigati dalle intemperie dei secoli, gli sono familiari quanto i colori dei boschi nel variare delle stagioni.
Qualunque sia il suo tipo di sensibilità, il suo grado di intelligenza, il suo livello di cultura, egli viene comunque — in qualche misura — penetrato e influenzato da tutto questo.
Che egli ne sia consapevole o meno, quella patina di nobiltà che il tempo ha deposto sulle cose che lo circondano plasma e segna i suoi modelli mentali, il suo carattere, il suo senso estetico.
Che egli lo voglia o no, l'antico vive in lui, ed indelebilmente gli sedimenta dentro, nei sensi e nello spirito, una qualche sorta di amore e di rispetto per il passato.

Diversamente dall'Europeo, un americano cresce in un ambiente del tutto «moderno». Quel che immediatamente si offre ai suoi occhi e al suo cervello sono la geometrica ripetitività di edifici informi, il brulicare di autoveicoli per strade che sembrano tutte uguali, lo squallore monotono del cemento e della plastica, la petulante volgarità policroma delle insegne pubblicitarie.
Anche l'Europeo, certo, riceve oggi fra le prime impressioni ed esperienze di vita la luce fredda del neon, i colori chiassosi della plastica e delle vernici, l'insensata violenza di musiche sincopate a tutto volume.
Ma la differenza sta nel fatto che il giovane americano, crescendo, non conosce altro che questo. L'asfalto e il cemento, il vetro e l'alluminio, la plastica e il neon gli appaiono realtà del tutto «naturali».
Col tempo, poi, egli apprenderà certamente a riconoscere la natura autentica: incontrerà i fiumi e le foreste, le rocce e le praterie, le montagne e gli oceani — la cui età si misura in miliardi di anni. Qualcuno anzi, nei casi più fortunati, può persino nascervi a stretto contatto. Ma intorno a lui, fra quel che fu prodotto dalla mano dell'uomo, di «antico» non vi è nulla. La stragrande maggioranza degli edifici, nel forsennato ritmo consumistico che «ricicla» ogni cosa a brevissimo termine, è di costruzione recente o recentissima.
Del resto, poco più di tre secoli fa, sull'intero territorio nordamericano al di sopra del Nuovo Messico spagnolo, non v'era una sola strada selciata o lastricata, né un solo edificio in pietra. Così, l'Americano ignora ogni diretta esperienza dell'antico. Al massimo, egli potrà incontrare qualcosa di «vecchio», nella sordida decrepitezza di alcuni slums delle megalopoli, o in qualche centro di provincia della costa orientale. Vecchio di qualche generazione, vecchio di cent'anni, forse — nel caso di qualche raro edificio — di duecento. Questo è il limite del «suo» passato.
Non a caso, nella scuola americana la storia antica non viene praticamente studiata. Se ne dà la colpa all'impronta tipicamente pragmatistica della cultura americana, che incentra sulla praticità dell'utile immediato ogni risorsa ed ogni energia. Sta però di fatto che il pragmatismo è genericamente anglosassone — e semmai inglese prima ancora che americano — e tuttavia la scuola inglese insegna la storia antica ben più seriamente.
La verità è che, ad un Americano, tutto ciò che è antico appare estraneo, incomprensibile e, in qualche modo, ostile.
Questo non significa che un Americano non possa sentire il fascino del passato, fino a soffrirne la mancanza in una sorta di provincialistico complesso. Ma si tratta in quel caso di un capriccio intellettuale, di un «prodotto» culturale consentito soltanto a chi abbia ricevuto una educazione di tipo umanistico e di livello superiore; e il «passato» che egli può amare è allora quello dei musei, dei trattati di storia, dei testi di letteratura. Fatte salve le eccezioni di alcuni grandi spiriti, nessun americano — anche se colto — potrà mai comprendere e amare il passato nella vita, il passato come persistente presenza, come memoria propria, come radice e linfa viventi nel suo presente.
In fondo, l'Americano è inconsapevolmente portato a nutrire diffidenza e disprezzo per il passato, per la semplicissima ragione che egli non possiede un passato.
Tra i molteplici fattori — genetici e ambientali — che concorrono alla formazione di quel profondo nucleo interiore che « fa» la psicologia di un uomo, fra l'Americano e l'Europeo v'è una seconda differenza capitale.
Un Europeo cresce e si plasma in un ambiente sostanzialmente omogeneo.
Se prescindiamo dalle eccezioni rappresentate da alcune metropoli o città portuali — soprattutto in Inghilterra, Francia e Olanda — dove vivono grosse comunità di negri, mulatti, nordafricani e asiatici, nella massima parte del continente l'Europeo vive in mezzo a gente simile a lui.
Quand'anche si tratti di gente che non parla la sua lingua o il suo dialetto — come nelle zone minerarie o industriali a forte immigrazione di lavoratori stranieri — sono uomini e donne che non differiscono da lui in modo sostanziale, né per colore della pelle e tratti somatici, né per indole e inclinazioni. Saranno più o meno biondi, più o meno bruni, più o meno compassati o passionali, ma non sono più diversi di quanto non lo siano, entro i confini della stessa nazione, un alsaziano da un marsigliese, un bavarese da un prussiano, un friulano da un romagnolo. Le grandi divisioni culturali, come quelle linguistiche e religiose, sono a confini abbastanza netti, e a vasti compartimenti stagni. In genere, un cattolico vive in un'area cattolica, un luterano in una regione luterana, un anglicano in un paese anglicano.
Non mancano, certo, zone e paesi dove culture diverse convivono frammiste o a stretto contatto, così da costituire inevitabile fonte di malessere, di intolleranza e di scontro: cattolici e protestanti in Irlanda del Nord, Fiamminghi e Valloni francofoni in Belgio, Croati cattolici e Serbi ortodossi in Jugoslavia. Si tratta però di situazioni tutto sommato marginali: nel complesso, la visione che un Europeo riceve della sua comunità e del suo mondo è quella di qualcosa di compatto e antropologicamente uniforme, a matrice genetica e civile fondamentalmente unitaria.
Le ragioni di disagio, malcontento e disadattamento — e quindi di tensione o ribellismo — sono di ordine individuale, o economico, o politico, non certo di ordine razziale o culturale.
I legami quindi che l'Europeo contrae e stabilisce con la sua comunità — quantomeno quelli più elementarmente esistenziali — sono di tipo naturale: egli accetta con facilità il suo vicino perché gli assomiglia, e ne accetta con naturalezza limiti e difetti perché assomigliano ai suoi; i primi compagni di gioco potrebbero essere suoi fratelli o cugini, e la ragazza che corteggerà non ha una psicologia tanto dissimile da quella di sua sorella.
L'integrazione fra le diverse componenti sociali avviene in genere in modo spontaneo — nella scuola, in chiesa, sulla piazza, al bar, in treno, allo stadio, nell'esercito — senza conoscere grossi steccati o resistenze, se non quelli posti dalla fisiologica dialettica della vita consociata presso qualsiasi popolo da che mondo è mondo. Le inclinazioni, gli interessi, le passioni, gli usi, le mode sono comuni, o largamente condivisi.
Questa sostanziale omogeneità, questa naturalezza di integrazione, questa comunanza di caratteri e di abitudini che fin dall'infanzia l'Europeo trova nella sua vita di relazione, e che generalmente esprimono le inclinazioni sue e delle generazioni che lo hanno preceduto — naturalmente simili — fanno sì che egli, più o meno consciamente, abbia della società una concezione «organica», quasi naturalistica. Potrà anche sentire estraneo e ostile lo Stato — e tanto più quanto più lo Stato, nel farsi complesso e astratto, si allontana da questa organicità sociobiologica — ma il legame con la sua comunità «naturale», famiglia, campanile, popolo, è fortemente avvertito e vissuto, non solo nelle campagne e in provincia, ma a tutt'oggi anche nella maggior parte delle città della vecchia Europa.
L'Americano, al contrario, nasce in una «società» eterogenea, ibrida e multiforme.
Se la maggioranza relativa degli abitanti degli USA è costituita ancor oggi da indoeuropei, essi non rappresentano il risultato di un evento migratorio unico e compatto, né di un flusso continuo di origine unitaria: gruppi diversi per lingua, ceppo, estrazione sociale e credo religioso giunsero ad ondate successive, in tempi e condizioni diverse, sbarcando in luoghi diversi e lontani fra loro. Prima puritani e quaccheri al Nord, anglicani e cattolici al Sud, provenienti in entrambi i casi dall'Inghilterra, ma divisi da mortale odio politico e religioso, nonché da radicali differenze civili e sociali; poi scozzesi e irlandesi, olandesi che si aggiungevano al piccolo nucleo originario dei fondatori di New York (1), francesi della Louisiana — che sarebbero in seguito stati incorporati nell'Unione, come gli spagnoli della Florida e dell'Ovest; quindi, a milioni, schiavi negri dall'Africa, e, a migliaia, rivoluzionari, massoni e «liberi pensatori» da tutt'Europa; più tardi, alla spicciolata, tedeschi, scandinavi, italiani, slavi balcanici e dell'Est, levantini, cinesi e giapponesi; infine ebrei, greci, ancora italiani, e, più recentemente, profughi d'oltrecortina, e milioni di meticci centroamericani e messicani di lingua spagnola — i cosiddetti «ispanici», anche se sangue spagnolo spesso non ne han per niente. A completare il quadro sul piano del puro folklore, van citati i pochi Pellerossa, superstiti del genocidio subito durante i secoli scorsi.
Fusione e integrazione di questi gruppi furono talvolta facili, altre volte difficili. In taluni casi vennero ottenute solo con la più spietata delle violenze, in altri non avvennero mai del tutto. Alcuni di questi gruppi persero presto tutte le connotazioni nazionali originarie, altri le conservano ancora oggi dopo quattro, cinque, sei generazioni.
Le differenze di razza, di religione, di cultura creano sacche e compartimenti stagni. Ma non si tratta mai, come in altri Paesi multirazziali — India, URSS, Sud Africa — di grosse sacche e grossi compartimenti geograficamente ben delimitati: i loro confini dividono non gli Stati, le contee o i distretti, ma le città e i quartieri, talvolta i marciapiedi opposti della stessa strada. Ed essi non convivono l'uno accanto all'altro, ma piuttosto si sovrappongono l'uno sull'altro, coincidendo in tutto o in parte con un diverso status culturale ed economico.
Dai banchi di scuola agli uffici di collocamento, dalle relazioni sessuali alle carriere pubbliche, dai contatti interpersonali alle stratificazioni sociali, tutto subisce la pesante influenza dell'appartenenza all'uno o all'altro gruppo; e i rapporti son difficili e tesi, carichi di una incontenibile potenzialità di ricorrente violenza.
Se la molteplicità delle Chiese, delle confessioni, delle sette, ha condotto gradualmente ad una fondamentale tolleranza religiosa, essa concorre però pesantemente a frammentare e polverizzare la cultura e la psicologia nazionale.
Non vi è una America, ve ne sono cento.
Il tanto vantato patriottismo degli Americani non è fondato — se non per il nucleo di ceppo yankee che costituisce ormai una minoranza — sul «senso nazionale», ma sull'attaccamento ad un elevato tenore di vita materiale, o, al massimo, sull'orgogliosa coscienza di appartenere al Paese più ricco e potente della Terra: l'attaccamento dell'azionista alla sua prospera S.p.a.
E le tanto vantate «libertà» americane — di cui in realtà si avvale soprattutto l'oligarchia finanziaria per prevaricare sulle classi inferiori e sullo stesso Stato — sono solo espressione della pratica necessità, oltre che di illudere le masse, di lasciare spazio all'individuo per diluire forza e peso dei gruppi — veri e propri corpi sociali separati — che tendono di per sé a crearsi spazi autonomi crescenti.
Il gioco politico di formazione del potere — per quanto pilotato dal vertice oligarchico che manipola la pubblica opinione attraverso il controllo dei mass-media — non può non tenere conto di questa frammentazione, che si esprime nei più svariati gruppi di pressione: la lobby ebraica, le masse negre, gli omosessuali organizzati (più del 10% dell'elettorato, secondo l'autorevolissimo politologo Theodore White), le femministe, gli italo-americani, gli irlandesi, gli ispanici, e così via. Ognuno di questi gruppi ha cultura, tradizioni, psicologia, passioni e interessi diversi e contrastanti, irriducibili a qualunque omogeneizzazione e a qualunque naturale solidarismo.
A sopperire allora alla mancanza di coesione razziale e culturale, per ovvie ragioni di sopravvivenza nazionale deve intervenire lo Stato ad imporla surrettiziamente e coercitivamente. Non solo quindi la proprietà, la sicurezza personale, il mondo del lavoro, il commercio, la morale, devono essere tutelati e regolati da leggi, ma persino il diritto di accesso ad un bar o ad un autobus, di iscrizione ad una scuola, di assunzione in un ufficio.
In qualsiasi Paese del mondo, fino a non molto tempo fa, la vita sociale era fondata assai più su tradizioni che su leggi scritte: l'educazione, il reciproco rispetto, i rapporti fra i sessi e fra le generazioni, la dignità personale ed il generale civismo dipendevano assai più dal costume che dal dettato legale. Anzi, in quegli ambiti della umana convivenza che più propriamente attengono al livello di civiltà di un popolo, si poteva affermare che era il costume che produceva la legge.
In America, avviene l'opposto.
E se in molti altri Paesi le cose stanno oggi prendendo la stessa piega, è principalmente a causa della dilagante influenza dell'«americanismo» su tanta parte del globo.
Ma questo sostituirsi del formalismo legale alla naturalezza del costume fin negli angoli più riposti della problematica esistenziale, questa continua necessità da parte della legge di intervenire ad imporre, mediare, negoziare, bilanciare, per garantire un minimo di coesione sociale in assenza di uno spontaneo solidarismo e di una naturale omogeneità antropologica fra i cittadini, crea reti e viluppi di norme, regole e disposizioni ditale complessità ed oscurità interpretativa, che il cittadino non ha altra scelta che quella di affidarsi a degli esperti.
Non è più una società per uomini, ma per legulei.
Leggi semplici e chiare, essenziali, promananti dal costume, danno al cittadino un senso «giuridico» dello Stato che ben si appaia al suo naturale senso organico della società; mentre leggi troppo numerose, sottili, complesse e astruse danno al cittadino un senso «causidico» del consorzio civile. La società appare allora un luogo dove tutto è conflittualità, contenzioso, negoziazione, mediazione, e composizione formalistica dei problemi.
In tale burocratizzazione della vita in ogni suo aspetto, l'Americano è condotto a concepire non solo lo Stato, ma la stessa società elementare, come qualcosa di artificioso, di astrattamente «razionalizzato», di freddamente contrattuale — senza legame alcuno con le profonde componenti affettive della sua natura di uomo.

Alla luce di queste radicali differenze — ben lontane del resto dall'essere le sole — trova chiara spiegazione il solco storico-morale che divide l'Europa dall'America: due civiltà, due visioni del mondo, due «stati dell'animo», non solo estranei e lontani, ma abissalmente antitetici.
Qui il senso delle radici, della continuità della vita individuale e sociale al di sopra delle singole generazioni; là l'esasperata percezione del presente, dell'«attuale», dell'up-to-date, come unica dimensione in cui calare i propri motivi esistenziali. Qui la concezione del domani come proiezione profonda del proprio passato, al quale si deve comunque qualcosa in termini morali ed in termini pratici; là, una smodata ansia di futuro immediato, senza obblighi morali verso eredità da difendere e da trasmettere. Qui un sedimentato senso estetico, un gusto fondamentalmente sobrio e luminoso, radicato nella classicità — più volte rivissuta e rinverdita — delle proprie origini civili; là una pacchianeria smargiassa, una totale mancanza di misura, un infantilismo estetico che si palesa nell'amore per la chiassosità cromatica e per l'arroganza dei suoni e dei volumi.
Qui la coscienza della individualità nazionale, della etnìa, e quindi della appartenenza ad una comunità, là un cosmopolitismo disancorato da ogni centralità sociale e da ogni vincolo interiore.
Qui la tenace sopravvivenza di aneliti al sacro e al trascendente, là, ormai consolidata, la «religione» del laicismo e del benessere materiale.
Qui persistenti e profonde riserve mentali nei confronti della speculazione finanziaria e dell'usura, là un culto fanatico per il successo economico, comunque raggiunto.
Qui un virile attaccamento alle proprie tradizioni (2), difese da una mal superabile diffidenza per tutto ciò che è estraneo e diverso; là una donnesca curiosità, una disponibilità ad accogliere, a fagocitare, a ridigerire qualunque apporto, qualunque eccentricità, qualunque «rifiuto» altrui.
Due mondi opposti dunque, due antinomici principi di civiltà.
E tuttavia, è largamente diffusa la convinzione che il Nuovo Mondo sia, in termini culturali, una «colonia» del Vecchio Mondo, che la matrice civile fondamentale sia comune, che l'America, in ultima analisi, sia «figlia» dell'Europa. Tale diffusa credenza nasce dal dato di fatto che tutti i valori, le idee religiose e i movimenti culturali che furono e sono alla base dell'american way of life — calvinistici, massonici, borghesi ed ebraici — vennero dall'Europa, portati da immigrati che dall'Europa provenivano; e poggia sull'opinione che l'«americanismo» rappresenti soltanto una fase di sviluppo ulteriore, favorito da ricchezza di spazi e di risorse, di queste idee e di questi movimenti nati tutti nel Vecchio Continente.
Si tratta, in verità, di un equivoco tutto da dissipare.
Infatti, è proprio ciò che apparentemente unisce i due mondi, quel che in realtà più a fondo li divide: poiché ciò che l'America ricevette dall'Europa negli ultimi tre secoli, facendolo proprio e fondandovi sopra la sua filosofia di vita (3), è esattamente tutto quello che, pur nato in Europa, l'Europa rifiutava e rigettava. Quello che doveva costituire l'anima stessa del «mondo americano», era proprio tutto ciò che la vecchia Europa «scartava», per una radicale inconciliabilità con la essenza profonda della sua anima civile e storica.
Dal settarismo puritano e quacchero allo spirito capitalistico e mercantilistico, dal «mondo dei Lumi» alla massoneria, dall'ottimismo razionalistico all'odio per il Trono e per l'Altare, dall'individualismo al cosmopolitismo, dalle prime banche internazionali ai fermenti rivoluzionari borghesi, si trattava di idee, tensioni e movimenti che erano sì nati in Europa, ma ai quali l'Europa poteva opporre — allora e ancora per secoli — forze ben più consistenti: i valori di una civiltà legata al sangue e alla terra, il vigore delle varie culture popolari, l'autorità morale delle Chiese, il tradizionalismo gerarchico, lo spirito ghibellino e la residua vitalità della nobiltà militare, l'istinto di conservazione del mondo contadino, il senso nazionale, gli antichi miti eroici, l'epopea cavalleresca, i monumenti letterari e artistici della Classicità, del Medioevo, del Rinascimento.
Non si può comprendere appieno la storia europea e mondiale del nostro secolo — con la apparizione dei movimenti fascisti e con gli interventi americani nei due grandi conflitti — se non ci si rende ben conto di questo: calvinismo, capitalismo bancario e industriale, razionalismo filosofico e illuminismo politico, Massoneria, Rivoluzione borghese, pur dopo grossi successi iniziali, furono sostanzialmente sconfitti — nel loro sogno di conquista totale dell'Europa — nel corso dei secoli XVII, XVIII e XIX. E se poterono continuare a coltivare questo loro sogno di vittoria finale, fu soltanto trasmigrando oltre Oceano.
Con l'anglicanesimo in Inghilterra, con le Chiese luterane in Germania e Scandinavia, con la Controriforma nei Paesi cattolici, chi vinceva era lo spirito nazionale e gerarchico, essenzialmente tradizionalista e quindi antiprogressista.
Con la Vandea, coi contadini tirolesi e veneti, coi Lazzaroni del Sud italiano, con le corporazioni germaniche, coi soldati delle armate austroungariche e prussiane, con la guerriglia della intera nazione spagnola, chi si batteva e vinceva era lo spirito popolare, fondamentalmente antiborghese assai più che antiaristocratico o antidinastico.
Coi movimenti romantici, con le filosofie irrazionalistiche, con l'epica letteraria e musicale, chi vinceva era una concezione spiritualista, sostanzialmente antiegualitaria, eroica e tiranneggiante: un anelito alla sacralità, contro ogni laicismo.
In Europa, l'età di Voltaire moriva, sorgeva il sole di Wagner e di Nietzsche.
Potrebbe mai, l'America, avere un Wagner o un Nietzsche? In verità, non ebbe neppure un Pound, giacché Pound le voltò le spalle per cercare in Europa la sua Patria.

Lo spirito di Voltaire però — con la sua carica di progressismo utopico, di razionalismo materializzante e di laicismo dissacratore — aveva traversato l'Atlantico.
Così tutte le forze che lo spirito di Voltaire ispirava e riassumeva, battute e disperse, o anche solo temporaneamente bloccate nella loro marcia verso il cuore delle società europee, trovarono uno sbocco naturale in Nordamerica, dove il vuoto d'ogni terreno storico-ereditario — e quindi d'ogni forza ostacolante — avrebbe loro consentito l'esplosione più libera e l'affermazione più totale. Accadde così che si andò rapidamente formando una società tutta fondata su valori e forze antitetici rispetto a quelli ancor dominanti o emergenti in Europa. Una società in cui il potere politico e culturale fu fin dall'inizio nelle mani dei maggiori detentori di capitali, e, in via immediatamente subordinata, di una classe borghese media — commercianti, industriali, professionisti, armatori, mercanti di schiavi, giuristi, giornalisti — di formazione calvinista, impastata di spirito illuministico, e fortemente infiltrata dalla massoneria.
Se qualcosa di ancora veramente «europeo» poteva germogliare in Nordamerica, era solo nelle colonie del Sud, dove l'impronta religiosa era in buona parte anglicana e cattolica, e dove l'elemento umano era di estrazione sociale assai diversa da quella dei coloni del Nord: militari, funzionari della Corona, piccoli nobili e gentiluomini di provincia, artigiani e, soprattutto, agricoltori. Per questi uomini, come per il contadino europeo ancor oggi, il legame con la propria terra andava oltre il mero significato economico, per attingere una dimensione esistenziale.
Era forse questa la differenza più radicale fra i coloni del Sud e quelli del Nord, dove l'agricoltore non era affatto un «contadino», ma un borghese (4) per il quale la terra era solo un «investimento» occasionale, un puro e semplice business senza implicazioni affettive.
Oggi ancora, mentre si parla comunemente di contadini francesi, tedeschi, olandesi o italiani, nessuno si sognerebbe di chiamare «contadini» gli agricoltori americani: essi sono infatti semplicemente uomini d'affari, o tecnici, o — banalmente — «operatori agricoli». Anche l'uomo della strada, digiuno d'ogni cultura storica o sociologica, sente che il termine «contadino» — con le sue profonde implicazioni di ordine umano, morale e civile — sarebbe del tutto inappropriato per l'Americano che vive sulla terra e della terra.
Le conseguenze storiche di queste elementari connotazioni culturali della società americana furono di portata incalcolabile. Non v'è alcun bisogno di scomodare Weber o Gramsci per cogliere tutta la preminente importanza dei fattori culturali e antropologici su quelli socioeconomici nel divenire di una società o di una civiltà: fu questa differenza culturale — che rendeva inconciliabili lo spirito «sudista» e quello «nordista» — a condannare gli Stati del Sud. Il fenomeno dello schiavismo — che del resto era stato alimentato per generazioni proprio dai mercanti di schiavi del Nord — e la stessa insofferenza del Sud nei confronti dello sfruttamento economico da parte degli stati industriali nordisti, non furono che pretesti o concause secondarie.
In verità, gli Stati del Sud non erano America: è questa, l'unica giustificazione «proporzionata» allo spaventoso macello rappresentato dalla Guerra di Secessione — che la storiografia americana chiama, più propriamente, «Civil War»: guerra civile.
Nella logica storica del conflitto secolare fra le due culture — il mondo vincente nella Vecchia Europa, e quello trasmigrato nel Nuovo Continente — il Nordamerica può essere visto come la base di riorganizzazione e di rivincita di tutte le forze ideologiche e politiche sconfitte in Europa.
In tale ottica, gli Stati del Sud dovevano essere spazzati via, come operazione preliminare alla «riconquista» del continente europeo: essi erano troppo tradizionali, troppo classicheggianti, troppo «europe».
Le ostilità contro il Vecchio Continente, del resto, si erano già aperte da tempo, sia in termini ideologici che militari, con la Rivoluzione antiinglese e con la Dichiarazione di Indipendenza: l'inconciliabilità dei due mondi, ed il rancoroso revanscismo dei proscritti e degli esuli, le rendevano inevitabili.
Esse continuarono con la «dottrina di Monroe», con la guerra contro la Spagna, con l'intervento americano nel primo e nel secondo conflitto mondiale; con la liquidazione — voluta dagli Stati Uniti — degli imperi coloniali inglese, francese, olandese, italiano, belga e portoghese; con la creazione — voluta dagli Stati Uniti — di una smisurata potenza russa a minaccia dell'Europa; con lo smembramento della Germania e la spartizione dell'intero continente, con la imposizione a tutti gli Stati dell'Ovest europeo di regimi a democrazia partitica, con la progressiva colonizzazione culturale, politica ed economica del Vecchio Mondo. E non è certamente ancora finita.
A questo punto, due considerazioni si impongono.
Prima: quanto più palese e scoperto si delineava l'espansionismo imperialistico americano — col genocidio dei Pellerossa, con la guerra contro il Messico, con lo sbarco a Cuba, con l'occupazione di Portorico e di Guam, con la conquista delle Marianne e delle Filippine, con l'annessione delle Hawaii e delle Samoa, col protettorato su Panama strappata alla Colombia — e tanto più altisonanti, ampollose e martellanti si facevano le professioni di democrazia e di anticolonialismo. E estremamente istruttivo — e anche divertente — seguire l'andamento parallelo fra le impennate delle due curve: quella delle azioni aggressive che costellano la linea di espansione americana, e quella della virulenza verbale e scritta delle campagne di propaganda umanitarista e progressista.
Seconda: tutti i singoli atti di forza — conflitti dichiarati e non, sbarchi di truppe, colpi di stato e sommosse fomentati da propri agenti, occupazioni e «protezioni» militari, con tutti gli intrighi e le macchinazioni atti a provocarli e prepararli propagandisticamente — non furono mai voluti e scatenati, come sarebbe naturale pensare, da ambienti ultranazionalisti e conservatori, ma sempre da uomini e movimenti noti per il loro zelo democratico ed il loro fanatico liberal-progressismo: Lincoln volle la guerra contro il Sud, Theodore Roosevelt lo sbarco a Cuba e l'occupazione delle Filippine e di Guam, Woodrow Wilson l'intervento nella Prima Guerra Mondiale, Franklin Delano Roosevelt nella Seconda, Harry Truman il lancio della prima atomica, John Kennedy la guerra del Vietnam.
Quello che a prima vista può apparire un paradosso, risulta invece, ad una attenta indagine storica, una regola ben precisa: ogni atto di aggressione, di espansione, di intromissione in affari altrui, di colonizzazione militare o economica, è sempre coperto dalla cortina fumogena e dalla formula mimetizzante del progressismo, dell'umanitarismo, della democrazia.
I plutocrati che governano gli U.S.A. — vero e proprio potere dinastico (5) occulto, operante dietro le quinte delle Presidenze e delle Amministrazioni ufficiali — hanno scoperto di poter curare assai meglio i propri affari travestendosi da idealisti e da filantropi. Mercanti di schiavi, predicavano l'abolizionismo; mercanti di cannoni, predicavano il pacifismo; mercanti di inquinamento e di missili, predicano oggi l'ecologismo e l'umanitarismo. La costruzione del Palazzo della Pace all'Aja, sovvenzionata all'inizio del secolo da Andrew Carnegie, magnate americano delle corazzature per navi da guerra, resta un monumento emblematico di questa doppiezza tipica dell'americanismo.
Una doppiezza sofisticata, che sa rinnovare le sue maschere, quando l'abuso le rende logore: oggi, la maschera di moda è quella dei «diritti umani», in nome dei quali il Potere americano — coi suoi cento tentacoli finanziari, ideologici, diplomatici e militari — si arroga il diritto di immischiarsi negli affari interni di qualsiasi Paese sul quale abbia appuntato le proprie mire.
Attraverso il Fondo Monetario Internazionale che il sistema controlla, attraverso le organizzazioni dell'ONU che sono sue emanazioni, attraverso sigle di comodo come Amnesty International e World Council of Churches (6), attraverso servizi segreti e forze militari delle alleanze che capeggia, questo Potere manda in bancarotta Paesi che aveva gonfiato di crediti perché fossero ricattabili, fa cadere governi che tentano un sogno di indipendenza, scatena rivoluzioni di palazzo e sommosse di piazza, provoca e accende conflitti, sovvenziona guerriglie: il tutto, dietro una sapiente e orchestrata campagna contro una qualche «violazione dei diritti umani» — e, naturalmente, all'ombra degli immortali principi democratici e progressisti della «ideologia americana».

Quasi 3300 anni fa — nel 1296 A.C. — a Kadesh sul fiume Oronte, in Siria, venne combattuta la prima grande battaglia storicamente ricostruibile nella sua dinamica e nelle sue fasi tattiche: da una parte l'esercito ittita guidato dal re Muwatallis, dall'altra l'armata egizia sotto il comando del Faraone in persona, il grande Ramsete II.
Nonostante le spudorate falsificazioni della storiografia ufficiale egizia, è oggi evidente che vinsero gli Ittiti: a stento, maledicendo al cospetto degli dèi la pusillanimità dei suoi ufficiali, il Faraone riuscì a scamparne illeso. E dovette sottoscrivere un trattato di pace — sorprendente per la «modernità» dei fini e dei contenuti — che in sostanza riconosceva la realtà della potenza del Regno ittita, il primo Stato organico edificato da un popolo di schiatta indoeuropea.
Era l'esordio, sul grande palcoscenico della Storia, dei popoli indoeuropei.
Ma era altresì, e allo stesso tempo, il primo atto storicamente noto dell'eterno conflitto fra l'Europa e l'Oriente, in quel tempo rappresentato dall'Egitto, dalle potenze mesopotamiche, e dal popolo ebraico.
L'Oriente era allora — etnicamente — in prevalenza semita e camita; sarebbe poi stato ariano con Hurriti e Kassiti, con Medi e Persiani, e di nuovo semita con Cartagine e con gli Arabi; avrebbe poi cavalcato con le orde unne e mongole, corso il Mediterraneo con le galere barbaresche, e penetrato a fondo i Balcani coi Turchi Ottomani, per tornare più recentemente a farsi ariano con gli slavi di Russia.
Ma l'alternarsi delle schiatte e degli imperi contro i confini orientali d'Europa non modificò mai il livello di tensione, né lo stato di sostanziale inconciliabilità dei due mondi.
Attraverso le battaglie di Maratona, del Granico, di Canne e di Zama, di Azio, dei Campi Catalaunici, di Poitiers, di Lepanto, di Vienna, di Poltava, della Beresina, dei Laghi Masuri, la battaglia di Kadesh del 1296 a.C. è legata a quella di Stalingrado dal filo rosso di una inesorabile continuità storica.
Gli Ittiti contro Egitto e Babilonia, i Filistei in Palestina, gli Spartani alle Termopili, Scipione a Zama, i Paladini franchi sui Pirenei, Pisa, Genova e Venezia per tutte le distanze del Mediterraneo, i Crociati in Terra Santa, i nobili polacchi contro i Mongoli, i Cavalieri Teutonici in Prussia e Livonia, gli Ungheresi e i Croati nei Balcani, Napoleone e Hitler in Russia, erano l'Europa; e i loro nemici erano l'Oriente: orde, popoli, imperi, civiltà diversi e ostili che premevano, incalzavano, si avventavano da Est e da Sud sull'Europa, si ritraevano sconfitti, tornavano a premere.
Più e più volte — coi Persiani, con Annibale, con gli Arabi, coi figli di Gengis Khan, coi Turchi — l'Europa fu sul punto d'essere sommersa, stravolta, cancellata. Ogni volta si batté, reagì, attaccò, e riuscì a sopravvivere come centro motore della Storia, e cuore del mondo.
Ma allora il resto del mondo era tutto ad Oriente, poiché il «mondo» finiva sulle coste dell'Atlantico, fra l'estrema Thule e le Colonne d'Ercole; e l'Europa era, naturalmente, «l'Occidente».
Da due secoli però le cose sono cambiate; al di là dell'Atlantico, una nuova potenza è sorta, che ha slargato il mondo e duplicato il fronte. E da allora la minaccia per l'Europa non viene più solo da Oriente. La battaglia di Saratoga fra i rivoluzionari americani e le truppe d'Inghilterra, la firma della resa sudista ad Appomattox, il blocco della flotta spagnola dentro il porto di Santiago a Cuba, lo sbarco in Normandia nella Seconda Guerra Mondiale, sono i nodi più palesi di questo secondo filo rosso che lega fra loro la Dichiarazione d' Indipendenza del 1776 e l'accamparsi delle truppe di occupazione americane in Europa in questo dopoguerra: sono gli emblematici momenti apicali di questa recente e interminata lotta che oppone l'Europa al nuovo Occidente, e nella quale l'Europa, stretta contemporaneamente da Ovest e da Est, ha conosciuto finora solo sconfitte.
Avversata dall'Inghilterra — fino a ieri legata ad un Impero il cui baricentro era extraeuropeo, e da sempre stretta per affinità di sangue e di lingua all'Occidente — tradita dalla classe dirigente francese — ferma ancora in questo secolo all'Europa di Voltaire — privata dell'apporto dei Paesi scandinavi — che sembrano ormai usciti dalla Storia — l'Europa è stata vinta, frantumata, lottizzata; e vive oggi la più concreta minaccia di annientamento di tutta la sua storia millenaria.
Per lunghi millenni — certamente molti millenni prima' d'ogni testimonianza storica nota — i popoli europei seppero reggere il confronto con l'Oriente. Ma il nemico d'Occidente è più forte, più ricco, più perfido, più astuto.
L'Occidente e l'Oriente possono anche esser nemici, temersi e odiarsi. Ma finché l'Europa sarà viva, essi, per sentirsi al sicuro contro l'Europa, avranno bisogno l'uno dell'altro.
Finché l'Europa sopravvive, e cova in sé un minimo di potenzialità di ripresa, essi sanno di aver bisogno di una sotterranea intesa e di una strategia comune.
Fra i due, tuttavia, è l'Occidente che disegna la strategia, e che comanda la danza. È l'Occidente che, pur potendolo annientare — dopo Hiroshima, anche con le sole minacce — ha voluto invece che l'Oriente vivesse e crescesse; che, pur potendolo bloccare — nel ‘45, con la collaborazione offerta dagli stessi vinti — ha voluto invece che esso avanzasse sino al cuore dell'Europa: per giustificare così la «necessità» della propria presenza nell'altra metà del Continente, e, soprattutto, per non rischiare mai di trovarsi da solo ad affrontare un'Europa ancora capace di rinascita.

L'equivoco storico di un «Occidente» che accomuna l'America all'Europa, di «un Atlantico che unisce anziché dividere», è il marchingegno-chiave di tutto il processo di colonizzazione dell'Europa da parte degli Stati Uniti: la colonizzazione economica giustificata dalla dipendenza militare, la dipendenza militare dalla subordinazione politica, la subordinazione politica dal condizionamento culturale, il condizionamento culturale dalla soggezione psicologica.
Di fronte alla immane minaccia dell'Oriente sovietico, appesantita nel primo dopoguerra dalla mitizzata crescita della potenza cinese, era facile indurre gli Europei a credere in una comunanza di destini con l'Occidente.
Di fronte al più possente esercito del mondo accampato armi al piede nel cuore del continente, era facile indurre gli Europei a cercar rifugio nelle braccia degli Stati Uniti, e ad invocarne la presenza militare.
Di fronte alle professioni di amicizia dell'America, che dichiarava di essere scesa in campo soltanto per «liberare» l'Europa dal fascismo, era facile indurre gli Europei a credere in una restituzione piena della propria integrità, libertà e potenza, e a fantasticare di una «fratellanza» occidentale.
In verità, se di fratellanza dovesse trattarsi, i popoli dell'Est europeo ci sono — in termini biologici — assai più fratelli di quanto non siano, nel loro insieme, le varie genti che abitano oggi gli U.S.A.; e più ancora essi ci sono affini e vicini dal punto di vista culturale. Sotto la crosta superficiale della ideologia di regime, mai penetrata al di là della ufficialità e del conformismo di convenienza, vivono intatte le forze di una cultura, di una tradizione, di un costume comuni a tutti i popoli europei.
Nessun europeo, di fronte ad un portoricano di New York, ad un negro di Washington, ad un cinese di S. Francisco, ad un ebreo del New Jersey, ad uno yankee di Boston, può sentirli più affini o più vicini di un polacco, di un magiaro o di un rumeno; e neppure di un ucraino o di un russo bianco.
Nessun Sahara, nessun Himalaja, nessun Pacifico ci divide, ma solo una «cortina di ferro» che fu sì eretta da braccia sovietiche, ma su progetto occidentale.
Una cortina contro la quale più e più volte si consumò e si riaccese — nel sogno di un ritorno alla casa europea — il sacrificio eroico dei fratelli di Budapest e di Berlino, di Danzica e di Praga: vittime della turpe ipocrisia dell'Occidente, assai più e assai prima che della brutalità dell'Oriente.

Ma v'è un altro equivoco — che gioca come sottile strumento di trasformazione dell'Europa in provincia culturale americana — contro il quale è necessario gettare la luce chiarificatrice dell'analisi e della riflessione.
Dal primo dopoguerra ad oggi, attraverso processi di gradualità inavvertibile alternati ogni tanto a bruschi scossoni, tutte le società europee hanno conosciuto radicali trasformazioni di costume.
Da qualunque parte le si guardi, non v'è chi possa negarne gli aspetti degenerativi: la crisi della famiglia, le nevrosi di massa, l'immoralità dilagante, la diffusa insicurezza, la solitudine dei vecchi, lo sbandamento dei giovani, la crescita della criminalità, la nausea della pornografia, lo sconcio della prostituzione selvaggia, la piaga della corruzione, il flagello della droga.
Lo scempio nel campo dei costumi si appaia a quello nel campo del gusto e della cultura — dell'abbigliamento, del linguaggio, della letteratura, dell'architettura, dello spettacolo, della musica, delle arti figurative.
In sostanza, un vero e proprio collasso di civiltà.
Ora — a parte pochi degenerati — nessuno ha il coraggio di dichiararsi fautore di tutto questo. Anzi, quasi tutti formalmente lo deplorano.
E tuttavia, quasi tutti sostanzialmente lo accettano, o, quantomeno, lo subiscono. Perché?
È qui che entra in gioco l'equivoco.
Si accetta di subire tutto questo semplicemente perché si è convinti che si tratti dell'ineluttabile «portato» della industrializzazione, dell'avanzamento tecnologico, del crescente benessere. Lo si ritiene cioè l'inevitabile prezzo da pagare al prodigioso sviluppo scientifico ed economico di questo secolo, al quale nessuno, neppure volendolo, potrebbe rinunciare.
Ma questa idea è falsa.
Prima dell'ultimo conflitto mondiale, Paesi europei come la Germania, la Francia, la Cecoslovacchia, la Svizzera, la stessa Italia, erano all'avanguardia nella scienza, nella tecnica, nella organizzazione sociale: dalla chimica alle comunicazioni radio, dalla architettura alla legislazione assistenziale, dalle tecniche di propaganda politica alle costruzioni aeronavali, dagli sport di massa alla ricerca universitaria, l'Europa non aveva alcunché da invidiare all'America.
E tuttavia, mentre in America il costume era già da tempo contrassegnato dall'edonismo, dal lassismo sessuale, dal gangsterismo, dalla corruzione, dalla promiscuità, dalla tendenza alla massificazione, il costume europeo restava radicato nelle tradizioni: solida la famiglia, coltivata la cortesia, gelosamente protetta l'innocenza infantile, idealizzata la figura materna, rispettata quella paterna, venerata la saggezza dei vecchi, mitizzato il coraggio dei giovani. La pornografia era confinata nella clandestinità, la prostituzione veniva controllata, la criminalità era bassa, l'omosessualità disprezzata, la droga del tutto sconosciuta.
Per quanto il processo di industrializzazione fosse rapido, il fenomeno dell'inurbamento era graduale e contenuto, l'attaccamento alla terra si manteneva profondo, e le norme tradizionali di comportamento non venivano scosse; mentre i «modelli» sociali — dell'uomo, della donna, del contadino, dell'artigiano, dell'operaio, dell'artista, del borghese, del soldato — erano così netti, definiti e caratterizzanti da rendere impossibile ogni rischio di massificazione. Del resto anche oggi — come abbiamo altra volta rilevato — il Giappone, vero e proprio modello di sofisticazione tecnologica e di efficientismo produttivo, mantiene costumi fondati sulle antiche radici delle proprie tradizioni, pur avendo raggiunto un alto livello di diffuso benessere.
Che il benessere sia pericolosa fonte di degenerescenza civile è certamente vero, ma solo in quanto esso è oggi inteso come mito ingannevole, fuorviante, e immorale; ingannevole, perché dato per scontatamente irreversibile, mentre in realtà irreversibile non è e non può essere; fuorviante, perché posto come fine esistenziale unico e massimo, a danno di scopi e traguardi umanamente più alti e nobilitanti; immorale, perché orientato allo sfruttamento dissennato di non inesauribili risorse ambientali, il cui depauperamento verrà duramente pagato dalle prossime generazioni.
Non è invece vero che lo «sviluppo» porti necessariamente e spontaneamente con sé rivoluzioni di costume, e che il benessere in sé — se rettamente inteso — non sia compatibile con un ordine morale di tipo tradizionale.
La verità è che, dietro all'equivoco della interdipendenza «sviluppo-permissivismo», o «benessere-lassismo», viene contrabbandata la progressiva americanizzazione del costume europeo.
Non si tratta di generico e ineluttabile «modernismo», bensì di specifico e pianificato «americanismo».

Chi pensasse che il problema del costume è questione di breve momento, secondaria rispetto al problema più propriamente — più palesemente — politico, commetterebbe un errore capitale.
Un popolo non può avere mai vera libertà e vera indipendenza, se non ha una propria identità. E l'anima della identità nazionale di un popolo sta — insieme alle sue connotazioni etniche — nella specificità del suo costume.
Le grandi trasformazioni culturali imposte da un vertice di potere sono sempre destinate all'insuccesso: ne sono esempi, per limitarci alla storia contemporanea, i « forzati » tentativi di occidentalizzazione dell'Iran da parte dello Scià e quelli, brutali, di snaturamento dell'anima afghana da parte del regime di Karmal, di sradicamento del confucianesimo in Cina da parte delle Guardie Rosse di Mao, di ateizzazione delle popolazioni dell'Est europeo, dei Paesi baltici, dell'Ucraina, della stessa Russia.
Lo snaturamento di una civiltà è invece più facile quando passa attraverso le vie sottili della piccola gradualità — l'abbigliamento, il linguaggio, le mode musicali, l'architettura, i ruoli sessuali e generazionali — lasciando formalmente intatta la facciata dell'edificio sociale.
È da questo mortale tipo di degenerazione che bisogna guardarsi, tenendo ben presente che assai prima della volontà di indipendenza politica ed economica viene la volontà di gelosa custodia del nocciolo profondo ed essenziale della propria civiltà, che sta tutto nel costume.
Poggiando sul confucianesimo, la Cina si garantì oltre duemila anni di civile convivenza, di stabilità politica, di potenza e di libertà; e riscoprendo il confucianesimo, si appresta oggi ad una grande rinascita. Ma Confucio non dettò leggi, né schemi di strutture politiche, né riforme sociali o burocratiche: Confucio si limitò a definire le regole di comportamento individuale nei rapporti fra i sessi e le generazioni, dando veste letteraria o filosofica alla saggezza popolare.
Non a caso, il primo atto della strategia di «americanizzazione» del nostro costume fu l'abbandono-da parte della cultura ufficiale europea caudatariamente asservita a quella occidentale-di ogni citazione, di ogni richiamo, di ogni memoria dei nostri antichi proverbi popolari.
La saggezza popolare, i valori, le tradizioni, le memorie; la lingua parlata e scritta, le conquiste faticate e sublimi: le antiche strade consolari, i ponti, i canali, le viottole ombreggiate di lanici o di cipressi, i muretti a secco a sostenere le colture lungo i fianchi ripidi dei colli, dove da millenni germogliano l'orzo e la segale, e si radicano la vite e l'ulivo; i monumenti insigni, i castelli severi, le superbe cattedrali e le torri; ma anche i campi, i mercati, le botteghe artigiane; la cultura delle cattedre e le canzoni delle osterie, le officine e i musei, i giardini e gli orti; un mondo dove gli uomini sono uomini, le donne donne, i vecchi son vecchi e i ragazzi ragazzi, e dove i forti son forti e gli imbecilli, imbecilli. Ecco, tutto questo è la «nostra» civiltà, un patrimonio ineguagliabile di grandezza, di vitalità, di intelligenza che ci avvicina agli dei.
Ed è questa civiltà la «Patria» europea che uomini come noi non accettano di veder morire, il patrimonio essenziale che gli Europei hanno il dovere di trasmettere ai figli intatto, proteggendolo da quella mostruosa macchina di alienazione che è il costume della «civilizzazione» occidentale.

Fra l'Europa e l'Occidente la storia ha scavato un profondo fossato, che potrebbe essere colmato soltanto dal cadavere della civiltà europea. Se i popoli del Vecchio Mondo possiedono ancora sufficiente vitalità biologica, e istinto di conservazione civile, l'Europa può sopravvivere e tornare padrona del suo destino, bene in piedi sull'orlo del fossato.
Ma una cosa deve restare ben ferma e chiara: è sul terreno del costume-per un costume tradizionale europeo contro quello occidentale-che si combatte oggi la battaglia preliminare per la sopravvivenza e l'indipendenza d'Europa.
Dal costume alla cultura, dalla cultura alla consapevolezza ideologica, dalla consapevolezza ideologica alla volontà politica: è una inesorabile catena logica, in cui ognuno degli anelli presuppone il precedente.
Sergio Gozzoli

(1) La città si chiamava, in origine, Nuova Amsterdam.
(2) Ci si riferisce, naturalmente, al mondo europeo visto nell'insieme degli ultimi duecento anni: nei recenti decenni, infatti, l'influenza negativa dell'americanismo comincia anche qui a corrodere il senso della tradizione.
(3) «La nascita degli Stati Uniti d'America» di Alfredo Bonatesta - in l'Uomo libero n. 12.
(4) PALMER R.R., Storia del Mondo Moderno, della Cambridge University Press, vol. VIII, pag. 552; cfr. anche Alfredo Bonatesta, art. cit.
(5) Si tratta di un numero ristretto di famiglie-sempre le stesse da molte generazioni-che usano spesso, come un tempo fra case regnanti, stringere e consolidare i vincoli fra loro sposando i propri membri all'interno della propria «casta».
(6) Associazione di varie Chiese protestanti, che si occupa fra l'altro della raccolta di fondi a favore di gruppi rivoluzionari e organizzazioni di guerriglia nel Terzo Mondo. E strettamente collegata a Fondazioni sostenute e controllate dall'alta finanza americana.

 
   
 

RUSSIA, BALUARDO D'EUROPA

Il confronto/contrapposizione fra Russia ed Europa va visto sotto due aspetti diversi: (a) quello storico e geopolitico e (b) quello essenziale, che si ricollega al fatto che adesso come adesso il problema di fondo davanti al quale ci troviamo è quello della sopravvivenza della razza bianca.
Una contrapposizione, nel senso di antagonismo, fra Europa e Russia, dal punto di vista storico e geografico dovrebbe essere vista come qualcosa di falso, in quanto la Russia fa parte dell'Europa, territorialmente e razzialmente, tanto quanto qualsiasi altro paese del nostro continente: né si deve escludere la Siberia, che nella sua parte occidentale è popolata in grande maggioranza da genti europee. Quanto alla popolazione mongolide/asiatica della Siberia orientale, non vi si dovrebbe vedere un problema: si tratta sempre di genti razzialmente valide e non certo di bantù o papuasi - si può forse ipotizzare una futura 'Eurasia' che includesse il Giappone e la Mongolia.
La presenza dei tartari in Russia, durante il Medioevo - la cui influenza 'deeuropeizzante' è stata parecchio esagerata - sta probabilmente alla base di quell'idea di 'non-europeità' che la Russia ispirò a certe menti europee centrali e occidentali, anche acute: nella trappola della non-europeità della Russia caddero anche Oswald Spengler e il geopolitico Jordis von Lohausen, che poneva la Russia in 'Asia' e faceva finire l'Europa alla linea Königsberg-Odessa. Ben diverso fu l'apprezzamento di Otto von Bismarck, il più grande uomo di stato della seconda metà del secolo XIX: egli vagheggiava un asse Berlino-Mosca, che si sarebbe rivelato invincibile. A fare fallire questo piano, che per l'Europa sarebbe stata la salvazione, furono le tresche ebraiche che avevano per punto d'appoggio Londra e Nuova York; in combinazione con la presenza al trono di Germania di una figura mediocre e a quello di Russia di una che non valeva niente - Nicola II fu un altro Luigi XVI. Una personalità di ben altro calibro e che vedeva le cose chiare fu Grigorij Jefimovic Rasputin, che si oppose sempre alla guerra: non a caso la sua figura è stata demonizzata.
La prima guerra mondiale fu combattuta per liquidare quelle potenze che ancora mantenevano una certa autonomia davanti all'usurocrazia ebraica: Germania, Austria-Ungheria, Russia. I bolscevichi, prima della guerra del 1914-1918 e durante la medesima, furono finanziati da fonti ebraico-inglesi; e a carico dell'amministrazione dei finanziamenti stette quell'Alfred Milner che nel 1899-1902 era stato a carico dello spopolamento sistematico del Sud Africa bianco, dove sorsero i primi gulag della storia. C'è da credere che da quel particolare personaggio i bolscevichi abbiano ricevuto non solo denaro ma anche 'consigli'. Quanto alla Francia, dopo la disfatta del 1870 e l'istituzione della repubblica massonica sotto l'egida dell'ebreo genovese Gambetta, essa era diventata un satellite politico dell'Inghilterra.
Nel 1917 le forze ebraiche internazionali raggiunsero lo scopo di demolire la Russia, trasformandola nell'Unione Sovietica la quale, pure a singhiozzo e non sempre obbedendo loro esattamente, fu fatta strumento dei loro piani. L'Unione Sovietica si prestò prima all'aggressione contro l'ultimo stato europeo che ancora si oppose validamente all'ebraismo, il Reich tedesco, poi a inscenare la 'guerra fredda'. Quest'ultima permise ai soliti di arricchirsi a dismisura fabbricando e smerciando armi, che trovarono anche un grande mercato nel cosiddetto Terzo Mondo, che divenne subito un formicaio di di guerre civili e interetniche. Non a caso, durante la 'guerra fredda', la propaganda americana attaccava non tanto il bolscevismo in quanto tale, ma la Russia e il popolo russo, descritto come animalesco, e presentava il regime comunista come una continuazione naturale del regno degli zar. Anche le atrocità avvenute in Germania nel 1944-1945, commesse da alcuni reparti dell'esercito sovietico, furono 'commissionate' a Stalin dagli americani - cioé dagli ebrei - attraverso il loro 'rappresentante' Ilja Ehrenburg: né Stalin (ammesso che lo avesse voluto) avrebbe potuto sottrarsi al ricatto in quanto dipendeva dall'America per le sue forniture di guerra. (Comunque, fu sempre Stalin a rifiutare costantemente i bombardamenti su obiettivi civili e a proporre la riunificazione della Germania già nel 1948.) Quelle atrocità - purtroppo in buona parte reali -, vastamente pubblicizzate, servirono poi a occultare quelle degli occidentali (bombardamenti indiscriminati su popolazioni civili, oltre un milione di prigionieri tedeschi lasciati morire di fame da Eisenhower e De Gaulle dopo la fine delle ostilità; se i sovietici violentarono il 3,7% delle donne tedesche, gli occidentali ne violentarono il 2,7%.) e a preparare il terreno per inscenare la guerra fredda, già prevista prima della fine delle ostilità contro le potenze dell'Asse.
Fatte queste doverose precisazioni storiche, si può ben passare alla discussione di quella che costituisce la vera e fondamentale questione esistenziale dei nostri tempi: la sopravvivenza della razza bianca - un fatto che, verosimilmente, verrà deciso entro, al massimo, il secolo XXI. E, in riguardo, dall'America non è il caso di aspettarsi alcunché di positivo e invece tantissimo di negativo. (Qui vale l'appunto che quando si parla di America si intende parlare anche dell'Inghilterra che, ormai da almeno il 1940, non è niente altro che il suo prolungamento e testa di ponte davanti alle coste dell'Europa. Non solo: chiamare 'anglosassoni' gli abitanti dell'isola inglese e i loro effluvi è un po' come chiamare 'longobardi' gli abitanti della pianura padana o 'visigoti' quelli della penisola iberica.)
Indipendentemente dal fatto che l'America è essa stessa, alla maggior parte degli effetti pratici, un paese di colore, il suo orientamento politico, pilotato da una classe dirigente calvinista asservita al grande capitale ebraico, è indirizzato all'annientamento razziale dell'Europa. L'invasione dell'Europa, soprattutto occidentale, da parte di turbe islamiche di colore è in buona parte finanziata dall'Arabia Saudita, uno stato protetto dall'America che porta avanti i suoi piani di islamizzazione con il beneplacito della medesima - e l'Arabia Saudita lavora in combutta con il Marocco: essa rende disponibili i capitali, il Marocco le masse umane di colore, miserabili e fanatizzate, che all'islam fanno da 'fronte d'urto'. L'America è il garante della situazione politica internazionale odierna, che se si dovesse prolungare tale e quale ancora per qualche decennio porterebbe necessariamente all'obliterazione della razza bianca. Quindi il destino della nostra razza è legato a quello dell'America, in modo negativo - prima collasserà la superpotenza americana e prima si potrà intravvedere un bagliore di speranza per la razza bianca, cioé per noi europei. L'America, per quanto 'bianca' (ancora per qualche tempo) è spiritualmente ebraico-negroide. Adesso, la potenza dell'America (a parte la ragnatela di complicità mantenuta in funzione soprattutto dalle comunità ebraiche) sta esclusivamente nella minaccia di usare contro i suoi nemici l'ordigno nucleare. Anche se c'é evidenza che l'arsenale nucleare americano valga molto meno di quanto i suoi possessori dichiarino - forse un 20% - esso è ancora sufficiente per causare ingenti danni.
Ne consegue che, nei nostri tempi, l'unica via di salvezza possibile per noi come bianchi e come europei è quello di opporsi all'America con ogni mezzo - e non certo come lo fanno le sinistre, con il loro antiamericanismo straccione di facciata, ma che vedono e hanno sempre visto l'America come esempio e come 'terra promessa' (Lenin doveva fare dell'Unione Sovietica una 'grande America'). E in questo momento c'è una sola potenza europea in grado di fare fronte all'America: la Russia che, ridivenuta sé stessa dopo l'implosione dell'Unione Sovietica, continuò comunque a essere una grande potenza con la fortuna di essere governata da un uomo come Vladimir Putin, sicuramente uno dei due unici veri uomini di stato che siano stati espressi dalla razza bianca dopo la guerra del 1939-1945 (l'altro essendo stato il sudafricano Hendrik Verwoerd negli anni Sessanta).
La Russia ha molti vantaggi intrinseci rispetto all'America: la sua estensione, la sua ricchezza e, soprattutto, la sua popolazione europea. Se l'America, nel passato, poté avere uno sviluppo tecnologico ragguardevole, fu perché usufruì per oltre due secoli di un'immigrazione europea di ottima qualità, soprattutto tedesca. La Russia fondò la sua tecnologia usando soltante le sue proprie forze intellettuali autoctone (salvo forse nei tempi dell'immediato dopoguerra), che si dimostrarono sempre di prima qualità - non a caso, nell'ormai lontano 1914, la Russia aveva la migliore aviazione allora disponibile.
Non è certo esagerato affermare che in questi nostri difficili tempi la Russia si prospetta come l'ultimo baluardo della razza bianca verso la quale, anche per il fatto di sfidare l'America, essa dimostra di avere una coscienza di responsabilità.
SILVANO LORENZONI

 
   
 
ORIZZONTI DEL NAZIONALISMO ETNICO

RECENSIONE DI MICHELE FABBRI
Il tempo anticristico della globalizzazione impone un’assunzione di responsabilità dalla quale le coscienze libere non possono esimersi. Per affrontare questa sfida epocale è necessaria un’adeguata preparazione culturale, e un testo fondamentale al quale si deve fare riferimento è: Orizzonti del Nazionalismo Etnico di Federico Prati, Silvano Lorenzoni, Flavio Grisolia e Harm Wulf. Questo libro si può considerare come una vera e propria Bibbia per la formazione culturale di chi milita in movimenti politici identitari e di chi si impegna nella diffusione della cultura antagonista. L’inizio del XXI° secolo segna la fase finale della sovversione egualitaria cominciata con la Rivoluzione Francese. Dopo i rivolgimenti immani che la storia ha conosciuto negli ultimi due secoli, si definisce una nuova forma di governo planetaria nella quale il capitalismo e il comunismo mostrano la loro intima affinità e la loro sostanziale comunanza d’intenti: le due ideologie demoniache partorite dall’illuminismo sono unite in una satanica alleanza volta all’annientamento delle identità nazionali e regionali che si oppongono alla dittatura del libero mercato. In questa fase cruciale della storia è più che mai necessario acquisire una sicura coscienza identitaria, altrimenti le comunità etniche saranno travolte dalla globalizzazione, un fenomeno che ricostruisce, in forma aggiornata, il collettivismo dei regimi giudaico-comunisti. Gli autori del libro in questione esaminano la genesi e la storia delle teorie etnonazionaliste, che nascono nel XIX° secolo e si diffondono soprattutto in Germania dove conoscono fortuna crescente mano a mano che il capitalismo industriale cancella l’economia tradizionale fondata sull’agricoltura. Il senso di spaesamento prodotto dalla moderna società di massa generava una profonda insoddisfazione in buona parte della classe intellettuale, che cominciava ad elaborare la teoria della comunità etnica, unita dai vincoli di Sangue, come antidoto ai paradigmi assurdi della modernità. Rifacendosi a questa concezione del mondo, gli autori prospettano quelle che devono essere le linee guida degli etnonazionalisti: il federalismo etnico, l’avversione per l’universalismo, il rigetto della società multirazziale, la relativizzazione della democrazia che necessita di forti correttivi etnici. Per gli etnonazionalisti il popolo è concepito come una comunità razziale cosciente di sé e dei suoi doveri, mentre le ideologie moderne, propugnando l’idea di un egualitarismo astratto e universale, creano una società di irresponsabili i quali, privi di un fondamento culturale comune, danno luogo a una massa ingovernabile e incapace di costruire i presupposti minimi di una civiltà.
Di particolare interesse sono le pagine che illustrano i diritti per i quali gli etnonazionalisti sono chiamati a lottare: il diritto all’identità, il diritto all’autodeterminazione, il diritto alla preferenza nazionale, il diritto di disporre del proprio prodotto finanziario, il diritto alla protezione del proprio mercato. In particolare è importante che le risorse naturali e i mezzi di produzione siano sotto il controllo etnico, e quindi un sistema politico fondato su principi identitari deve etnonazionalizzare le fonti di energia. Questi diritti vengono negati, e talvolta vietati per legge, nei sistemi sedicenti democratici, abilmente pilotati dalle oligarchie ebraico-massoniche che traghettano l’umanità verso la globalizzazione. Per battere la globalizzazione occorre dunque dar luogo a un processo di maturazione dell’opinione pubblica che deve riappropriarsi della coscienza identitaria che le è stata espropriata dalla modernità.
Come tutti sanno l’arma finale dei globalizzatori è l’immigrazione selvaggia, che sta travolgendo le strutture sociali europee. L’invasione allogena, architettata dalla sovversione massonica, è stata possibile grazie all’interessata complicità di partiti, sindacati e Chiesa Cattolica: questa classe dirigente che risponde soltanto a squallidi interessi di bottega ha ipotecato il futuro dei giovani d’Europa preparando le condizioni per un’esplosione di violenza inimmaginabile. Si pensi solo che oggi l’80% dei detenuti è di origine extracomunitaria: un carcerato costa alla comunità quanto un posto letto in ospedale, e l’unico rimedio che gli oligarchi democratici riescono a immaginare è di mettere i criminali in libertà ! Nella sanità, inoltre, la situazione è ormai al limite del collasso: i reparti di pronto soccorso sono letteralmente intasati da immigrati clandestini, e il 50% dei ricoveri per malattie infettive è costituito da elementi allogeni. Di fronte a questa situazione disastrosa la propaganda massonica ripete ossessivamente la favola degli extracomunitari che pagano le tasse, pagano la pensione, e contribuiscono al benessere nazionale. In realtà gli extracomunitari regolari sono un’esigua minoranza, e la maggior parte degli elementi allogeni vive di criminalità, come ogni cittadino può sperimentare sulla propria pelle. Nella fase attuale la classe dirigente democratica riesce ancora a stare a galla, con un colpo al cerchio e uno alla botte, ma c’è da chiedersi che cosa succederà quando la situazione andrà completamente fuori controllo !
È essenziale, quindi, che le comunità etniche approntino gli strumenti culturali e istituzionali per riprendere in mano il loro destino. Per quanto la situazione possa apparire difficile, non si deve cadere nell’errore di ritenerla immodificabile, infatti l’economia del mondo occidentale è tutta costruita sui concetti di usura e di speculazione ed è quindi eminentemente parassitaria: se gli sfruttati saranno ulteriormente infastiditi dal pungolo della sanguisuga potranno finalmente decidere di ribellarsi, e questo potrà avvenire a seguito delle immani catastrofi ambientali e umane che l’avvenire ci riserva. I sistemi politici ispirati a criteri di socialismo nazionale hanno dimostrato di essere i più idonei a garantire un’equa distribuzione della ricchezza, ma proprio per questo gli oligarchi democratici reagiscono in maniera rabbiosa quando i popoli si stringono attorno ai loro valori identitari. Per questo i processi di cambiamento che ci attendono saranno certamente traumatici, ma possono davvero rappresentare la fine definitiva della modernità ideologica se i movimenti identitari riusciranno ad attuare efficaci strategie per la conquista del potere.

 
   
 

America, Europa. Una lunga, insanabile guerra di religione

Di Sergio Gozzoli  -  Numero 50 del 01/10/2000
Mondialismo e globalizzazione - USA e Israele - L'America: una società multietnica, multiculturale, multiconfessionale, a nucleo centrale calvinista - L'Europa: gli antichi dèi greci, italici, barbarici - La storia degli indoeuropei - La croce sulla spada - I movimenti fascisti.
Chi osservi oggi la realtà politica mondiale si vede inesorabilmente offrire, preponderante e dominante su tutti gli altri, lo spettacolo del mondialismo omologatore.
Molti paesi di rilievo, di grande storia e di forte prestigio, hanno perso sovranità. È compressa, in qualche caso in modo assoluto, la capacità dei popoli di darsi le forme politiche che vogliono e scegliersi le alleanze che credono. Si smorzano i legami con le tradizioni, si sfilacciano le radici nella propria storia, si intorbidano e si disfanno nei grandi eventi migratori le identità nazionali, si assottigliano e si smembrano le famiglie, cade la natalità in concorso con l'aborto legale, si snatura la lingua infiltrata di termini inglesi, degenerano i costumi col suicidio della dignità virile, con la morte della femminilità, con lo spengersi del rispetto pei vecchi, con le ferite all'innocenza infantile. Spariscono gradualmente i dialetti, e si uniformano i gusti alimentari. Tutto - ma realmente tutto - dalla cultura scolastica all'abbigliamento, all'uso delle bevande, si americanizza.

Ma di dove nasce, il processo di mondializzazione?
Tutto muove, in sostanza, da una iniziativa politica: i vertici americani - sospinti dalla grande finanza. bancaria che li plasma e li controlla - mirano ad assoggettare il maggior numero di Paesi alle esigenze dei propri interessi. È un lungo processo, iniziatosi secoli fa tra i banchieri cosmopoliti intorno agli interessi britannici, ma consolidatosi poi in Nordamerica dopo la prima guerra mondiale, che tende oggi a creare una forza di pressione planetaria, giuridica e morale, sulle stesse problematiche interne dei vari Stati del mondo. Di tutti gli Stati, con due eccezioni fondamentali: gli USA e Israele. Chi può ritenere oggi che i confini di Israele, e la sua stessa struttura sociale, possano in qualche misura ricordare quelli italiani, o olandesi, o francesi, o tedeschi?
Perché non provano oggi i curdi, o gli albanesi, o i magrebini, a sbarcar da nave o da gommone sulle spiagge di Israele? Verrebbero affondati, profughi a bordo, a migliaia di metri dalla costa. Il buonismo non attecchisce, nei due Paesi liberi e sovrani. Il resto del mondo, comunque, si sta americanizzando: se non sempre in termini politici, quantomeno in termini di costume e di comportamenti. Ma come può essere, per i Nordamericani, tanto facile esportare nel mondo la propria cultura e il proprio costume? Esiste in America una United States Information Agency (U.S.I.A.) che tiene sparsi per il mondo cinquantamila funzionari - con un bilancio annuo di miliardi di dollari - allo scopo ufficiale di «influenzare le opinioni e le attitudini del pubblico estero in modo da favorire le politiche degli Stati Uniti d'America». Ed esiste ancora, in America, una grande macchina di produzione cinematografica, ispirata e gestita da produttori prevalentemente ebrei, che ha da sempre il compito di dilatare nel mondo l'immagine del «miracolo americano». Se nelle nostre reti radiofoniche o sui nostri canali televisivi ci vengono quotidianamente imposte musiche americane, e nelle nostre sale cinematografiche dominano pellicole americane, quali rapporti sussistono fra i bilanci dell'U.S.I.A. e i responsabili delle scelte italiane? Quali sono in Italia i responsabili - pubblici e privati - di queste decisioni? Si tratta talvolta di film inconsistenti, carichi di istigazioni al disordine familiare o a comportamenti abnormi, che vengono con facilità esaltati dalla critica italiana. E la scelta sempre più frequente, in campo medico - sia scientifico che pratico - di termini e sigle anglossassoni, quanto è connessa a questo fenomeno? È del resto una linea che fu esplicitamente enunciata dal Presidente Roosevelt: «Americanizzare il mondo è il nostro destino». Così gli USA, che dalla loro nascita hanno scatenato oltre duecento conflitti, che dall'Europa all'Asia hanno coperto di bombe centinaia di Paesi senza mai riceverne una come risposta, che sono i tutori indifferenti della pena di morte, che hanno praticato l'unico vero genocidio degli ultimi duemila anni - quello dei Pellerossa - che hanno seminato l'intero mondo di rivolte militari, sommovimenti di piazza, congiure di palazzo, sono riusciti, grazie alla loro U.S.I.A. e alla campagna ipocrita del loro cinema, a crearsi presso centinaia di popoli un'immagine esattamente opposta a quella reale: essi sarebbero la società che ambisce la pace, che venera la libertà, che adora la giustizia nel mondo. È irrilevante che decine di milioni di cittadini americani vivano senza una casa, che non più del 25-27% dei votanti esercitino il proprio diritto, che il 50% della smisurata ricchezza nazionale sia controllata da un solo 5% dei cittadini, mentre l'altra metà è mal distribuita nel restante 95%; così com'è irrilevante l'alto numero di aggressioni militari condotte per mero interesse economico o di potere contro Paesi senza difesa, e che la cultura americana di fondo spinga l'affamato, il misero, il vinto ad accusare sempre se stesso come colpevole unico, lasciando ogni volta riscattata, integra e nobile la società del Dollaro onnipotente. Questa è la realtà sociale e culturale americana, con tutte le sue possibili influenze indirette sulla situazione politica mondiale, che l'America egemonizza con la propria smisurata superiorità finanziaria, aeronavale e nucleare. Una egemonia che le classi dirigenti dei Paesi europei - piegati insieme al Giappone da oltre mezzo secolo di occupazione militare americana - tollerano con benevolenza, o addirittura assumono come componente del proprio programma politico di fondo, contro il fondamentale interesse presente e futuro dei popoli che essi governano. Eppure, oggi che il mondialismo ha lanciato la grande campagna planetaria della globalizzazione - che significa tutto il potere alle multinazionali e quindi alle grandi banche che le controllano attraverso le azioni e i giochi di Borsa - i popoli hanno ricominciato, partendo proprio dagli Stati Uniti, a risollevare la testa. Mentre all'inizio, e da decenni, era la cosiddetta destra estrema a denunciare ai popoli prima l'oscuro disegno e infine l'arrogante enunciazione del programma mondialista, oggi, a protestare contro la globalizzazione è soprattutto una sinistra verde ed ecologista insieme alla sinistra estrema, che in diversi Paesi del mondo sono scese clamorosamente in piazza. Al contrario, la sinistra ufficiale, che significa in questi anni i Governi dei maggiori Paesi europei, ha scelto contro la sua eterna tradizione - tradendo quindi con vergogna la propria intera storia - di farsi la più ardente zelatrice di tutti gli interessi americani, dal mondialismo alla globalizzazione, da Israele alla NATO, dall'anti-islamismo allo strangolamento di Saddam, dalla rinuncia alle sovranità nazionali all'abbandono dell'Africa, fino alla politica delle immigrazioni. E tuttavia le due diverse forme di opposizione, anche se l'antagonismo alla globalizzazione è comune, non hanno alcuna capacità sostanziale di intendersi - soprattutto per la persistente anima di antifascismo che per consuetudine nutre la sinistra radicale internazionalista, su gran parte della quale esercita una pesante ipoteca psicologica lo spirito filogiudaica. Ma al di là delle posizioni di intellettuali e militanti in diversi Paesi del mondo, al di là dei fermi contrasti dichiarati di molte delle maggiori Chiese - per prima la cattolica - al di là delle larghe opposizioni popolari in tutto il grande Islam, si frappone ancora, dai farneticanti progetti americani e sionisti alla loro pratica realizzazione sul pianeta, un ostacolo profondo e insormontabile: la naturale, abissale diffidenza di civiltà fra l'America e l'Europa. L'America (te] Nord prese esistenza e forma sostanziale per opera di coloni britannici - sconfitti in Patria da forze monarchiche e anglicane - che lasciarono le proprie terre col loro credo calvinista: in parte esuli, in parte proscritti. Tutte le sette calviniste - puritani, quaccheri, presbiteriani, ugonotti, riformati olandesi, valdesi - non ostentano, nei confronti del denaro, l'atteggiamento tipico delle altre Chiese cristiane, dalla cattolica alla luterana all'anglicana all'ortodossa: la diffidenza istintiva per l'amore della moneta e la condanna totale e sprezzante del fenomeno dell'usura. Chiunque sia cresciuto - credente o meno - nell'ambito di una cultura cristiana, tende a considerare il successo economico come appartenente ad un mondo inferiore rispetto a quello più nobile delle conquiste dello spirito, e giudica sempre in qualche misura peccaminoso il guadagno ottenuto attraverso l'usura. Usuraio, in tutte le nostre lingue, non è un epiteto rassicurante. A differenza dunque di tutti gli altri cristiani, il calvinista crede che l'uomo sia predestinato alla salvezza o alla dannazione eterne da una scelta che Iddio conosce. Una scelta della quale Egli dà giustificazione in vita all'eletto garantendogli il successo economico, comunque esso sia stato conseguito: di qui, la più compiuta approvazione per il guadagno ottenuto secondo la pratica dell'usura. È infatti dopo la Riforma, che alle antichissime famiglie presta-denari costituite in gran parte da ebrei si associano le prime banche fondate da calvinisti olandesi, svizzeri, francesi, inglesi. Al povero, la miseria conferma la sua perdizione perpetua, e ai suoi peccati non è concesso il perdono: è questo il nucleo fondamentale della cultura e quindi della psicologia americana, che non ha mai offerto il destro, nei secoli, alle masse dei meschini la capacità di pretendere un minimo di sicurezza e di giustizia sociale nella terra più ricca del mondo. È una nuova realtà culturale che nasce nei secoli fra il 1500 e il 1800 - col calvinismo, col capitalismo bancario, col razionalismo filosofico, con la Massoneria, con la rivoluzione borghese laica e antisacrale, con la democrazia formale - che genera la mentalità americana centrata sull'immagine individualista dell'uomo che cerca da sé la verità, in un rapporto diretto e personale con Dio - un uomo nemico di ogni antica tradizione, di ogni socialità, di ogni gerarchia che non sia fondata sul denaro. È un mondo senza un passato, che non riconosce né Terra né Comunità come fonti del proprio destino. Decine di popoli diversi giunsero negli Stati Uniti a piccoli gruppi separati e in tempi diversi, ognuno con le sue connotazioni, col suo Dio, con la sua identità biologica, a costituire insieme la più complessa entità multietnica del mondo: europei occidentali, scandinavi, mediterranei, slavi, ebrei, levantini, asiatici, negri, ispanici, con le loro particolari consuetudini, con la loro cucina, con le loro inclinazioni, a convivere nella stessa città, nello stesso quartiere, nella stessa strada. Sovrapposizioni razziali e nazionali, culturali e sociali che alimentano odi non spenti e tragiche tensioni a vibrare nel corpo di una società che non ha un Dio perché ne tollera troppi, che vede scaduta la famiglia in tutti i gruppi razziali, che non riconosce diritti reali a chi non ha dollari in tasca, che non possiede una cultura se non nella macchina di mistificazioni del cinematografo, che dall'aborto alla pena di morte ai blocchi aereonavali di interi Paesi pratica la violenza più cinica. È una realtà che nasce con la rivolta anti-britannica, innescata ed esplosa sotto la protezione delle reti massoniche. Sono infatti massonici i simboli della nuova Unione di stati, come sono massonici i simboli e le scritte sulla loro nuova moneta. Dietro i rivoltosi stanno la crescente, ricca borghesia americana e francese, gli enciclopedisti di Francia, Voltaire e Rousseau, le società di Libero Pensiero, la montante marea dell'Illuminismo che si estende nel mondo e domina alcune Corti europee. Queste realtà, per quanto vincenti e rigogliose, subivano però in Europa l'urto delle forze tradizionali, popolari e nazionali - che entro pochi anni avrebbero prodotto la Vandea, le rivolte contadine tirolesi, venete, toscane e romagnole, i Lazzaroni del Sud, la guerriglia spagnola - contribuendo così ad alimentare e gonfiare il già preponderante revanscismo anti-europeo dei ribelli repubblicani e massoni d'America. Questo revanscismo anti-europeo ebbe la sua prima vittima nella Confederazione del Sud, prevalentemente anglicana e in parte cattolica - in quel conflitto che Gianantonio Valli chiama la Prima Guerra laica di religione - che per il mondo WASP (1) americano era troppo europea per essere tollerata nel Nuovo Mondo. In Europa intanto, sempre protetta dalla Massoneria illuminista e dalle banche internazionali, alla vincente rivoluzione americana seguì quella francese. Ma dopo i trionfi di Napoleone, commesso viaggiatore della rivoluzione ma nel segno di una restaurazione monarchica, le armate nazionali austro-ungariche, prussiane, russe, inglesi, stroncarono l'ascesa politica della rivoluzione borghese nel nostro continente. E insieme all'aspetto politico della rivoluzione, venivano sostanzialmente sconfitti il calvinismo, il razionalismo filosofico, la Massoneria illuminista. Tutte queste forze, vinte dalle risorse profonde dell'antica civiltà europea - tradizionalista, comunitaria, gerarchica - per poter coltivare ancora il sogno di conquistare l'Europa e il mondo, non ebbero altra scelta che quella di raccogliersi in America. Qui, l'assenza di un terreno storico-ereditario, la prodigiosa ricchezza della terra, l'incapacità di difesa delle popolazioni autoctone favorirono la rapida crescita di una grassa società borghese fondata su quei valori che l'Europa aveva appena respinto. Così il razionalismo filosofico, l'individualismo esasperato, l'usura bancaria, la demoplutocrazia, la rivoluzione del costume trovarono in Nordamerica la loro roccaforte naturale, base di riorganizzazione e di rivincita degli sconfitti d'Europa. Dal 1776, anno della loro nascita, gli Stati Uniti d'America hanno offerto al mondo la strapotente carica della propria vitalità economica e militare invadendo il Pacifico fino alle Marianne e alle Filippine, cancellando dalla terra le tribù pellerossa, dominando il Centroamerica fino a Panama e cacciandone la Spagna, presentandosi col proprio esercito in Europa nel corso delle due Guerre Mondiali - e la seconda volta occupandola, al pari del Giappone, con forze tuttora presenti dopo oltre mezzo secolo - ed egemonizzando il pianeta con la propria potenza nucleare e finanziaria. Ma in termini di contributo alla civiltà del mondo, che cosa ci hanno dato? Ci hanno certo trasmesso gli esempi del loro costume: edonismo, lassismo sessuale, femminismo, promiscuità, gangsterismo, corruzione, violenza estrema, droga, prepotenza, cinismo, ipocrisia - la vita intesa come rincorsa individuale al proprio benessere fisico e sociale nella comunità opulenta dei pochi. È un mondo senza nobili e senza popolani, quindi senza regole e senza rispetto. Un mondo che ci ha imposto le proprie mode: le sue musiche, le sue danze, le sue rumorose feste dalle luci smargiasse, i suoi grattacieli, la sua rincorsa alla produzione e al consumo, il suo cinematografo nato e controllato dagli ebrei, le sue carte di credito. E le sue banche, nuove cattedrali senza Dio, insieme alle sue carceri, nuove università per la perpetuazione del suo costume giovanile. Ma in termini culturali, chi ha prodotto l'America che possa ricordare agli uomini Omero, i grandi filosofi greci, Tucidide, Virgilio, Tommaso d'Aquino, Dante, Machiavelli, Leonardo, Michelangelo, Vico, Shakespeare, Goethe, Voltaire, Wagner, Nietzsche, D'Annunzio, Gentile? E chi non fu importato dall'Europa, dei suoi uomini di scienza? L'unico grande - sicuramente il sommo poeta del secolo, Ezra Pound - nacque certo negli USA, ma li abbandonò ancora giovane. Egli fece dell'Europa la sua Patria, scegliendo infine di vivere in Italia. Fu fascista convinto - piaccia o non piaccia ai «revisionisti» democratici delle genialità del fascismo, che tentano di ridurre la pienezza della loro adesione ideale - e venne imprigionato dagli Americani dopo il crollo della R.S.I.: chiuso in una gabbia in mezzo ai propri escrementi venne tenuto a Coltano, e poi trascinato in America, dove senza diagnosi né condanna giuridica fu buttato in un manicomio criminale. Quando ne uscì dopo tredici anni, tornò in Italia, e pubblicò i suoi Cantos con un commosso ricordo alla grandezza di H. ed M. - Hitler e Mussolini - gli unici nel mondo ad aver fatto qualcosa contro l'Usura - che egli chiamava proprio così, USURA. E in Italia morì, per esservi sepolto, dopo una splendida intervista a Pasolini nella quale non pronunciò una parola contro le posizioni politiche della sua vita. Morì da fascista - da fascista «di sinistra», come dichiarò dopo il manifesto di Verona della R.S.I. E morì senza pentirsi, come Hamsun e come Mosley, come D'Annunzio e Marinetti, come Primo Antonio De Rivera e Brasillach, come Gentile e Cèline. E scelse di morire da europeo, giacché a questa civiltà egli apparteneva per intero e con tutte le sue fibre fisiche e morali.
Ezra Pound, nemico mortale di Usura, sarebbe stato nemico naturale del mondialismo e della globalizzazione. Che è poi la stessissima cosa. Quando e come nacque, invece, la civiltà europea? Nel corso dei millenni precedenti l'antichità classica - con l'apogèo della Grecia, col rapido fulgore di Alessandro, con la grandezza romana - i popoli indoeuropei cominciarono a crescere e a muoversi dalla loro sede originaria - da qualche parte, là, fra l'Europa e l'Asia-con un movimento migratorio che li condusse, barbari ancora ma dominatori, verso tutte le distanze del mondo. Alcuni si confusero coi mongoli, generando gruppi di incrocio - le popolazioni uraloaltaiche e quelle turche - altri giunsero fino al grande Nord, alla Scandinavia, altri ancora arrivarono all'India, all'Afghanistan, all'altopiano iranico. Ma i più mossero verso l'Europa. Nei popoli che giunsero al Nord, dove la pelle chiara assorbiva meglio i raggi ultravioletti e quindi garantiva uno scheletro più alto e più forte, le lunghe generazioni senza casa e con scarsi indumenti nel freddo fecero prevalere i biondi con gli occhi chiari: i bruni morivano bimbi, o crescevano rachitici senza raggiungere l'età per procreare. Al contrario, in quelli che vissero per lunghe generazioni al Sud, i ragazzi di pelle scura e occhi bruni reggevano meglio il sole e il caldo nella loro vita da nomadi, e generarono molti più figli dei biondi o dei rossi di pelle bianca. Nei popoli che scelsero un percorso di mezzo, prevalsero nei millenni caratteri intermedi o misti. Questo naturalmente finché non cessarono di essere nomadi cacciatori, e la prima forma di civiltà come allevatori o agricoltori non garantì a tutti un tetto occasionale sopra la testa - oltre ai pasti fissi quasi tutti i giorni. Da allora, i caratteri genetici rimasero pressoché stabilizzati nel pool ereditario dei vari popoli, e la selezione naturale smise di operare sui loro caratteri fisici esterni. Ma le doti interiori di carattere, l'aggressività, la razionalità, l'amore d'avventura, la passione per le inquiete distese d'acqua e per le estreme distanze, così come la concezione eroica della vita, l'accettazione del tragico, il senso del sacro, il rispetto della dignità virile, la venerazione dell'età, la tutela dell'innocenza infantile, la dura difesa della propria libertà in una struttura sociale gerarchizzata, restavano essenziali e dominanti in ogni loro gruppo etnico. Primi nella storia furono gli Hittiti, che si insediarono fra Turchia e Medio Oriente dal 1900-1800 a.C. a scontrarsi con gli Hurriti, i Cassiti, i Babilonesi, gli Assiri, gli Egizi. Erano guerrieri, per i quali, come poi lungo i millenni per tutti gli altri popoli indoeuropei, l'amore fondamentale per la libertà degli uomini di rango generò Re primi inter pares fra i signori della guerra. All'inizio del 12° secolo, l'improvvisa calata dai Balcani dei cosiddetti «popoli del mare» - che investirono Grecia, Asia Minore, Egitto, Siria, e che lasciarono coi Filistei e coi Sardana il proprio nome alla Palestina e alla Sardegna - spense il termine hittita dalle pagine di storia. Rimangono solo nell'alta Siria, per qualche secolo, i cosiddetti neo-hittiti. Intanto, altre popolazioni indoeuropee avevano raggiunto la Grecia e le isole prospicienti l'Asia Minore: gli Achei e gli Ioni. Si sovrapposero e si confusero con le popolazioni mediterranee pre-arie, mantenendo la propria identità civile e politica che in parte trasmisero ad altri, ma subendone sostanzialmente la concezione religiosa. Era una concezione di tipo matriarcale, che dominava da sempre Medio Oriente e Mediterraneo, e che proveniva da società nelle quali la famiglia era inesistente: la comunità era costituita solo da donne coi propri figli, mentre gli uomini erano lontani per la caccia e l'incontro fra i due sessi era occasionale al loro ritorno. La Dea Madre - coi diversi nomi delle varie mitologie - è insieme regolatrice e capricciosa, e alla sua incerta volontà è affidato come in un gioco il destino dell'uomo, che non è mai soggetto libero nelle scelte contro il Cosmo e gli eventi, ma oggetto di istintive velleità imperscrutabili che salgono dal cuore della Terra. Gli Achei e gli Ioni erano guerrieri e navigatori: attraverso i popoli preindoeuropei del Mediterraneo assunsero l'eredità della civiltà minoica di Creta, e nelle rocche della loro nuova potenza posero le basi di una propria civiltà, quella micenea. Ma su di loro, misti in parte ad elementi illirici, calarono improvvisamente i Dori. Affini a Ioni e ad Achei, ricevettero anch'essi ben presto l'impronta della elevata cultura micenea. Ma la forza del loro mondo interiore non consentì cedimenti alla propria visione di vita, virile, naturalistica, realistica. È una concezione razionale e matura della realtà naturale, della quale l'uomo è parte integrante e nella quale egli accetta e sfida le tragiche scelte della Sorte. Accanto e sopra di lui vivono e agiscono gli dèi come alti compagni di viaggio. È un rifiuto delle divinità matriarcali, legate come la donna - la progenitrice più prossima alla terra - ad una visione notturna e tellurica. I loro dèi - come dice Valli - sono luminosi, risplendenti di razionalità superiore: Giove e Apollo dominano l'eterno, e Atena nasce non da donna, ma dal cervello di Giove. L'uomo li prega in piedi, con le mani aperte verso l'alto. È una visione che, nel complesso, appartiene a tutti i popoli indoeuropei, con le loro divinità che esprimono nelle varie forme dell'esistere gli interi valori del reale: l'intelligenza, la saggezza, la forza, la bellezza, la serenità, la guerra, l'eroismo, la giustizia, la libertà di fronte ad una forza suprema e impersonale che non ha volto - il Fato. A questa concezione risponde una visione diversificata della propria comunità umana, attraverso un'idea tripartita della società: gli uomini che pensano, quelli che combattono, quelli che producono. In tutte le loro civiltà, gli indoeuropei separano nella propria convivenza sociale un potere che pensa e decide, una forza che protegge e combatte, una realtà che produce e lavora. I re, gli arconti, i consoli, i dittatori militari, i capi dai quali dipendeva l'assetto del popolo e la conduzione delle guerre, erano sempre investiti di potere dalle aristocrazie - in genere guerriere, o religiose, o terriere - e possedevano un'autorità parziale e di durata limitata nel tempo. Il vero potere stava sempre nel senato, o in assemblee militari, o in congregazioni religiose, o, come poteva accadere nelle cosiddette «democrazie» greche, in una fascia ristretta di uomini liberi che escludeva la maggioranza dei cittadini. Per un lunghissimo arco di tempo - a Roma fino a Mario e a Silla - i nullatenenti, i capitecenses, non avevano il diritto di prestare servizio militare, che poteva allora significare quasi un'intera vita dedicata alle armi. Nelle virtù virili, l'audacia, la disciplina, la prestanza fisica, premesse di valore guerriero, stavano fra le predominanti: l'aretè omerica, la virtus latina del battersi nell'ordine, il saper dare e affrontare la morte per il proprio onore, per la fedeltà ad una gente, a una polis, a una Patria, a un Impero, erano le più alte conclusioni di una vita nobilmente intesa. L'indoeuropeo coltivava la terra, allevava il bestiame, apriva le strade, navigava per mare, fondava colonie, faceva la guerra. E non concepiva la vita se non nell'ambito della propria etnia. I greci vivevano in una piccola terra, parlavano la stessa lingua e adoravano gli stessi dèi: ma la distinzione fra Dori, Achei e Ioni, come fra le loro colonie, restò viva finché la Grecia mori. E quando i Macedoni, greci quanto loro, conquistarono con Alessandro il mondo di allora, essi furono sostanzialmente ostili. Sparta per ultima, morto Alessandro, tentò contro di loro di ricomporre in unità i greci del Peloponneso. Ma l'intervento macedone portò, per la prima volta nella storia, all'occupazione dell'orgogliosa città. E poco dopo furono invece gli Ètoli, che avendo battuti i Celti scesi fino all'Ellade erano saliti a potenza egemone, a chiamare i romani in terra greca. Fu la fine della Grecia. E fu anche la fine della Macedonia. Con la battaglia di Pidna, che chiudeva la Terza Guerra Macedonica, scomparve per sempre questa potenza del mondo. Lo stesso accadde per Roma. Potenza latina, combatté a lungo contro altri latini. Ma l'ostilità non fu mai radicale, come lo fu invece verso gli etruschi o verso gli oscosabellici. Roma cresceva, dominava la penisola, fondava qua e là colonie romane o latine. Molti popoli - gli etruschi, gli umbri, i piceni - furono fedeli a Roma per secoli, anche nel corso di avversità estreme come quella di Annibale alle porte della Città. Ma i diritti civili latini, cercati nella pace e con la guerra, non furono concessi ad alcun popolo alleato. Fu Silla a concederli agli Italici e Cesare ai Celti, dopo secoli d'attesa e durissime rivolte di soci fedeli, le cui donne potevano generare figli con un Romano, che restavano però del tutto illegittimi. Nel frattempo, durante il secondo millennio a.C., al di sopra dei Dori, muovevano verso la nostra penisola quei popoli indoeuropei che sarebbero più tardi stati detti italici: gli Umbri, gli Osci, i Sabelli, i Latini, che avrebbero poi generato i Piceni, i Sabini, i Marsi, i Volsci, i Sanniti, gli Irpini, i Bruzi, i Lucani e altri popoli ancora. A loro, staccandosi dai popoli illirici della Balcania Occidentale, si aggiunsero i Veneti e gli Istri al Nord e gli Japigi in Apulia attraverso l'Adriatico. In mezzo a tutti questi, venendo dalla Lidia per mare, giunsero i Tirreni - che chiamavano se stessi Rasna, e che i romani avrebbero definito Tusci o Etruschi-poco dopo l'inizio dell'ultimo millennio prima di Cristo. Non sappiamo per certo se fossero indoeuropei, e non ne possediamo a fondo la lingua, ma l'aspetto fisico non era diverso da quello degli altri abitanti della Penisola. In qualche secolo, dominati gli Umbri e fusisi coi preindoeuropei della zona, gli Etruschi, estendendo il proprio controllo sul Mar Tirreno, stabilirono un'area d'imperio che dominò la Toscana, l'Emilia, la Lombardia fino ai laghi, l'Alto Lazio e l'entroterra campano attorno a Napoli. Erano già certo nella Penisola primi e maestri di tutto: fondavano le loro città murate sulle cime dei colli secondo una regola particolare - un pomerio quadrato - portavano l'acqua dalla terra alle città elevate, inventarono primi nel mondo la volta ad arco, scaldavano le case facendovi correre l'acqua calda, e sotto e intorno alle città scavavano ampie fognature - alcune delle quali sono oggi ancora in funzione. Si riunivano fra loro per ragioni religiose, ma non trovarono mai - come del resto i Greci, i Celti, gli Illiri, i Germani - l'idea di una loro unità volontaria o forzata, neppure sotto la pressione di Roma che aggrediva le lucumonie etrusche una alla volta. Nella loro fase di ascesa, fondarono in Italia parecchie colonie. Una di queste fu Roma - Rumon in etrusco significava fiume - alla quale essi lasciarono il fascio littorio, la sedie curule, il Pontifex, 1'aruspicina - vale a dire l'interpretazione del volere degli dèi attraverso la valutazione e lo studio del fegato degli animali sacrificati. Una delle tribù della Roma originaria, i Lucèri, era certamente etrusca, mentre erano latini i Ramni, e i Tizi eran sabini. E per qualche secolo Roma, fino alla caduta dei Tarquini, fu città etrusca. Ma la lingua era latina, ed italici furon gli dèi: Juppiter, Marte, Quirino. Uno degli dèi di Roma, con un suo tempio in città, fu la Fortuna Virile. Un altro, Dio della guerra e della pace, fu Giano Bifronte. Tutta la storia di Roma, che non ebbe una sua mitologia, ma assorbì l'intelligenza latina nella edificazione del diritto e nella ricostruzione della propria vicenda dalle origini troiane, e trovò i suoi miti nella nobiltà morale dei propri cittadini (2) - da Romolo agli Orazi, a Muzio Scevola, ad Orazio Coclite, a Tito Manlio Imperioso (3) - si svolse e crebbe coerente ad una pietas profonda nei confronti delle proprie divinità, che gli stessi consoli o duci interpellavano prima delle battaglie. Fu una religione che durò, stabile e ferma, per parecchi secoli, e che si spense gradualmente quando Roma, dominando l'ecumene di allora, si fece padrona dell'Oriente, così che la sua visione del mondo e di sé subì l'influenza di un pensiero non indoeuropeo. Era successo anche ai Greci, quando il genio di Alessandro portò la grecità ad Est fino a penetrare nell'India ed suoi nuovi sudditi lo acclamarono dio-Re. Così l'Ellade morì, e nacque l'Ellenismo attraverso i diadochi suoi discendenti, e gli epigoni dopo di loro. Ma al mondo greco era accaduto anche un sussulto più profondo ed interno alla sua stessa anima: la rivoluzione intellettuale ionica. Dal 600 al 300 a.C., nelle colonie joniche fra Asia e Sicilia, una serie di uomini di pensiero - Talete, Anassimàndro, Demòcrito, Empèdocle, Anassàgora, Ippocrate, Aristarco - fornirono una serie di interpretazioni fisico-materialistiche alla intera realtà: la terra usciva dal parziale prosciugamento degli oceani, l'aria, pur invisibile, era «consistente», sole e stelle erano pietre infuocate, la luce lunare era riflessa, la Terra ruotava attorno al sole, l'uomo veniva da pesci nati nel fango, e ogni realtà esistente era sempre costituita da atomi. Si trattava della più radicale rivolta intellettuale che la storia del pensiero abbia ricevuto. Alcuni di questi autori vennero condannati per empietà, e i grandi della filosofia - Socrate, Aristotele, Platone - soffocarono a lungo il loro pensiero e restituirono agli dèi il dovuto rispetto. Con l'esclusione di Lucrezio a Roma nel primo secolo a.C., ci sarebbero voluti ancora quasi duemila anni, perché la curiosità intellettuale europea producesse, partendo con Galileo dall'antico mondo etrusco romanizzato, quella rivoluzione scientifica che avrebbe riproposto una minaccia di crisi al mondo del Sacro. Ma la visione sacrale del mondo era comunque ormai in crisi nella Grecia decadente: i combattenti greci coprivano di valore campi di battaglia altrui, ma lo spirito della grecità era morto da tempo. E così poté affermarsi la grandezza di Roma, espressione della intatta validità delle stirpi italiche. Intanto, al di sopra delle popolazioni scese verso la Grecia, la Balcania e l'Italia, fremevano nel cuore d'Europa le stirpi celtiche in movimento per l'Occidente, verso la Francia, verso la Britannia e l'Irlanda, verso il Nord della Spagna. Loro gruppi calarono anche fino alla Grecia - dove furono respinti - e fino alla Tracia e all'Asia Minore, dove si stanziarono come Galati. Anche la loro religione venerava molteplici dèi, la cui volontà e le cui richieste erano interpretate dai «druidi», casta sacerdotale alla quale era affidato anche il compito di educare i fanciulli. Svilupparono un'alta civiltà, ed espressero sempre una forte attitudine guerriera, giungendo in una scorreria ad occupare la città di Roma, e a stanziarsi in una gran parte della pianura Padana fra Veneti e Liguri, prendendo il posto degli etruschi soccombenti. Non riuscirono mai, però, a costituire una grande forza unitaria, e la pressione della loro potenza guerriera si espresse sempre e soltanto attraverso l'iniziativa di grandi tribù isolate o malcollegate fra loro. L'espansione graduale di Roma - che già aveva assoggettato gli Etruschi, gli Umbri, gli Oscosabellici, i Greci del Sud, i Veneti e gli Istri, gli Illiri, i Liguri, i Galli della Cispadania e, dopo aver cancellato Cartagine e la Macedonia, aveva sottomesso gli Iberici e i Lusitani - li piegò con Cesare dopo una fierissima resistenza e li assorbì insieme alla Britannia. In poche generazioni, come gli Iberici, essi vennero romanizzati. Dietro i Galli, fra la Scandinavia, il Reno e il Danubio, premevano innumerevoli le tribù germaniche, smisurata riserva di uomini indocili e imperiosi, coi loro dèi - Odino, Freya, Thor - e con la loro struttura guerriera. Già le loro prime tribù, i Cimbri e i Teutoni, dopo aver devastato le Gallie meridionali, avevano tentato di forzare i confini settentrionali del territorio della Repubblica romana. Li fermò Mario, che sostanzialmente distrusse le due grandi tribù. L'ulteriore crescita - da Repubblica a Impero - della potenza romana, obbligò i Germani ad attendere per secoli, con la pazienza irrequieta dei popoli in armi, che i confini renani e danubiani di Roma mostrassero i primi segni di cedimento.Alle spalle di tutti i popoli indoeuropei, stesi sulle immensità della loro steppa, stavano ancora gli slavi. Al loro Nord, barbari afra tutti e quasi sconosciuti, stazionavano i Baltici. Popolazioni minori - gli Osseti, piccole altre minuscole tribù, oltre agli Armeni - dominavano la catena del Caucàso. 1 Medi e i Persiani - che chiamavano se stessi Ari, cioè Signori - avevano creato il grande impero persiano, che rinacque dopo Alessandro, mentre altri indoeuropei, occupato l'Afghanistan, dominavano come «bramini» il mondo indiano. I Daci furono sconfitti a fatica dai Romani, e i Sarmati occupavano inquieti l'Ucraina. Tutti questi popoli - la cui certa unità iniziale è stata del tutto documentata dalla linguistica, dalla paleantropologia, dall'etnologia, dall'archeologia - incontrarono in Europa gruppi, più o meno forti, di popolazioni preindoeuropee: nel Mediterraneo, nell'area danubiana, nelle Gallie e in Iberia, in Italia. La fusione e l'assorbimento, ancora incompleti in qualche caso come per i Baschi, sono certamente costati secoli, ed hanno caratterizzato in modo peculiare gli attuali caratteri dei popoli del continente. L'arrivo successivo dei mongoli che hanno lasciato tracce in Russia, degli Unni frammisti a Germani in Ungheria, dei Finni mescolati a Scandinavi in Finlandia, offre ai nostri diversi popoli una ulteriore connotazione particolare. Ma l'impronta unitaria è fondamentale e caratteristica. Per tutto il corso della storia di Roma, anche dopo l'avvento di Cesare che unificò e romanizzò l'Europa entro i confini del Reno e del Danubio, fino a Costantino i cui eredi divisero l'impero in due - consentendo alle nazioni greche o grecizzate di riprendere l'uso della loro lingua anche nelle leggi e negli editti dopo Giustiniano - nonostante la crescita costante del Cristianesimo in tutte le provincie d'Europa e d'Oriente, questa impronta informò di sé la vita in ogni suo aspetto. Il crollo graduale dei confini dell'impero, la progressiva germanizzazione dell'intera Europa non bizantina, l'uso generalizzato della lingua làtiria nelle Corti, nelle sedi di cultura e nelle Chiese, contribuirono a fare del Continente un mondo civilmente uniforme, in un diritto romano-barbarico. L'espansione della fede cristiana - favorita da Re e da guerrieri più che da monaci e predicatori - portò lentamente all'estendersi della Chiesa fino alle terre baltiche e alla Scandinavia, mentre l'influenza bizantina, recata da frati e uomini di mercato più che da uomini d'arme, coinvolse prima l'Ucraina e poi la Russia. Ma l'elemento dominante di questo periodo fondato sul feudalesimo e sulla nascita di un'aristocrazia di spada retta da fedeltà al proprio signore, fu la comparsa della cavalleria. Uomini d'arme senza problematiche finanziarie - come del resto le aristocrazie dei castelli, che non avevano bisogno di denaro, ma di uomini capaci di lavoro nei campi, nelle botteghe e sulle strade - i Cavalieri ripetevano, nella scelta di offrire e affrontare la morte per fedeltà, per onore o per «amor cortese», l'orgogliosa prestanza del centurione romano, dell'oplita greco, del guerriero barbaro. Per lunghi secoli, dagli scontri contro mongoli e islamici alla cristianizzazione armata dell'Est da parte dei Cavalieri Teutonici, dalle Crociate in Terrasanta alla Reconquista cattolica di Spagna, dalle imprese normanne di Inghilterra o del Sud italiano ai conflitti fra Guelfi e Ghibellini nell'Europa di Mezzo, dall'espansione delle Repubbliche marinare italiane alle tenaci rivolte dei Comuni, dalla nascita delle Signorie alla formazione dei primi Stati unitari, fino a Lepanto e fino a Vienna, tutta l'Europa è un baluginar di spade e di picche. Vi sono poche virtù che competano col vigore, col coraggio, con la forza nell'uso delle armi. E dalle armi ancora nascono tutte le Nazioni, si scontrano ortodossi religiosi e dissidenti, cercano i popoli le loro libertà. La Chiesa esalta e nobilita la Cavalleria, le impone un rituale, benedice le armi, chiama gli uomini alla guerra. Negli ordini cavallereschi religiosi, che tengono terre o le conquistano, che dominano i mari attraverso le isole, che portano la Croce presso nuovi popoli, per secoli e secoli il saio è protetto dalla cotta di maglia. E mai una volta una condanna ufficiale della Chiesa ha colpito l'anima centrale della Cavalleria: il duello.È l'anima dell'Europeo di ogni tempo che anche allora, come sempre nei secoli - pur nel maniero, nel comune e dentro il chiostro - non può che ripetere se stessa e la sua natura profonda: anima di guerriero, se i muscoli han prestanza, per il proprio onore e per la propria libertà. Non fu certo la Chiesa cattolica, né le ipotizzate origini semitiche della sua ideologia - ideologia che dopo S. Paolo e i primi Concili aveva rifiutato Gerusalemme e scelto Roma - a stimolare in Europa la curiosità intellettuale, figlia dell'amor d'avventura che aveva da sempre connotato come primo nel mondo l'uomo indoeuropeo.Quando la rivoluzione intellettuale che partì da Galileo mise in moto la rivoluzione scientifica si apri una fase storica nuova, che, accompagnata dalla Riforma protestante, dalla nascita della stampa, dalla scoperta dell'America, generò rapidamente l'ascesa della borghesia. Fino ad allora l'uomo in onta alle differenze sociali, era sempre vissuto dovendo far conto essenzialmente sulla forza fisica: reggere un'armatura per esercitare imperio, viaggiare a piedi o per mare per mercatare, maneggiare una zappa ricurvo sulla terra, significava fatica e sudore, il problema essenziale per tutti era invece mangiare quanto bastasse ed avere un tetto che riparasse dalle intemperie.Forse, solo chi prestava denaro per interesse poteva attendersi cibo e tetto senza impegnare i suoi muscoli e senza arrischiare la vita. Di qui le tensioni e i rifiuti, presso tutti i popoli d'Europa, verso i presta-moneta. Ma il mondo borghese aprì la vita a chi commerciava denaro, a chi spediva le merci, a chi le assicurava, a chi gestiva i patrimoni, a chi di professione curava la giustizia, a chi amministrava case proprie e altrui. Quel che per secoli era valso per artisti e per chierici, era ora privilegio di una classe crescente.Non era più necessaria la sudata fatica: altri, pagati senza essere schiavi né prigioni, potevano compiere le fisiche esigenze quotidiane, i lunghi viaggi, le esposizioni all'aperto, le più dure imprese muscolari della vita. Era così possibile l'utopia di un ordinamento razionale del mondo, capace di garantire gradualmente a tutti la felicità borghese.Nasceva così - riportando alla luce i vari filoni rasserenanti di una filosofia matriarcale della vita protetta - il messianesimo illuminista. Riprendeva forza e vigore la fede nella Ragione, che la Massoneria diffondeva per le Corti, per le Banche, per le Università.L'Europa, nel suo istinto profondo ed obbedendo alla propria reale natura, rifiutò questo mondo. Le forze popolari, quelli dinastiche, le Chiese, le vecchie aristocrazie combatterono i Lumi, e li vinsero. Ma i vinti - i repubblicani, i massoni, i calvinisti, i libertari e, dietro a tutti, le grandi Banche e le grandi Compagnie che già costituivano un'oligarchia finanziaria cosmopolita - trovarono, soprattutto in America, la Terra delle proprie promesse.L'Europa comunque reggeva ancora, sempre animata al fondo dalla presenza inconscia del suo lo fondamentale: la natura dell'indoeuropeo. E dopo la rivoluzione d'America e quella di Francia, dopo la guerra di Secessione americana, dopo le rivoluzioni liberali europee e sudamericane, dopo la Prima Guerra Mondiale e la Rivoluzione bolscevica d'ottobre, ancora una volta dall'Italia - come coi Comuni, come col Rinascimento, come con la Controriforma - partì il richiamo all'Europa: contro la demoplutocrazia, armare una comunità nazionale e sociale che renda il popolo responsabile dello Stato, e l'uomo certo di dominare una Tecnologia che sogna e pretende di mutare l'umana natura. Roma chiese agli europei di reagire contro tutte le forme di progressismo internazionalista.L'unica realtà che può ostacolare l'uomo è la forza impalpabile del Fato. Per ogni altro aspetto della vita, individuale e comunitaria, i valori essenziali e dominanti sono quelli di sempre: la forza, la bellezza, la memoria, la giustizia, la libertà, la volontà. E l'Europa rispose. Come non ricordare le immense folle che nelle piazze e nelle strade delle nostre superbe città esprimevano la comunione coi Capi? Come non ricordare le selve di mani e di braccia levate a salutare il passo cadenzato delle legioni? Come non ricordare il sereno ordine di intere nazioni, la severa fermezza delle famiglie, la nobile dignità degli uomini, la divina sublime forza della femminilità?Tremava la terra sotto il passo ritmico dei militanti, al quale rispondeva dal profondo l'anima dell'intera nazione che vedeva crescere nella pulizia morale quella giustizia sociale che faceva entrare il popolo nello Stato.Mentre su tutto aleggiava, profondo e vitale come il respiro di un dio, lo spirito del padre di ogni libertà: la sovranità nazionale.Erano i movimenti fascisti, che riproponevano ai popoli l'antico sogno indoeuropeo della forza associata alla bellezza. Un sogno che riecheggiava nelle maschie canzoni di una gioventù che empivano le altezze dei cieli d'Europa. Un'Europa che la sconfitta ha piegato, ma che nessuno può uccidere.Era l'Europa dell'ordine morale, nel segno della sua antica civiltà. Nella legge naturale della storia, i movimenti fascisti si erano sempre volti con rispetto a quella fede cristiana che, dalle Cattedrali alle norme di costume fino all'ordine dei sessi e dell'età, aveva contribuito a edificare l'Europa, anche se le radici di tutti i nostri popoli affondano profonde negli antichi eventi delle origini: da lontani millenni Marte vigila sui popoli che proteggono in armi il proprio destino. Gli europei risposero con dedizione offrendo a milioni i militanti e i credenti nell'eurofascismo. In ogni Paese europeo, dal Portogallo all'Inghilterra alle terre slave, nacquero e furono forti singoli e particolari movimenti fascisti. Molti, dai Paesi iberici al Belgio, alla Croazia, alla Slovacchia, alla Finlandia, alla Romania furono fondamentalmente cristiani.Ma un'altra componente essenziale, insieme alla Lex latina, fu il quotidiano richiamo dello splendore delle grandezze classiche e della memoria degli antichi dèi che per secoli avevano assistito alla nascita delle nostre città, all'apertura delle grandi strade fra i popoli, alla comparsa dell'idea dell'Impero. Erano dèi che per gran tempo avevano accompagnato l'uomo indoeuropeo in ogni gesto della sua vita, partecipi luminosi della sua eroica concezione del mondo e della sua sfida alla tragica volontà del Fato. Dèi ellenici, dèi italici, dèi barbarici. Affini fra loro ma espressione di differenze culturali e di orientamento morale e sociale.Ricordo che quando mio figlio era adolescente - quattordici, quindici anni - egli coltivava un acuto interesse per gli antichi dèi nordici, germani e vichinghi. lo gli raccomandai, allora, di stare molto attento: era una mitologia ambigua,che lasciava un certo spazio a componenti femminiloidi - talvolta era accettato l'incesto, e le dèe non eran fedeli. Molto meglio gli dèi latini che avevano il culto sacrale della famiglia, e vedevano nella fedeltà femminile il perno di tutte le virtù sociali.Del resto, in tutte le nostre lingue, la differenza di valutazione e di misura fra donne oneste e donne libere è sempre stata essenziale. La stessa Chiesa cattolica ha tollerato per secoli le «case chiuse» - dove stavano donne libere - per proteggere la virtù delle donne oneste. Fu anche l'atteggiamento dei regimi fascisti, radicalmente opposti all'omosessualità, all'aborto, alla pornografia e controllori attenti della prostituzione. Quando durante l'ultimo conflitto, con l'Europa assediata dal mondo, qualcuno propose al Governo tedesco di mobilitare le donne, Hitler, rifiutò l'iniziativa per non portare al rovesciamento il nostro ordine morale.Ma l'America ha vinto la guerra, e con la sua egemonia culturale nel mondo continua quotidianamente a predicare tutte le libertà borghesi.

L'Europa è succube, è sulle ginocchia, ma non è ancor morta. L'unica forza che possa davvero ucciderla è un'immigrazione continua, cronicizzante, selvaggia. Insieme alla caduta della natalità, il cambiamento graduale della popolazione porterà alla perdita della identità nazionale e allo sfaldarsi della naturale concezione di vita degli europei. È questo, del resto, l'attuale obiettivo primo e fondamentale della strategia mondialista: che tutte le società del mondo, soprattutto le maggiori e le più forti diventino multietniche, multiculturali, multiconfessionali. Che cessino cioé di essere quel che sono state per millenni.
Giacché l'America, che vuole americanizzare il mondo, è nata proprio così: multietnica, multiculturale, multiconfessionale. Lo spazio è però ancora ampio, e molti popoli mostrano chiari i segni crescenti di una rivolta contro un'immigrazione voluta da governi che non applicano neppure le proprie leggi.Bisogna invece regolare, bisogna fissare termini e confini, bisogna applicare con severità la legge. È questo, uno dei problemi capitali della sopravvivenza di un popolo: dove non c'è legge, dove essa non è applicata, non ci sarà mai sovranità, e perisce ogni identità. Un popolo senza legge, muore. È stata, per oltre due millenni, la forza della Lex ereditata da Roma a fungere da collante centrale e onnipresente alla nostra intera civiltà.E dietro a questa Lex, l'esempio mirabile, imperioso, sublime di un mondo che aveva saputo dar pace, per lunghi secoli, al continente degli Indoeuropei. Fu il senso romano del diritto che diede una basilare unità ai popoli del Continente e che affascinò nel profondo i barbari dell'Est, spingendo germani e slavi a dare al proprio imperatore il titolo di Kaiser e Czar - vale a dire Cesare, il sommo fra i legislatori latini. Era un mondo che aveva dato una terra e una norma ai popoli d'Europa, insieme ad una capacità di esplosione artistica - letteraria, poetica, architettonica, pittorica, scultorea, urbanistica e musicale - che dall'Italia, dove oggi ancora ha sede almeno la metà dei tesori artistici della Terra, s'era diffusa per tutto il Vecchio Mondo. Salendo da Omero a Platone a Virgilio a Dante a Michelangelo a Shakespeare a Voltaire a Wagner a Nietzsche, la nobile potenza del pensiero dell'indoeuropeo, attingendo alla grandezza della Roma classica e cristiana ha espresso tutto quello che l'uomo può percepire guardando verso i confini del Cosmo. È un'eredità che solo una concezione radicalmente europea - radicalmente indoeuropea - può raccogliere e trasmettere al domani del mondo. Ricordo ancora un film di propaganda tedesco che venne proiettato in Italia durante la guerra. Il titolo era «Gli arditi dell'Oceano». Non ricordo il regista, né i nomi degli attori. Era la storia equilibrata, lineare, e allo stesso tempo eroica dell'equipaggio di un sommergibile tedesco. Il suo comandante era quello che naturalmente doveva essere, come ufficiale tedesco: sobrio, preparatissimo, umano. Parte per una missione speciale, e l'equipaggio, in licenza, lo segue volontariamente. Il comandante è legato ai suoi uomini, e in particolare a un giovane ufficiale, di forte spirito militare e di vasta cultura. E ogni volta che il sommergibile si trova a rischio o in difficoltà, il comandante chiede al ragazzo: «Bene, e ora, che avrebbero detto gli antichi Romani?» E la risposta del giovane è sempre pronta, calzante, brillante. Finché un giorno, da un'impresa contro una nave avversaria, il giovane ufficiale torna gravemente ferito. Sa che deve morire. Lo dice. E il comandante, allora, ancora una volta, chiese che cosa avrebbero detto, di questa sua amara convinzione, gli antichi Romani. E il ragazzo, lentamente, come poteva, ma col sorriso sulle labbra: «Dulce, et decorum est, pro Patria mori».
E così, mentre sorrideva, accadde.
È lo spirito indominabile, per l'eternità, dell'uomo indoeuropeo.
Sergio Gozzoli

(1) White Angle-Saxon Protestant
(2) A documentare l'atteggiamento caratteriale del popolo romano servono certo i suoi miti - indicativi di una estrema dedizione alla Patria e al suo destino - come le scelte dell'aristocrazia negli eventi tragici della vita nazionale. Ma di altrettanta importanza è un esame attento del linguaggio quale indice della profonda psicologia popolare. Noi definiamo oggi le tre forme di colonna greca sotto un'architrave come dorica, corinzia o ionica. Ma i romani non usavano questi termini: essi chiamavano virile la colonna a capitello liscio di origine dorica, matronale quella corinzia a capitello arricciato, e verginale quella ionica a capitello più ricco e complesso. Queste definizioni offrono il senso diretto e immediato dei valori cardini dell'etica romana.
(3) Nel IV secolo a.C., duce dell'esercito Tito Manlio Imperioso, i romani avevano preso campo in attesa d'una battaglia coi latini. Sull'alto del muro che fiancheggiava l'accampamento era di guardia nella notte il figlio di Tito Manlio, di nome anch'egli Tito. Alle insistenti provocazioni di giovani nemici sotto il muro, nonostante l'ordine perentorio di non reagire, Tito Manlio si gettò di sotto: ne uccise alcuni e, seguito da altre guardie romane, li inseguì fino alle loro tende. Sorpresi nel sonno, molti latini vennero uccisi e i più fuggirono lasciando intero il proprio campo alla mercé dei Romani. Il giovane, che quasi da solo aveva vinto una battaglia,.venne solennemente celebrato dall'intero esercito. Tuttavia la sua scoperta insubordinazione costrinse suo padre a giudicarlo secondo la legge romana, e a togliergli la giovane vita.