E Benito scriveva agli ebrei: siete al sicuro

Io sottoscritta Berta Bertiner... di madre cristiana e di padre israelita... nell'anno 1911 mi trovavo con i miei genitori in Moravia ed esercitavo lo stesso mestiere di mia madre cioè callista pedicure massaggiatrice di bellezza...». Inizia così una delle più strazianti lettere raccolte da Paola Frandini nel bellissimo Ebreo, tu non esisti. Le vittime delle leggi razziali scrivono a Mussolini (Manni editore). Si tratta di più di 90 missive di ebrei, tutte dirette al Duce e tutte pervase da orrore e incredulità. Redatte tra il 1938 e il '40, sono dominate dallo sbalordimento di fronte a un intervento che appare abnorme e disumano. Lo sconcerto si manifesta anche in chi è di provata fede fascista, camicia nera fin dalle origini (Alain Elkann, che firma l'introduzione, affronta il tema particolarmente spinoso di chi non vuol credere fino in fondo al tradimento e che continua fino all'ultimo a sperare). Stupefatti e indignati lo sono anche quelli che prendono la penna per sottrarre alla persecuzione amici ebrei, come l'attrice Maria Melato, la principessa Jolanda di Savoia, il presidente della Fiat, Giovanni Agnelli, che interviene a favore dell'ingegner Giuseppe De Benedetti.
In prima fila, a tentare di far da scudo ai parenti, sono le madri ebree, come la vedova Elvira Finzi, insegnante elementare, con un figlio diciottenne iscritto al Politecnico, che rileva: «A me si toglie l'impiego necessario, a mio figlio la possibilità di studiare». Scrivono comunque in tanti e di tutte le categorie, professori, imprenditori, militari di carriera, venditori ambulanti. Alcuni, come Arpad Haas, non si impegnano per se stessi ma per proteggere genero e nipotini, veri «figli della Lupa». Abramo Aboaf e altri offrono somme in denaro. Prontamente accettate. Italo Foà si dichiara «Italo di nome e di fatto» e ricorda di avere sette figli. Isacco Ernesto Gallico vuole invece difendere dalla confisca un immobile a Mantova in cui ha investito tutti i suoi beni.
Alle sollecitazioni gli attivissimi funzionari di regime volentieri rispondono: le siglano con una gigantesca «M.» e le accompagnano con diciture rassicuranti per non diffondere il panico. Così la Bertiner, arrestata e trasferita a Fossoli, ancora dal campo di concentramento verga strazianti petizioni non a proprio favore ma perché la figlia sia «discriminata». La figlia si salverà, ma la madre morirà ad Auschwitz nel '44. Pure per lei c'era la confortante annotazione sulla lettera: «stare tranquilla». Come dire: ci pensa il Duce. [m.s.]
La stampa, 23 febbraio 2007, pag.36

 
   
 

Il Duce meglio di Dante
Adulazioni a pieno regime Dagli archivi riemerge un'apologia del '38 pubblicata sulla rivista fascista "Augustea"
L'autore è il poeta Giorgio Caproni, futuro intellettuale di sinistra: un caso analogo a quelli di Gatto o Quasimodo

MIRELLA SERRI
A volte le parole sono ingannevoli. Riescono ad «allettare sempre, tessendo una maglia di labili convincimenti». Però ci sono parole e parole. Ce ne sono di «straordinariamente semplici e nude». Che risultano efficaci, incisive e dure. Non esortano alla pace ma alla guerra e sono destinate a non rivelarsi mai fallaci: sono quelle dei poeti e dei condottieri.
Questa distinzione la avanza lo scrittore Giorgio Caproni in una sua sofisticata prosa d'arte del 1938. Il brano, edito dalla rivista fascista Augustea, appare sul numero del 28 ottobre, celebrativo dell'anniversario della Marcia su Roma, e s'intitola Testimonianze al Capo. L'omaggio destinato a solleticare l'ego di Colui che non sbaglia mai - infallibile non solo nell'azione ma anche nel verbo: viene paragonato a Dante e Machiavelli - è del poeta più ritroso e meno desideroso di apparire della letteratura italiana. Il documento getta nuova luce sui rapporti di Caproni con il regime ed è stato ritrovato per caso dalla studiosa Paola Frandini. La ricercatrice - dopo aver raccolto le toccanti lettere degli ebrei italiani al Duce, scritte a ridosso delle leggi razziali (uscite di recente in Ebreo, tu non esisti. Le vittime delle leggi razziali scrivono a Mussolini) - era sulle tracce di ben altro. Cercava qualche pronunciamento degli intellettuali italiani sui provvedimenti razziali che mettono al bando i cittadini israeliti. Niente. I faldoni si sono rivelati vuoti mentre è emersa quest'esternazione di fede e di sconfinata ammirazione di una delle più importanti voci poetiche del secolo passato.
Il 1938 è un anno cupo per tutta Europa. Sono terribili i venti di guerra che soffiano, mentre settembre è il mese più crudele per gli ebrei italiani che assistono inermi all'escalation razzista. Non è un anno invece particolarmente feroce per l'autore del Passaggio di Enea. Di origini modeste, il padre Attilio è ragioniere, la mamma una sartina, Caproni ha dovuto faticare sia per imporsi nel mondo delle lettere che per assicurarsi il pane. Finalmente, però, ha trovato una stabile occupazione come maestro elementare a Rovegno, in Val Trebbia, dove passerà anche i mesi della guerra civile. Nell'anno in cui compila La parola di Mussolini, fresco di nozze si trasferisce a Roma, restandovi però solo poco tempo, e dà alle stampe una delle sue più importanti raccolte, Ballo a Fontanigorda, destinata ad assicurargli un posto nel pantheon letterario e a consacrare la Val Trebbia come luogo di poesia. La parola «infallibile» di cui esalta i meriti in questa testimonianza non è però solo quella poetica. È la parola che sa pronunciare «un suono convincente che all'istante apre il cuore alla più grande fiducia». A chi appartiene? «Fu la parola di Cesare e di Dante, di Savonarola e di Machiavelli e, oggi unica, è la parola di Mussolini». Infatti è «una parola di ferro, direi una parola armata che conduce gli innumerevoli che sbigottiscono di se stessi, che bramano un condottiero ideale o reale (ed è in quest'ansia la loro nobiltà) che li scagli oltre i limiti di una pace insidiata e perciò insidiosa. Io penso con meraviglia al fatto che tanta potenza scaturisca da vocaboli puri, i vocaboli che tutti comprendono, dal letterato alla tormentata donna di casa, ma che solo le grandi coscienze possono adoperare».
Chi ne possiede il segreto? «Solo i condottieri (e a volte pure i poeti sono tali) ne posseggono forse il segreto. Per certo nessuno lo possedette e, oso dire, lo possiederà al grado del Duce». Dopo la fine della guerra, Caproni diventerà firma di primo piano dell'intellighentia di sinistra su L'Unità, Mondo operaio, Avanti!, Italia socialista, Il lavoro nuovo. Nel '48 è a Varsavia a rappresentare gli scrittori progressisti e antifascisti al primo «Congresso degli intellettuali per la pace». Il letterato livornese deve infatti la sua fama anche a quella di cantore della Resistenza in Val Trebbia, dove sono pure gli amati luoghi dell'insegnamento. Nel '45 scriveva che aveva molte difficoltà a rientrare a Genova. Avrebbe voluto risiedere per sempre in quei posti dove si era combattuto accanitamente e che solo sentiva come «patria mia».
La stampa, 23 febbraio 2007, pag.36

 
   
 

MUSSOLINI Il mistero della doppia fucilazione

RENZO MARTINELLI
L’«onesta sottomissione alla verità» di cui parlava lo storico francese Marc Bloch ha sempre fatto difetto ai comunisti italiani. Quando i fatti storici non sono coerenti con la filosofia marxista, la storia viene manipolata, falsificata. È stato fatto per la strage di Porzùs, nella quale 22 partigiani cattolici vennero trucidati da partigiani comunisti su ordine di Tito e del IX Corpus sloveno. I comunisti italiani hanno mentito sulla tragedia delle foibe istriane, un genocidio etnico attuato dai comunisti sloveni e dietro il quale si intravede l'ombra del patto fra Togliatti e Tito: sconfiggere insieme il nazifascismo e instaurare in Italia una dittatura del proletariato in cambio della cessione di terre alla Jugoslavia.
Ma i comunisti italiani hanno raggiunto un grado di manipolazione che rasenta la perfezione nel raccontare la morte di Benito Mussolini. Da oltre sessant'anni difendono con testardaggine quella che è passata alla storia come la «vulgata comunista». Nel 1947 l'Unità pubblica a puntate il racconto del colonnello Valerio (al secolo Walter Audisio), il partigiano che sosteneva di aver ucciso Mussolini. Il ragionier Walter Audisio era un personaggio di secondo piano della Resistenza. Secondo noi, invece, dietro il colonnello Valerio si nascondeva Luigi Longo, vero capo militare dei partigiani comunisti e certo molto più adatto a compiere l'azione prefissa: recarsi a Dongo, prelevare Mussolini e 15 gerarchi, portarli in piazzale Loreto a Milano e fucilarli coram populo per vendicare i 15 partigiani fucilati dai nazifascisti sullo stesso piazzale nell'agosto 1944. Dunque, chi uccise Mussolini?
Ammettiamo per un istante che il colonnello Valerio fosse veramente il ragionier Audisio. E concentriamoci sulla sua versione dei fatti: Mussolini e Claretta Petacci vennero prelevati attorno alle ore 16 del 28 aprile '45 dalla casa dei coniugi De Maria, a Bonzanigo, una piccola frazione di Tremezzina, oggi Tremezzo. I due vennero condotti, dapprima in auto e poi a piedi, davanti al cancello di Villa Belmonte, una dimora privata che distava dalla casa dei De Maria alcune centinaia di metri. Qui, il colonnello Valerio lesse il dispositivo di condanna «in nome del popolo italiano». Dopo di che impugnò il mitra e premette il grilletto. Ma l'arma s'inceppò. Valerio si fece allora prestare il mitra dal partigiano Michele Moretti (Pietro). Con quest'arma sparò una raffica che colpì Mussolini e, involontariamente, anche Claretta che si era «mossa scompostamente». All'uccisione era presente anche Aldo Lampredi («Guido»).
Da alcuni anni, insieme all'amico e storico Luciano Garibaldi, autore del volume La pista inglese (Ares, 2002), raccolgo documenti e testimonianze sulla morte del Duce. Vediamo come tali documenti contrastino con la versione del colonnello Valerio.
Punto primo: la ricostruzione della morte del Duce è stata fatta, in tempi diversi, da Valerio e dai due partigiani presenti all'uccisione, «Pietro» e «Guido». Proprio la ricostruzione fatta singolarmente da ognuno dei tre è la prima e più devastante smentita della «vulgata». Secondo Valerio, Mussolini di fronte al mitra che stava per ucciderlo balbettava terrorizzato «Ma... ma, signor colonnello...». Secondo Lampredi, invece, Mussolini si apri la giacca e gridò virilmente «Sparate al petto!». Secondo Moretti, infine, il capo del fascismo gridò «Viva l'Italia!» prima di cadere ucciso. Come si spiegano le tre versioni?
Punto secondo: l'indagine di Luciano Garibaldi, frutto di otto anni di ricerche, prende avvio da un famoso documento, il fonogramma inviato il 27 aprile dal Clnai al Comando del Gruppo d'Armate alleato che, alla notizia dell'avvenuto arresto del Duce, ne aveva richiesto la consegna immediata, in attuazione delle clausole dell'armistizio. Si legge nel fonogramma: «Non possiamo consegnarvi Mussolini perché è stato fucilato in piazzale Loreto...». Inutile sottolineare che il 27 aprile Mussolini era ancora vivo e prigioniero in casa De Maria. Ma che cosa dimostra questo fonogramma? Che i capi della Resistenza avevano deciso di portare Mussolini e i suoi gerarchi a piazzale Loreto e lì giustiziarli. Perché tale proposito non fu realizzato?
Punto terzo: sia nel racconto di «Valerio», sia nelle interviste rilasciate da Lia De Maria, si afferma che Mussolini e Claretta consumarono un pranzo tre ore prima della morte. Cioè intorno alle ore 13. Ebbene, nel verbale dell'autopsia eseguita dal dottor Caio Mario Cattabeni nell'Istituto di medicina legale dell'Università di Milano si legge: «Stomaco: ampio; cavità contenenti poco liquido torbido bilioso». Verbale di necroscopia n. 7241. Dunque, lo stomaco di Mussolini non conteneva traccia di cibo. Come si concilia questa analisi con le dichiarazioni di «Valerio» e di Lia De Maria?
Punto quarto: mentre il cadavere di Mussolini venne sottoposto a regolare autopsia, così non avvenne per quello di Claretta Petacci. Nel '57, quando il cadavere di Claretta venne riesumato, si scoprì che la morte era stata causata da due proiettili calibro 9. Com'era possibile, se il colonnello Valerio, per sua ammissione, aveva sparato con un mitra Mas calibro 7.65? Guarda caso il calibro 9 era quello delle Colt inglesi, usate dagli agenti britannici della Special Force.
Punto quinto: tra i vari fori di entrata e di uscita evidenziati dall'autopsia sul cadavere di Mussolini, uno in particolare attira l'attenzione. È quello così descritto: «Al fianco destro, poco al di sopra di un livello corrispondente alla spina iliaca superiore, un foro d'entrata con ampio alone escoriativo emorragico, cui fa seguito un tramite sottocutaneo sboccante in un foro d'uscita a livello della regione glutea di destra, nel quadrante antero-superiore». Bene, ho davanti agli occhi la foto del cadavere di Mussolini, nudo, disteso sul tavolo dell'Istituto di medicina legale: poco sopra l'inguine è visibilissimo il foro d'entrata di cui parla l'autopsia. Una seconda foto mi mostra i cadaveri di Mussolini e di Claretta appesi a testa in giù al traliccio del distributore di piazzale Loreto. Ora, ingrandendo la foto, si vede con chiarezza che i pantaloni del Duce non presentano fori di sorta nel punto in cui il proiettile ha colpito il corpo. Né in prossimità del foro d'entrata, né di quello di uscita. Come è stato possibile trasportare Mussolini dalla casa dei De Maria al cancello di Villa Belmonte, presumibilmente vestito, e lì fucilarlo senza trapassare i pantaloni?
Punto sesto: uno dei più stimati anatomo-patologi d'Italia, il professor Aldo Alessiani, ha dedicato quarant'anni di studi alla morte di Mussolini. Alessiani analizza le foto del cadavere di Mussolini a piazzale Loreto prima, durante e dopo essere stato appeso. Analizza inoltre il verbale dell'autopsia eseguita dal dottor Cattabeni, assistente dell'Istituto di Medicina legale di Milano. Attraverso rilievi fotografici e tecnici, Alessiani dimostra che la versione ufficiale della morte di Mussolini non può essere considerata veritiera per due motivi essenziali: 1) La rigidità cadaverica, che già nel tardo pomeriggio del 29 aprile appare essere in risoluzione. E cioè appena 24 ore dopo quello che è fissato come l'orario ufficiale della morte, intorno alle ore 16,30. La risoluzione della rigidità cadaverica è evidenziata nelle foto scattate nei corridoi dell'obitorio prima dell'autopsia, iniziata alle ore 7,30 di lunedì 30 aprile. 2) L'integrità degli indumenti con cui Mussolini è vestito a piazzale Loreto. Non fori nel cappotto. Non fori nella maglia intima. Non fori nei pantaloni. Solo le mutande, che fuoriescono dai pantaloni, appaiono sgualcite, come se, già cadavere, Mussolini fosse stato trascinato afferrandolo per le mutande. Lo stivale destro, inoltre, ha la cerniera rotta. E non solo dopo che il corpo è stato appeso, ma anche prima. Come se, già in preda a rigidità cadaverica, lo avessero calzato a forza.
Questi due punti dimostrerebbero che: a) Mussolini è morto prima del pomeriggio del 28 aprile. Presumibilmente, il Duce è stato ucciso nella notte o all'alba del 28 aprile; b) All'atto della morte, Mussolini era privo di indumenti, in quanto essi sono integri. Forse li aveva tolti per farli asciugare, in quanto nella notte tra il 27 e il 28 aprile pioveva violentemente sul lago di Como tra Dongo e Tremezzina.
il Giornale, 22 febbraio 2007, pag.33

 
   
 

Il giallo della Croce rossa

Giordano Bruno Guerri
C’è da augurarsi che i diari di Benito Mussolini scoperti da Marcello Dell'Utri siano veri, ma il condizionale è indispensabile finché i cinque volumi autografi non verranno sottoposti a severissime analisi calligrafiche e storiografiche, nonché a perizie sulla età della carta e dell'inchiostro. Fino a allora né la serietà di bibliofilo del senatore di Forza Italia né l'entusiastico riconoscimento di Alessandra Mussolini basteranno a rendere credibili quei documenti. A far sperare che sia la volta buona, dopo tanti falsi, c'è il particolare che partano dal 1935 e che siano vergati su agende della Croce rossa italiana: fu proprio in quell'anno, infatti, che Mussolini suggerì al genero Galeazzo Ciano di tenere un diario «come faccio io». E Ciano tenne un diario dall'anno successivo, quando diventò ministro degli Esteri, su agende della Croce rossa: ho potuto esaminare gli originali, e un confronto fra i due diari (cartaceo, non solo di fatti) sarà fondamentale per stabilire l'autenticità di quelli del Duce. E - ripeto - speriamo che quei diari siano veri perché costituirebbero un documento di importanza eccezionale per la comprensione del fascismo, del suo capo e delle vicende italiane che portarono alla Seconda guerra mondiale.
Naturalmente, però, i diari - da chiunque siano scritti - rappresentano sempre e soltanto un documento di parte, mai obiettivo né del tutto esaustivo: lo stesso autore, scrivendoli, tende a piegare i fatti al proprio punto di vista e alla propria convenienza. Tanto più quando sono scritti da chi fa la storia e della storia vuole lasciare ai posteri la propria versione.
In attesa degli inevitabili esami, accontentiamoci dunque di qualche riflessione sul perché tante vicende che riguardano il Duce - i diari, l'«oro di Dongo», il carteggio con Winston Churchill, la morte - suscitino ancora tanto interesse. La prima risposta è ovvia. Mussolini fu per trent'anni al centro della vita politica italiana, e per venti ha dominato, guidato, condizionato il Paese. La sua soppressione improvvisa e senza un processo, senza una sua testimonianza diretta, orale o scritta, per giustificarsi e difendersi, costituisce un vuoto prima di tutto storiografico e politico.
Il primo mistero ancora irrisolto è come, quando e da chi fu ucciso il dittatore caduto. Solo sul motivo di quella morte senza processo non ci sono dubbi: non si voleva che ci fosse un processo per
impedire a Mussolini di difendersi, dire le sue verità, e eventualmente elencare le responsabilità dei vincitori nella guerra. Il risultato è stato ottenuto, forse anche con la scomparsa dei documenti che il Duce portava con sé, e oggi l'unica cosa certa sulla sua morte è che la versione accreditata ufficialmente dai comandi partigiani non è vera né credibile.
Da quel primo mistero derivano tutti gli altri, che si sono ingigantiti con gli anni per l'impossibilità di documentarli. Prima di tutto il fantomatico «oro di Dongo», ovvero il tesoro che Mussolini avrebbe avuto con sé nella fuga e che non è mai stato ritrovato. Ammesso che esistesse, l'ipotesi più probabile è che sia finito nelle casse del Partito Comunista Italiano, visto che furono soprattutto partigiani comunisti a catturare il dittatore in fuga e a controllarne le ultime ore di vita. Se è così, difficilmente la verità verrà mai a galla, né tantomeno c'è speranza di recuperare il «tesoro».
L'altro mistero è quello del carteggio con Churchill, al quale accennò lo stesso Mussolini, facendo intendere che era stato il premier inglese a chiedergli di entrare in guerra per non avere di fronte, al tavolo della pace, soltanto Hitler. È una teoria piuttosto fumosa, per la verità, ma se quelle lettere esistevano, dovevano trovarsi insieme ai diari. E comunque c'è una ragionevole speranza che - passato un lungo periodo di tempo - una copia della eventuale corrispondenza salti fuori dagli archivi inglesi, quando le passioni e gli interessi ancora accesi dalla Seconda guerra mondiale saranno sopiti. Per ora resta solo da sperare che Marcello Dell'Utri e Alessandra Mussolini abbiano ragione.
Il giornale, 12 febbraio 2007, pag.1

 
   
 

IL PROCESSO A BENITO MUSSOLINI
VA COSTRUITO DA PERSONE DOTATE DI ONESTA’ INTELLETTUALE
di Filippo Giannini

“Allora gli si scagliarono sopra urlando i più feroci e tutto lo stamparono cò ferri, a gara lo crivellarono, le mani gli orecchi il naso le pudende gli mozzarono. Poi, presigli in un cappio scorsoio i fusoli delle gambe, lo trascinarono fino alle case dei  Colonnesi in San Marcello. Quivi giunti lo appesero per i piedi e a un poggetto, con gran festa e gazzarra lo lapidarono.  Penzolava giù senza il teschio, ché quel poco lasciatogli dai ferri erasi logorato nel lungo trascino. Nudo era, di pelle come femmina bianco dove sangue non l’arrossava; e, al modo dei bufoli in beccheria, dalla sparata grassezza le interiora ancor  fumide sgorgava mal ricoperte dalla rete lacera. Quivi rimase al pubblico ludibrio due dì e una notte, finché non ebbe appestato col gran fetore quel corpo di strada. Per comandamento di Giugurta e di Sciarretta Colonna calato giù dal poggiolo, fu tratta al campo dell’Austa, al luogo del Mausoleo imperiale, e dato alla rabbia dei Giudei sozzi che l’ardessero. Gli fecero costoro un rogo di cardi secchi, e in gran numero accorsero intornogli ad attizzare il fuoco che nutrito dall’adipe vampeggiava forte. I venti ebbero la cenere, i secoli la memoria, gli uni e gli altri discordi”.

   Questa è la morte di Cola di Rienzo descritta da Gabriele d’Annunzio nel 1912; l’autore termina con queste parole: “Così scomparve il Tribuno di Roma. E l’Urbe stette su sui colli sola cò suoi fati e cò suoi sepolcri”.

   Se i lettori intravedessero qualche analogia con quanto accadde “in quell’aprile 1945” a Milano, cadrebbero in un grossolano errore. Gabriele d’Annunzio descrive avvenimenti accaduti quando l’Italia non era uscita ancora dai periodi oscuri della barbarie:  nel 1945, invece, le forze sane della Nazione erano intente a ripristinare, secondo quanto poi ebbe a dire l’on. Luciano Violante: “lo Stato dei diritti e della libertà”.

   Se Cola di Rienzo, il popolano ammirato dal Petrarca, fu “giustiziato” perché nel XIV secolo tentò di restaurare la Repubblica Romana, Benito Mussolini lo fu perché… già, perché?

   Massimo D’Alema in una trasmissione televisiva alcune settimane fa, disse che Mussolini prima che fosse ucciso (!) doveva essere processato, “anche perché molti fatti storici ancora oggi poco chiari potevano essere compresi”. E quali “fatti storici sono ancora oggi poco chiari”? Per il ricercatore, per lo studioso quanto avvenne dagli anni ’30 ad oggi è avvolto nella nebbia; le versioni ufficiali fornite negli anni mal si collegano con la logica. Cito un caso fra i tantissimi.

   Carlo Silvestri, noto giornalista e uomo politico socialista, nonché strenuo accusatore di Mussolini dopo la morte di Giacomo Matteotti, riconobbe, alla fine, la totale estraneità del Duce in quel delitto. Silvestri seguì Mussolini nella Rsi, anche senza aderirvi , ma poi collaborò con lui per un “passaggio indolore” dallo Stato repubblicano a quello del dopoguerra. Ebbene, questo antifascista nel maggio 1949, sul n° 162 del quotidiano “Il Merlo Giallo”, scrisse (quanto segue è riportato da Remigio Zizzo sul n° 20 del fascicolo “Mussolini”): <Per ciò che più propriamente si riferisce all’esecuzione di Benito Mussolini, è da ritenere che gli americani siano stati posti di fronte al fatto compiuto non meno di quanto lo furono alcuni degli uomini che, in quel periodo, presiedevano alle sorti del C.L.N.A.I. (Comitato di Liberazione Alta Italia, nda) e del C.V.L. (Corpo Volontari della Libertà, nda). Al contrario opino che, se si dovesse svolgere una oggettiva indagine in argomento, non riuscirebbe agli Inglesi di scaricarsi della responsabilità che essi hanno – e che sono naturalmente padronissimi di rivendicare – come mandanti morali dell’uccisione di Mussolini. E’ una responsabilità di cui gli Inglesi possono onorarsi o dispiacersi di condividere con l’U.R.S.S. delle cui direttive Luigi Longo fu certo fedele e diretto esecutore quando trasmise l’ordine di uccidere al mal noto colonnello Valerio.

   Si badi che, almeno per ora, non intendo fare disquisizioni circa la giustizia o l’ingiustizia, l’opportunità o il suo contrario della esecuzione di Mussolini. Non ho altra preoccupazione, in questa fase, che quella di dire alcune verità che qualcuno deve pur incominciare a dire se vuole che la ricostruzione degli avvenimenti dell’aprile-maggio 1945 sia fatta in base a degli elementi obiettivi e non più soggettivi, cioè interessati. La rivendicazione che Palmiro Togliatti orgogliosamente ha fatto dell’ordine di uccidere Mussolini era venuta da Mosca. Tuttavia l’Intelligence Service non poteva ignorare, altrimenti si sarebbe mostrato indegno della sua tecnica e delle sue tradizioni, ciò che era stato argomento di discussione fra gli elementi direttivi del P.C.I. a Roma, e ciò che era ormai di comune cognizione nelle file dei “garibaldini” del “Maresciallo” Longo. Qualora le autorità inglesi avessero voluto impedire la fucilazione di Mussolini, sarebbe bastato che esse si fossero rivolte in modo perentorio al C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale, nda) e al C.V.L. richiamandosi, del resto, ai precisi impegni assunti dai responsabili dei due organismi (…). Se questa dunque è la realtà, se le ricerche storiche si incaricheranno di dimostrare come quella da me proclamata sia la sola realtà obiettiva, cioè aderente ai fatti, è facile arguire come le autorità inglesi avrebbero potuto impedire il massacro di Mussolini solo che l’avessero voluto. Non lo vollero e si comportarono in modo che l’ordine di Togliatti, cioè di Mosca, potesse essere eseguito senza alcun indugio. Ove vi fosse stata incertezza e quindi ritardo nell’esecuzione dell’ordine, le autorità americane sarebbero tempestivamente intervenute per esigere il rispetto di quegli impegni che essi, in pieno formale accordo con le autorità inglesi, avevano preteso che fossero sottoscritti dal C.L.N.A.I. e dal C.V.L..

  Una parentesi è qui necessaria perché non nascano confusioni e non mi si faccia dire di più di quel che posso dire e non mi si intenda al di là delle intenzioni. Dev’essere fatta, cioè, una netta distinzione tra il C.L.N.A.I. e il C.V.L. con sede a Milano, e il C.l.N. con sede a Roma. I due primi avrebbero dovuto funzionare come organi esecutivi del secondo, ma essi si trasformarono in organi legislativi e, sotto l’impulso di Luigi Longo, tentarono di imporre la loro legge ai dirigenti nazionali dell’antifascismo coalizzato. Il C.L.N. (romano), nonostante la presenza dei comunisti, degli azionisti (esponenti del Partito d’Azione, nda) e di Pietro Nenni, esercitò una efficace azione di freno senza la quale chissà a quali inimmaginabili eccessi saremmo arrivati. L’equilibrio e il patriottismo di Ivanoe Bonomi e di Alcide De Gasperi fecero particolarmente sentire il loro peso e, quando si saprà quale fu la loro azione in quei giorni, i giudizi di certa parte dell’opinione pubblica diventeranno assai più obiettivi (…). 

   Mi sono già implicitamente riferito alle ragioni per le quali l’Inghilterra non fece nulla per contrastare la ben conosciuta direttiva sovietica.L’Inghilterra non poteva non temere un processo davanti alla Corte internazionale di Giustizia in cui Mussolini si sarebbe difeso senza bisogno di interpreti perché alternativamente avrebbe parlato in francese ed in inglese ed avrebbe potuto muovere egli stesso le contestazioni in perfetta lingua tedesca ai coimputati nazisti e agli eventuali testimoni tedeschi. Il processo contro Mussolini sarebbe stato contemporaneamente un contro processo che avrebbe investito gli accusatori stessi ed in modo speciale quelli inglesi e quelli francesi. Però quanto alla responsabilità di aver impedito con gli accordi di Mosca, Teheran, Yalta, Casablanca e soprattutto con la decisione di imporre la resa senza condizione alla Germania e all’Italia, quella pace di compromesso che avrebbe potuto salvare l’Europa trattenendo L’U.R.S.S. al di là degli antichi confini, l’accusa di Mussolini contro Roosevelt e l’America sarebbe stata implacabile e quanto mai documentata. Le attuali opinioni di Churchill, di Truman, di Marshall e di Liddel Hard, sono le stesse opinioni che Mussolini aveva alla fine del 1944 (e poi dicano pure che era ridotto “un povero rimbambito”).(Le sottolineature sono di F.G.)>.

   L’articolo di Carlo Silvestri continua: <Mi si potrebbe domandare: “E come mai gli Americani non vollero la morte di Mussolini se essi pure avrebbero potuto e dovuto temere la molestia della sua voce di contro-accusatore davanti alla Corte di Giustizia internazionale? E’ facile le risposta. Quanto ai dirigenti politici inglesi seppero manovrare con tutte le arti della loro esperienza e con tutta la scaltrezza del loro Intelligence Service, altrettanto si mostrarono ingenui (e, dire, bambini) gli Americani. La revisione di giudizio dell’opinione pubblica americana su Roosevelt è ora in corso e procede con una tale rapidità inesorabile da far ritenere che la memoria di colui che fu definito il”Grande Presidente” sarà infine considerata quella della “più grande disgrazia) che ebbe l’America, l’Europa e il mondo. Ma in quel periodo in cui si sarebbe potuto prendere le decisioni che Mussolini suggeriva ed auspicava, Roosevelt era ancora dominante come un dittatore in guerra, e tutta l’America si riconosceva in lui. Poi Roosevelt morì, ma la vitoria che seguì a breve distanza scatenò l’euforia degli Americani e fece sì che essi per troppo tempo non sapessero vedere quali fossero gli effettivi problemi suscitati dalla folle politica di Roosevelt, la quale tutta si riassume nel tremendo dato che annichilisce obiettivamente la sua personalità: alla minaccia nazista che pesava sull’Europa si è sostituito l’incubo apocalittico dell’U.R.S.S. che sovrasta su tutto il mondo. (…).

   Mussolini aveva già scritto un paio di centinaia di cartelle per affidarvi gli appunti dei quali si sarebbe servito per la sua autodifesa. Per aver avuto il privilegio di averle lette e meditate, io ho la conoscenza esatta di ciò che Londra e Washington non possono ignorare. Appunto perché avevo questa conoscenza già nell’aaprile 1945, l’evidente favoreggiamento inglese dell’ordine russo di uccidere Mussolini non suscitò in me alcuna meraviglia (…)>. (Il grassetto è di F.G.)

   Sin qui Carlo Silvestri. Ma non è tutto, come vedremo; infatti Carlo Silvestri, non era un testimone di poco peso, di cui si potesse fare a meno. Giornalista di una certa notorietà, capo della redazione romana del “Corriere della Sera”, quando, nel 1924, scoppiò il caso Matteotti, era stato proprio lui a promuovere una  inchiesta giornalistica che tutta l’Italia seguì con passione, e fu lui a cercare e riunire e propagandare le prove – che a suo dire erano “schiaccianti” che inchiodavano l’allora Capo del Governo come responsabile della morte di Giacomo Matteotti. Ma Carlo Silvestri, dopo aver “lette e meditato” le cartelle di Mussolini, si trasformò da principale accusatore de Duce, nel suo più convinto e convincente difensore, riconoscendo che tutte le prove da lui raccolte erano false o errate.

   Durante il processo contro gli esecutori dell’assassinio di Matteotti, svoltosi nel 1947, alla Corte d’Assise di Roma, con queste parole Silvestri si rivolse al Procuratore Generale Giovanni Spagnolo: <Io mi rendo conto che se confermassi la mia vecchia deposizione, il caso Matteotti sarebbe facilmente risolto e i giornali del conformismo antifascista mi farebbero fare una figurona.  

Ma sarei onesto se consentissi che la storia seguita all’uccisione di Matteotti venisse scritta sulla base di documenti che io ora non mi sento più di sottoscrivere nella loro integrità? Sarei onesto se non rivelassi il mio preciso e definitivo pensiero, e cioè che Mussolini non fu il mandante dell’uccisione di Matteotti, la quale ebbe in realtà moventi antiproletari e antisocialisti?>. Eppure la “vulgata resistenziale” ancora oggi, e nonostante tutto ciò, attribuisce al Duce del Fascismo la responsabilità dell’assassinio del deputato socialista.

   Ma gli omicidi commessi a Dongo e altrove nei tristi giorni del 1945, gridano vendetta allora come oggi, in qualsiasi società civile.

   Da queste, poche righe si evidenzia la necessità di riparare un torto: anche facendo a distanza di sessant’anni quel processo che doveva essere fatto e non lo fu. Quel processo avrebbe potuto portare per all’Italia vantaggi inimmaginabili, primo fra tutti in merito a quel “Diktat” del 1947 che sarebbe stato meno ignominioso.

   E qui ci rivolgiamo alle persone oneste, al di là della parte politica nella quale militano: si è costituito a Roma un Comitato per ottenere quanto in questa sede abbiamo chiesto. Presidente è Guido Mussolini, nipote in linea diretta di Benito.

   Come abbiamo in precedenza scritto, si costituisca un Collegio d’accusa, uno di difesa e un Collegio giudicante. Ma questa volta si chiede la massima onestà d’intenti. Siamo propensi a che “il processo” si svolga anche in televisione, affinché siano i diretti interessati (gli italiani) a conoscere chi fu Benito Mussolini: un bieco tiranno oppure…

   Benito Mussolini il 3 marzo (45 giorni circa prima della morte) concesse una penultima intervista (l’ultima fu quella di Ivanoe Fossati il 30 dello stesso mese) alla giornalista tedesca Maddalena Collier, alla quale, fra l’altro disse: <Credo nella bontà del mio popolo. Adoro il mio popolo e non finirò mai di amarlo>.

   Venticinque giorni dopo ci furono le scene da “macelleria messicana”.

P.S. Il “Comitato per il processo a Benito Mussolini”, come detto presieduto da Guido Mussolini, ha necessità di entrare in contatto con i parenti degli assassinati a Dongo; e cioè con i parenti di: Pavolini, Mezzasoma, Zerbino, Coppola, Liverani, Daquanno, Porta, Utimperger, Barracu, Calistri, Casalinuovo, Gatti, Romano, Bombacci. Nonché con i parenti di Claretta e Marcello Setacci e di Storace.

Chiunque sia a conoscenza di quanto richiesto può inoltrare le notizie alla Redazione di questo periodico

 
   
 

SOLO  PER  AMORE  DELLA  VERITA’
di Filippo Giannini

<… il fascismo si impose attraverso l’uso sistematico della violenza>. (Paul Corner)

<Il fascismo fu sugli inizi un impeto di reazione all’internazionalismo comunista che negava la libertà della Nazione (…). Noi non condividiamo il parere di coloro i quali intendono condannare ogni azione fascista sotto la generica condanna della violenza. Ci sono delle situazioni in cui la violenza, anche se assume l’apparenza di aggressione, è in realtà una violenza difensiva, cioè legittima>. (Alcide De Gasperi)

Antonio Gramsci al III Congresso Comunista di Mosca, svoltosi tra il 22 giugno e il 12 luglio 1921, aveva auspicato che anche in Italia si realizzasse una rivoluzione bolscevica <sull’esempio di quella russa>.

<Tutti gli scritti di Mussolini dedicati alla questione russa andrebbero oggi riletti. Ci si accorgerebbe che tutto quello che abbiamo saputo dopo, ben poco in realtà siamo venuti a conoscere di cui egli non si fosse già allora perfettamente reso conto.In questo senso si può  dire che, dal 1923 Phillips (giornalista americano) cogliesse veramente nel segno, individuando una costante della dinamica mussoliniana – vide a nudo il comunismo e ne fu atterrito>. (Gaetano Salvemini)

<L’olio di ricino era una delle armi preferite dai fascisti; i casi recidivi venivano trattati col manganello  e – come ultima risorsa – con le pallottole>. (Richard O. Collins)

<Il fascismo ha avuto molti aderenti, dopo la fine della prima Guerra mondiale fra noi ufficiali perché si viveva in un clima di puro terrore. Si subiva pestaggi, bastonature. Numerosi furono assassinati per il solo fatto di portare le stellette>. (Ardito Desio)

<Anche se non si può provare un ordine diretto di uccisione (di Giacomo Matteotti), la responsabilità morale di Mussolini è piena, manifesta> (Antonio Spinosa)

<No, il duce non aveva alcun interesse a far uccidere mio padre, si sarebbe alienato per sempre la possibilità di una alleanza con i suoi vecchi compagni, che non finì mai di rimpiangere>. (Matteo Matteotti)

<Il primo equivoco su Mussolini fu di credere che fosse socialista (…). Lui crebbe nell’avversione ai padroni, all’ordine costituito, al sistema: e siccome gli pareva che questi “ideali” di rivolta fossero alla base del socialismo, si iscrisse al partito, nell’ala più estremista (…). Che sia stato crudele, contrariamente a quanto possono pensare coloro che lo confrontano con altri dittatori moderni, non vi è dubbio>. (Silvio Bertoldi)

<Mussolini è il più grande uomo da me conosciuto e senz’altro fra i più profondamente buoni; al riguardo ho troppe prove per dimostrarlo>. (Papa Pio XII)

Nel 1937 l’Italia chiese alla Società delle Nazioni il riconoscimento “de jure” del suo possesso abissino e il rappresentante rumeno, intervenendo disse: <Gli italiani vogliono che noi avalliamo la merda. E sia. L’avalleremo. Ma essi vogliono anche farci dichiarare che si tratta di marmellata di rose. E questo è un po’ troppo>.

<Quello che il signor Titulescu definiva merda era una vasta opera di civiltà, già iniziata con una imponente organizzazione sanitaria diretta da un Ispettorato Superiore e da Ispettorati Regionali, con laboratori d’igiene e profilassi, ospedali, ambulatori, infermerie, lebbrosari, centri specialistici, centri per la maternità e per l’infanzia, campi e stazioni contumaciali, servizi mobili di profilassi e servizi mobili oculistici. Inoltre migliaia di chilometri di strade già aperte, sette Corpi tecnici coloniali incaricati di presiedere ad altrettante attività, di cui il sanitario, l’agrario, il minerario e quello di polizia già funzionanti>. (Franco Monaco)

Secondo quanto ha scritto Francesco Malgari, questa era l’opinione di Luigi Sturzo, il padre della Democrazia Cristiana: <Sturzo non indaga sulle cause che determinarono le scelte economiche del fascismo, non giudica neanche i risultati, nel bene o nel male. Vi individua soprattutto un processo degenerativo, i cui effetti venivano a nuocere sulla mentalità e sul costume degli italiani: il fascismo, teorizzando il ruolo della mano pubblica nella vita economica, alimentava il parassitismo e la corruzione, creava un’aria “greve e soffocante”>.

<Per vari aspetti Mussolini era affascinante. Per anni gli stranieri di rilievo che vennero a Roma non avevano altro interesse che avvicinare l’uomo che, in condizioni estremamente difficili, dopo parecchi anni di anarchia e di caos era riuscito a rimettere ordine e ritmo all’intera vita dell’Italia moderna (…). Perché nel fondo l’animava un vero impulso di umanità. Sdegnoso di ogni ricchezza è sempre vissuto modestamente. Durante la vita conservò una viva simpatia per gli umili, per i contadini e per i lavoratori (…). Coloro i quali vogliono ad ogni costo raffigurarlo come un essere intrattabile, rude come il granito si ingannano completamente. Il potere non lo logorò per niente (…). Non possiamo enumerare i suoi atti di bontà (…). Il bilancio del fascismo? Ha nome: strade, autostrade, ferrovie, canali di irrigazione, centrali elettriche, scuole, stadi, sports, aeroporti, porti, igiene sociale, ospedali, sanatori, bonifiche, industrie, commercio, espansione economica, lotta contro la malaria, battaglia del grano, Littoria, Sabaudia, Pontinia, Guidonia, Carta del Lavoro, collaborazione di classe, Corporazioni, Dopolavoro, Opera Maternità e Infanzia, Carta della Scuola, Enciclopedia, Accademia, Codici mussoliniani, Patti Lateranensi, Conciliazione, pacificazione della Libia, marina mercantile, marina da guerra, aeronautica. Tutto ciò che ha fatto il Fascismo è consegnato alla Storia. Ma se c’è un nome che, in tutto questo dramma, resterà puro e immacolato, sarà quello di Mussolini> (Paul Gentizon, giornalista svizzero)

<Fascismo, male assoluto> (Gianfranco Fini)

<Il rapido progresso dell’Italia dopo la 2a guerra mondiale e il fatto che oggi è già in marcia verso uno sviluppo intensivo, sarebbe impensabile senza i processi sociali iniziati durante il periodo fascista>. (Mihaly Vajda)

<Mussolini faceva parte dell’organizzazione della soluzione finale>  (Riccardo Pacifici)

<Si giunse così al 1939, vale a dire allo scoppio della guerra e fu allora, all’insaputa di tutti, Mussolini diede inizio a quella grandissima manovra, tuttora sconosciuta o faziosamente negata anche da molti di coloro che invece ne sono perfettamente a conoscenza, tendente a salvare la vita a quegli ebrei che lo sviluppo degli avvenimenti bellici aveva portato sotto il controllo delle forze armate tedesche>. (Giorgio Pisanò)

<Quando la radio tedesca annunziò la liberazione di Mussolini e il suo ritorno all’azione politica, rimasi indifferente perché egli prese  la figura di un fantoccio di pezza, che ha perduto la segatura della quale era imbottito e pende e si piega floscio>. (Benedetto Croce)

<Di fronte alle incomprensioni dei tedeschi, alle rapine di quanto le fabbriche italiane producevano, alle ingiuste provocazioni, talora deliberatamente malvagie che gli infliggevano, come se lui dovesse pagare il tradimento del Re e Badoglio, sentii la grandezza dell’uomo che, senza più speranze di gloria, agiva come lo scudo, il solo scudo dell’Italia>. (Shinrokuro Hidaka, ambasciatore giapponese)

E ALLORA CHI ERA MUSSOLINI?

   Questo è il quarto articolo, che ha valore di “Comunicato” e che riguarda la nostra iniziativa per chiedere  un “processo a Mussolini”. Proseguendo nel nostro intento il “Comitato” si è riunito sabato 1 aprile nello studio dell’avvocato Luciano Randazzo. In quella sede si è prospettata la necessità di presentare una denuncia contro ignoti per “omicidio plurimo” (“plurimo” perché come semplice omicidio è prescritto).

   Quindi è necessario associare alla nostra iniziativa oltre ai successori di Benito Mussolini (Guido e Alessandra) anche i successori dei fucilati di Dongo, e cioè: Francesco Barracu, Nicola Bombacci, Pietro Calistri, Vito Casalinuovo, Goffredo Coppola, Ernesto Daquanno, Gian Luigi gatti, Augusto Liverani, Paolo Porta, Ruggero Romano, Idreno Utimperger, Paolo Zerbino, nonché i parenti di Clara e di Marcello Petacci e, anche quelli di Achille Storace. Per procedere ad una denuncia per “omicidio plurimo” i richiedenti debbono essere almeno quattro.

   Come ulteriore e forse più incisiva diffusione popolare dei fatti, ci dovremo preoccupare di contattare qualche produttore per presentare il “processo” in una delle principali reti televisive, così da richiedere alla fine una sentenza emessa da tutto il popolo italiano.

   A tutto ciò ne consegue un appello: quanti sono a conoscenza dei parenti dei personaggi sopra citati, per amore della Giustizia e della Verità, si attivino per contattarli e fornirci i loro recapiti.

   Certo sarà la Storia a stabilire quanto avvenne in quegli anni e dire se Mussolini fu un avventuriero o uno statista, o se le sue idee circa la necessità della collaborazione anziché della rovinosa lotta di classe siano concetti di poco valore o, invece, seme fecondo di vita e di civiltà.

   Qualunque sia l’effetto di quel che stiamo proponendo, miriamo in ogni caso ad un solo esito: che cessi il vilipendio dei cadaveri iniziato a Piazzale Loreto il 29 aprile 1945.

   Concludiamo questo “pezzo” con la seguente osservazione di Francesco Grisi: <Certamente chi diede l’ordine di uccidere Mussolini non si rese conto che i fucili non danno la morte>

 
   
 

Marzo 1936: l’Italia diventa autarchica

Lei afferma che le sanzioni furono, tutto sommato, poco efficaci. Beh, l’autarchia ci costrinse, fra l’altro, a fabbricare le scarpe con poco cuoio e molto cartone.
Cosicché mia madre, quando mi lasciava uscire, mi raccomandava di non rovinarle partecipando alle partite di calcio che i miei coetanei organizzavano con palloni improvvisati. Ovviamente non resistevo alla tentazione e, al rientro, spesso le buscavo di santa ragione.

Giorgio Vergili, giorgio.vergili@fastwebnet.it
Caro Vergili,
fra le sanzioni e l’autarchia esiste effettivamente un nesso molto stretto. Il discorso di Mussolini sulla politica autarchica, fu pronunciato all’Assemblea delle Corporazioni, in Campidoglio, il 23 marzo 1936, quattro mesi dopo la «punizione» inflitta all’Italia dalla Società delle Nazioni.
Il discorso comincia per l’appunto con un cenno all’«assedio » e annuncia una fase della storia italiana che «sarà dominata da questo postulato: realizzare nel più breve termine possibile il massimo possibile di autonomia nella vita economica della Nazione». Per raggiungere lo scopo, disse Mussolini, occorreva anzitutto «fare l’inventario».
Cominciò dai combustibili liquidi e ammise che le ricerche nel territorio nazionale non avevano dato «risultati apprezzabili ». Per il momento, quindi, occorreva fare affidamento sulla idrogenazione delle legniti, sull’alcol proveniente da prodotti agricoli, sulla distillazione delle rocce asfaltifere. Per i combustibili solidi disegnò un quadro più promettente: l’uso del carbone nazionale e l’elettrificazione delle ferrovie avrebbero consentito una drastica riduzione del carbone importato (dal 40 al 50%).
Per i metalli fu ancora più ottimista.
Parlò delle miniere di ferro, con particolare riferimento a quelle dell’Elba e di Cogne. Parlò della bauxite e della leucite, necessarie alla fabbricazione dell’alluminio, e degli altri minerali presenti nel territorio italiano.
I tessili occuparono, nell’inventario, uno spazio modesto.
L’Italia avrebbe ripreso la coltivazione del cotone e avrebbe dato una particolare importanza allo sfruttamento della ginestra.
La parte più interessante del suo discorso, tuttavia, fu quella in cui dette qualche indicazione sul «piano regolatore» dell’economia italiana. Non fu il primo piano quinquennale sovietico, terminato due anni prima, ma si trattò pur sempre di un progetto con forti connotazioni stataliste e sociali. Il commercio sarebbe rimasto ai privati, ma le banche e la grande industria avrebbero operato «nell’orbita dello Stato ». Ammise la possibilità di imprese miste, costituite con l’apporto di capitali privati, ma aggiunse che esse non avrebbero avuto, giuridicamente, il carattere delle industrie private. Parlò infine di «elevazione morale delle masse», della necessità di «accorciare le distanze fra le diverse categorie di produttori». E concluse dichiarando che «nel tempo fascista il lavoro, nelle sue infinite manifestazioni, sarebbe diventato il metro unico col quale si misura l’utilità sociale degli individui e dei gruppi».
Sono propositi e programmi che sarebbero stati condivisi da molte forze politiche antifasciste e che appaiono in alcuni articoli della Costituzione italiana.
Dietro questo disegno autarchico e corporativo vi era naturalmente la guerra. Negli anni seguenti, mentre la prospettiva del conflitto diventava sempre più vicina, cominciarono ad apparire sul mercato il lanital, il caffeol, l’Ital Rayon, l’orbace, i tessuti di ginestra, il vinidur, la benzina sintetica e altri surrogati, molti mediocri, altri frutto di ricerche che daranno nel dopoguerra risultati molto interessanti.
Le maggiori innovazioni in questo campo, comunque, non furono prodotte in Italia, main Germania e in in Gran Bretagna, vale a dire nei Paesi che avevano una industria chimica molto più sviluppata della nostra.
Ancora una osservazione, caro Vergili. L’autarchia divenne in Italia e in Germania un programma ideologico, strettamente associato ai caratteri nazionalisti e militaristi dei due regimi nella seconda metà degli anni Trenta.Mala tendenza è presente, soprattutto dopo la crisi del 1929, in tutte le economie industrializzate europee. Fu necessario attendere la fine della guerra e la progressiva liberalizzazione del commercio internazionale perché autarchia divenisse una brutta parola. Mi chiedo tuttavia se non sia ancora la segreta filosofia economica di tutti coloro che hanno paura della globalizzazione.
Corriere della sera, 7 giugno 2006

 
   
 

Italia e Urss: alti e bassi tra fascismo e comunismo

Estremamente interessante la rievocazione delle circostanze della nascita dell'accordo Fiat-Urss del 1966 per la creazione dello stabilimento di Togliattigrad ( Corriere, 22 gennaio) e il richiamo alla intermediazione di Piero Savoretti in un momento «pionieristico» degli scambi economici italo-sovietici.
Questo pionierismo, tuttavia, non sarebbe correttamente attribuibile solo ai tempi del secondo dopoguerra perché fu preceduto di oltre un trentennio da analoghe operazioni che videro fra l'altro ancora la Fiat in prima persona. L'idillio tra il governo italiano e l'Unione Sovietica tra il 1931 e il 1935 era stato preceduto dalla Crociera del Mediterraneo Orientale di Italo Balbo nel 1929.
Le prospettive offerte dal primo piano quinquennale permisero alla Fiat di realizzare uno dei primi stabilimenti «chiavi in mano» a Mosca nel 1932, forse il più grande del tempo, per la costruzione di cuscinetti a sfere. La Fiat si aggiudicò la commessa in competizione con la Skf svedese ed erano momenti in cui Ford costruiva in Russia un imponente stabilimento per la costruzione di autocarri.
I tecnici italiani, primi fra tutti Gaetano Ciocca e Ugo Gobbato, furono i giudici più attenti della realtà sovietica.
Gobbato in particolare fu poi chiamato dall'Iri al livello più elevato dell'Alfa Romeo e fu ucciso nel maggio 1945, nella «resa dei conti» post 25 aprile. Ma questa è un'altra storia. Dell'avventura italo-russa dei primi anni '30, ci restano ingiallite testimonianze delle migliori penne di allora che furono attenti visitatori nel Paese come Luigi Barzini, Corrado Alvaro, Corrado Tedeschi e Vittorio Beonio Brocchieri, solo per citarne alcuni.

Gianni Cattaneo , gianni-tredici@yahoo.it

Caro Cattaneo, quando Valletta andò a Mosca per il suo primo incontro con Krusciov e la dirigenza sovietica, volle visitare, alla vigilia dell'inizio dei negoziati, la grande fabbrica per cuscinetti a sfere che era stata costruita dalla Riv durante il Primo piano quinquennale. Fu un doppio omaggio: alla Fiat (la Riv apparteneva agli Agnelli e fu venduta alla Skf alla fine degli anni Settanta) e ai rapporti di amicizia che avevano legato i due Paesi fra le due guerre. Oltre agli esempi da lei citati è interessante ricordare che l'Italia fu il primo Paese dell'Europa continentale con cui l'Urss strinse rapporti diplomatici. Accadde nel 1924, quando il governo bolscevico non tenne alcun conto della posizione antifascista dei comunisti italiani e incassò con piacere il riconoscimento di Mussolini. Il volo di Balbo a Odessa ebbe luogo nel 1929, ma gli anni migliori furono quelli dopo l'avvento di Hitler, quando ambedue i Paesi diffidavano della Germania nazista. Il 2 settembre 1933 venne firmato un Trattato di amicizia, neutralità, non aggressione, e l'avvenimento venne festeggiato con un nutrito programma di visite militari e contratti per forniture navali: una visita di sottomarini italiani a Batum nel maggio 1933, una missione sovietica in Italia in settembre, una visita della marina dell'Urss a Napoli in ottobre, una squadriglia di tre aerei sovietici in Italia nell'agosto del 1934, la fornitura di due navi scorta costruite nei cantieri dell'Ansaldo nello stesso anno. Neppure la guerra d'Etiopia riuscì a raffreddare i rapporti fra i due Paesi. Nelle sue memorie, raccontate a Ferdinando Mezzetti e pubblicate qualche anno fa dall'editore Greco e Greco («Fascio e Martello», 1997) un diplomatico italiano, Guido Relli, racconta che il maresciallo Tuchacevskij visitò l'ambasciata d'Italia a Mosca nel 1936 per assistere alla proiezione di un film sulle operazioni militari contro le truppe del Negus. Guardò attentamente, fece domande, si congratulò con l'ambasciatore e l'addetto militare. I rapporti divennero più freddi, naturalmente, durante la guerra civile spagnola. Ma vi fu ancora una fase, nell'estate del 1940, in cui il ministro degli Esteri Molotov propose all'Italia un accordo per la spartizione delle sfere d'influenza nel Mar Nero simile a quello che l'Urss aveva concluso con la Germania nell'agosto del 1939 per la Polonia e il Baltico. All'origine di questi incontri e di queste intese vi fu principalmente la convinzione che l'Italia e la Russia sovietica avessero qualche buon motivo politico ed economico per andare d'accordo. Ma vi fu anche, per quanto possa sembrare paradossale, un sentimento che potremmo definire di attrazione reciproca. Esisteva nel fascismo di sinistra una certa simpatia per l'Urss, ed esisteva a Mosca una certa curiosità per il regime di Mussolini. Lei ha citato giustamente un libro di Corrado Alvaro del 1935 («I maestri del diluvio, viaggio nell'Urss», ora nuovamente pubblicato dall'editore Falzea). Le consiglio a mia volta, se riuscirà a trovarne una copia, la lettura dell'«Ultimo treno da Mosca» di Sandro Volta, un libro pubblicato da Rizzoli nel maggio del 1943, quando eravamo in guerra con l'Urss, ma non privo di qualche riconoscimento per i risultati del regime sovietico.
Corriere della sera, 22 febbraio 2006

 
   
 

LA  GRANDE  MASCALZONATA
di Filippo Giannini

   Dopo le riprovevoli e ripetute rappresentazioni su tutti i “mass-media” avvenute in occasione della ricorrenza della “Giornata della Memoria” del 27 gennaio, leggo su “Il Messaggero” del giorno successivo: “Nasce il museo dello Shoah nel cuore di Villa Torlonia”. E’noto che Villa Torlonia fu, per un certo periodo, la residenza di Benito Mussolini, con questa iniziativa si vuole rafforzare la tesi della responsabilità del Duce nelle malefatte – reali, supposte o false che siano – di Hitler.

   Il 25 aprile 1945 Luigi Longo, uno dei massimi esponenti del Pci e quindi del CLNAI (Comitato Italiano Liberazione Alta Italia), nell’impartire disposizioni per l’esecuzione della condanna a morte del Duce, ordinò: <Lo si deve accoppare subito, in malo modo, senza processo, senza teatralità, senza frasi storiche>.

   A distanza di oltre sessant’anni ancora si parla di questo argomento. Perché?

   Per avere una visione più chiara della infinita serie di mascalzonate che vengono quotidianamente “scaricate” su quell’uomo, è necessario partire dal “Trattato di Pace” del febbraio 1947 (indicarlo come “iniquo” è riduttivo) ricordiamo quanto recita l’articolo 17 (Sezione I – Clausole Generali): <L’Italia, la quale, in conformità dell’art. 30 della Convenzione di Armistizio, ha preso misure per sciogliere le organizzazioni fasciste in Italia, non permetterà, in territorio italiano, la rinascita di simili organizzazioni>. E i “politici” italiani che si sono succeduti dal 1945 ad oggi, si sono piegati vergognosamente a questo “diktat”, inventando, manipolizando e storpiando la storia, non curandosi minimamente, per giungere allo scopo prefisso, di infangare la memoria di un morto che operò in modo completamente difforme dalle accuse di cui è stato fatto carico.

   Una qualsiasi persona di media intelligenza si dovrebbe chiedere: “cosa può interessare ad una grande democrazia (sic), come quella americana se ci sia o meno un movimento fascista in Italia?”. La risposta la dette proprio Mussolini in una delle sue ultime interviste: “Le nostre idee hanno spaventato il mondo”; per “il mondo” intendeva quello del grande capitale, la plutocrazia, l’imperialismo liberista. E allora, ecco la necessità delle grandi menzogne, delle mascalzonate.

   “L’operazione demonizzazione del fascismo” è sviluppato su diversi tentacoli; leggiamo, sempre su “Il Messaggero”, stessa data, pag, 41: <A scuola. Lezioni, mostre e percorsi virtuali nei campo di sterminio>. In pratica dei nostri ragazzi “il sistema” ne fa degli automi, il cui carburante è la menzogna. E allora facciamo un po’ di storia, quella documentata e documentabile.

   Per costruire il mostro (e i mostri) si è costruita un’accusa che riteniamo la più infamante e la più menzognera: l’essere stato Mussolini un vessatore e il responsabile della consegna degli ebrei ai tedeschi. I detrattori, per rendere l’accusa più plausibile hanno coniato il sostantivo “nazifascista”, termine dispregiativo tendente ad accomunare in un’unica responsabilità fascismo e nazismo sulle atrocità commesse da quest’ultimo, sempre che queste non siano frutto di una enorme montatura, come molti studiosi sostengono.

   Le diversità dottrinali fra fascismo e nazionalsocialismo sono evidenziate da diversi studiosi e, tra questi, citiamo un’osservazione di Renzo De Felice (“Intervista sul Fascismo”, pag. 88): <Fra fascismo italiano e nazismo tedesco ci sono semmai più punti di divergenza che di convergenza, più differenze che somiglianze>. Infatti, e lo dobbiamo ricordare, anche se l’ebraismo internazionale si era schierato contro il Fascismo, sia nella guerra civile di Spagna che nel decretare le sanzioni, per continuare poi negli anni successivi. Mussolini impose per il problema ebraico le leggi razziali (certamente odiose e inique), ma con l’ordine “discriminare, non perseguire”. Stabilito ciò, e stabilito che <il fascismo fece propria la dottrina razziale più per opportunità politica – evitare una difformità così stridente all’interno dell’Asse – che per interna necessità della sua ideologia e della sua vita politica> (ibidem, pag. 102).

   Trattare l’argomento “fascismo – ebrei” è stato (e lo vediamo, lo è ancora) un cozzare contro un muro eretto dall’antifascismo internazionale, muro costruito e cementato da falsità che con la Storia non hanno nulla a che vedere. Vediamo, allora, di cercare un varco che possa dipanare le nebbie artatamente montate e avvicinarci a qualche sprazzo di verità.

   Un attento studioso dell’”Olocausto ebraico” (specifichiamo “ebraico”, perché di “Olocausti” se ne dovrebbero ricordare ben altri, dei quali i “nazifascisti” o non ne erano responsabili o, addirittura, ne furono le vittime), Mondekay Poldiel, scrive: <L’Amministrazione fascista e quella politica, quella militare e quella civile, si diedero da fare in ogni modo per difendere gli ebrei, per fare in modo che quelle leggi rimanessero lettera morta>. Per i “duri d’orecchi” Poldiel scrive che TUTTI (anche i fascisti, come sarà rimarcato anche più avanti) non solo non “perseguirono”, ma neanche “discriminarono”, questo almeno fino a quando… ma andiamo con ordine.

   Per dimostrare quanto fosse lontana dal pensiero mussoliniano la “questione ebraica” è da ricordare che nel 1934, in occasione dell’incontro con Weizmann , Mussolini concesse tremila visti a tecnici e scienziati ebrei che desideravano stabilirsi in Italia. Nel 1939 (attenzione alla data) vennero aperte le aziende di addestramento agricolo, le “haksharoth” (tecniche poi trasferite in Israele) che entrarono in funzione ad Airuno (Como), Alano (Belluno), Orciano e Cevoli (Pisa). Così, sempre in quegli anni, nei locali della Capitaneria di Porto, la scuola marinara di Civitavecchia ospitava una cinquantina di allievi che poi diverranno i futuri ufficiali della marina da guerra israeliana.

   Tutto ciò – e tanto altro ancora – può essere un sufficiente esempio per illustrare il criterio delle applicazioni delle “Leggi Razziali” in Italia.

   Quanto sin qui scritto è solo l’inizio della lunga storia che riguarda i rapporti fra fascismo e gli ebrei. La documentazione più completa è contenuta nel mio libro di prossima pubblicazione, ma desidero porre alcune domande ai detrattori, ai dispensatori di ingiurie maramaldesche scagliate un po’ per ignoranza e molto per un bieco, ignobile, servile tornaconto contro un uomo che tutto il mondo ci invidiava:

  • perché non spiegate alle scolaresche e ai telespettatori cos’era la DELASEM? Da chi fu autorizzata? Che funzioni svolgeva? E, soprattutto, in quali anni operò?
  • Perché gli ebrei tedeschi, austriaci e quelli che vivevano nei Paesi occupati dalle truppe germaniche si rifugiavano nell’Italia fascista? Eppure, sapete bene che nell’Italia fascista vigevano le leggi razziali?
  • Perché quegli stessi ebrei non chiedevano asilo ai “Paesi democratici” o, meglio ancora, nel “paradiso sovietico”.
  • Perché non ricordate quanto hanno scritto su questo argomento storici ebrei come Mondekay Poldiel, Rosa Paini, George L. Mosse, Menachem Shelah, Emil Ludwig? E questo è solo un frammento di quanto c’è da raccontare e da scrivere, solo se si anelasse alla verità.
  • Perché non parlare sempre di personalità ebraiche come Ludwig Gumplowicz, Cesare Goldman, Duilio Sinigaglia, Aldo Finzi, Dante Almasi, Guido Jung, Margherita Malfatti e mille altri ancora?
  • Perché non ricordare gli ordini che dette Mussolini al generale Robotti dopo la visita di Ribbentrop?
  • Perché non far presente quando e in quale occasione i tedeschi misero le mani su tanti infelici sino a quel giorno al sicuro dietro ad uno “scudo protettore”?
  • Quindi, e di conseguenza, sarebbe fuori luogo asserire che gli ebrei furono consegnati alle camere a gas (sempre che siano esistite realmente) dal primo governo antifascista?
  • Sì, perché, perché. Perché?
  • Ma un altro perché, e non è male ricordarlo, è doveroso porlo,  anche se è drammatico e frustrante. Perché i discendenti del Duce (a parte Donna Rachele) mai nessuno si erse, o si erge a difenderne la memoria? Eppure le possibilità non erano, e non sono ancora mancate.

   E allora: maestri, genitori, per contrastare almeno parzialmente questi vili attacchi, cercate la verità e parlatene con i vostri scolari, i vostri studenti, i vostri figli.

   “Quell’uomo” non merita davvero quanto questo infido sistema, per sopravvivere a sé stesso, opera per infangarne la memoria.

  P.S. Dato che intendo andare avanti su questa strada, saputa la persecuzione cui sono stati oggetto David Irving, René-Louis Berclaz, Ernst Zündel e altri, prendo a spunto una frase che avrebbe detto “qualcuno” a la faccio mia: <Ora preparate la mia orazione funebre>.

 
     
     
   
 

“Italiani brava gente ?”
di Filippo Giannini

   I lettori più fedeli e più attenti ricorderanno che nel mio precedente articolo “Dedicato all’ignara signora Federica Sciarelli – IMPOSTURE PER ‘CAVOLI A MERENDA’”, fra l’altro scrissi: <Una settimana prima la brava Federica Sciarelli ci impose nuovi “cavoli a merenda” dimenticando i veri motivi della trasmissione (si tratta di “Chi l’ha visto?”), chiese ai telespettatori: “Italiani brava gente?”. “No” sentenziò la conduttrice, “perché durante la guerra gli italiani (ovviamente in camicia nera) in Jugoslavia commisero numerose atrocità”>. Al termine dell’articolo presi l’impegno di tornare sull’argomento proposto dalla signora Sciarelli, cosa che mi appresto ad assolvere.

   Se San Giovanni (Vangelo, 8, 32) ammoniva: <Dite sempre la verità, e la libertà vi farà liberi>, Lenin rispondeva con una affermazione raccolta prontamente da Antonio Gramsci e dai suoi discepoli: <La menzogna in bocca a un comunista è una verità rivoluzionaria>. E’ noto che la rete televisiva Rai/3 affonda le sue radici nelle “verità rivoluzionarie” di Lenin e i suoi redattori da bravi discepoli sparano menzogne contro chi non dispone di alcuna arma per confutarle. Ecco, quindi, che la gramsciana “verità rivoluzionaria” rimane tale nella sua demoniaca stupidità.

   Per inquadrare quanto siano lontane dalla verità le affermazioni della Sciarelli, è necessario fare un breve, ma ovviamente incompleto, excursus storico.

   Da secoli la cosiddetta Jugoslavia ha vissuto in una impossibile convivenza fra le 14 etnie e le numerose minoranze che la componevano; ognuna delle quali, da sempre scossa da quattro contrastanti religioni. Ogni etnia e minoranza costantemente in conflitto con le altre, ha generato bagni di sangue che hanno caratterizzato la storia di quell’area balcanica. Lo stesso è avvenuto anche durante l’occupazione della Jugoslavia da parte dell’Asse dal 1941 al 1945 (e oltre).

   Nora Beloff (“Storia Illustrata”, n° 350) dopo aver attestato che la lotta partigiana di Tito <fu soprattutto una feroce guerra civile per il potere>, aggiunge: <Molto pochi erano gli jugoslavi che simpatizzavano per l’Asse; la maggioranza si sentiva vicina agli Alleati, ma era anche anticomunista, sicché i partigiani furono impegnati principalmente a combattere non le forze dell’Asse ma i loro stessi compatrioti>. Questo è tanto vero che nella conferenza di partito (comunista) del maggio 1941, Tito ordinò una serie di azioni non contro le forze italo-tedesche, ma contro i cetnici e i croati ustascia. E, ancora una volta ad un massacro ne fece seguito un altro, in una monotona, tragica continuità. Fu come ha scritto Nora Beloff <una guerra civile di tutti contro tutti e non – come comunemente si crede – la feroce risposta dell’occupante alla altrettanto feroce resistenza dell’occupato>.Se alla fine del conflitto le popolazioni di quelle terre dovettero lamentare la perdita di oltre 2.200.000 persone, cioè circa un ottavo del suo popolo, ciò si deve non alla persecuzione degli occupanti, ma alle feroci lotte tribali.

   <Se gli ustascia e i cetnici perpetravano le uccisioni di massa accecati dall’odio, i comunisti uccidevano a sangue freddo, in modo calcolato, tutti coloro che potevano rappresentare un ostacolo sulla via del comunismo>. Altri, invece, i bosniaci del Primo corpo partigiano, con una direttiva emessa nel 1943, autorizzavano i massacri delle popolazioni civili delle altre etnie, ammonendo: <Spesso la confisca dei beni non è una punizione sufficiente per le regioni fedeli ai cetnici. Vi sono casi in cui è necessario incendiare interi villaggi e distruggere la popolazione>. Continua l’articolista: <Tutti, gli ustascia, i cetnici, i serbi, i croati e i musulmani, presero ad uccidersi gli uni con gli altri, e quando si adoperava il coltello non c’è differenza fra una croce, una mezzaluna, una coccarda tricolore, una lettera U o una rossa: il dolore è uguale>.

   Come dimostrerò in un mio prossimo volume, le truppe italiane (sì, signora Sciarelli, anche e soprattutto quelle in camicia nera) furono impegnate principalmente a interporsi fra le varie etnie intente a massacrarsi fra loro, come accadde a Livno dove furono uccisi 112 cittadini, a Glivna 650. A Knin vennero impiccati tutti i quarantasette rabbini e gli ebrei superstiti della zona vennero posti in salvo, su ordine di Mussolini,  che li fece trasferire in Calabria. Gli abitanti dei villaggi chiedevano la protezione delle nostre truppe. A Knin e dintorni i cittadini presentarono una petizione corredata da 100 mila firme con la quale chiedevano l’annessione della loro cittadina all’Italia e la cittadinanza italiana. Molti giovani si arruolarono nel Regio Esercito e la maggior parte di loro, circa un migliaio, dopo l’8 settembre 1943, per difendere le loro genti, continuarono la lotta antipartigiana nelle file della RSI.

    E’ bene sapere che, a seguito dell’attività partigiana a danno delle nostre truppe, si ebbero numerosi casi di uccisioni di nostri militari. Le Convenzioni Internazionali di guerra, allora vigenti, ci concedevano la rivalsa della rappresaglia. Questa fu solo raramente messa in atto (1), ma su sollecitazioni del nostro Comando Militare e in base ad un bando di Mussolini, fu istituito un Tribunale Speciale militare che esaminò i casi di 1.866 denunziati (quasi tutti passibili, per le citate Convenzioni, di essere passati immediatamente per le armi): 941 per detenzione di armi semplici o connesse a omicidi e rapine; 538 per insurrezione armata, attentati o terrorismo; 387 per banda armata o assistenza a banda armata. 719 furono prosciolti; 270 assolti in giudizio; 159 condannati con la condizionale e 518 a pene detentive. Le sentenze capitali furono 58, 47 delle quali eseguite.

   Il 7 giugno 1941 Mussolini decise di nominare Giuseppe Bastianini Governatore della Dalmazia con l’ordine di <tenere la mano ferma, ma non dura>. Ma dovette fare i conti con i partigiani, il terrorismo e gli ustascia. Ed ora vediamo i “danni arrecati dal fascismo anche” in quelle terre.

   Da un articolo di Antonio Pitamitz (“Storia Illustrata”, n° 346) riporto un primo rapporto di Bastianini che chiarisce quale fossero i rapporti iniziali con la popolazione locale. Bastianini scrive: <Le iscrizioni alla Gil (per i lettori che non lo sapessero, la Gil era l’organizzazione fascista della gioventù) procedevano in modo soddisfacente, e non erano obbligatorie>. Il Governatore aggiunge: <Noi inculchiamo in loro quello che millenni di civiltà hanno dato alla nostra cultura; se essi volessero rinunciarvi, noi non li terremo a viva forza né a scuola né a casa, apriremo ben larghe le porte delle nostre frontiere per lasciare uscire chi non vuole essere o non si sente degno di tale privilegio>.

   Pitamitz scrive che ad avvicinare di più la popolazione croata agli italiani contribuì, per tragico paradosso, la lotta armata e terroristica dei comunisti, con la quale, secondo la logica del terrorismo, forse si voleva fare il vuoto intorno a loro.

   Bastianini decise di affrontare il problema cercando di unire gli interessi dei dalmati-croati a quelli dell’Italia con “un’opera di civiltà”. Volle farlo attraverso una azione di “pace e di penetrazione pacifica verso coloro che gli italiani consideravano, a torto o a ragione, fratelli”. Invito gli estensori di Rai/3 a contestare quanto scrisse in “Oltre la disfatta” Carlo Bozzi, che fu Segretario generale del Governatore della Dalmazia: <A questo fine, in quella regione furono dispiegati mezzi notevoli>. E passa alla documentazione. Tra il 1941 e il 1943, esattamente mentre in Italia la situazione alimentare era più che seria (chi scrive queste note, anche se bambino lo ricorda bene, si viveva con una razione di 150 grammi di pane al giorno), decine di migliaia di quintali di generi alimentari vennero inviati a quelle popolazioni anch’esse stremate dalla fame. Nel territorio sotto controllo delle nostre truppe, mancava un’organizzazione sanitaria statale, come esisteva in Italia e le scuole quasi non c’erano. Perciò nelle tre province furono istituite 27 condotte mediche, che vennero affidate a ufficiali medici combattenti. Per l’assistenza alle future madri, vennero dall’Italia le ostetriche, volontarie o comandate.

   Furono organizzati un autotreno e una motobarca sanitari per raggiungere i centri più piccoli e periferici e le isole. Nel bilancio dei primi dieci mesi di governatorato, contenuto nel rapporto dell’aprile 1942 – il testo era bilingue italiano e croato – Bastianini ha ricordato che nel loro primo giro, in un mese gli specialisti dell’autotreno avevano compiuto 4.862 visite, e quelli della motobarca 2.405.

   Ma i “danni compiuti dal fascismo” non si fermano a questi dati. All’”Opera Nazionale Combattenti” era stata affidata, ricorda ancora Bastianini, la bonifica di 76.000 ettari dei territori di Laurana e Bocagnazzo-Nona (in croato: Bokahjac-Nin), ed erano stati distribuiti 1.200 ettari a 1.050 contadini. “I danni” continuarono con l’avvio di una riforma agraria che, alla data del rapporto, registrava 22.000 domande di contadini per accedere ai benefici di legge previsti. Particolarmente notevole in quei dieci mesi era stato lo sforzo compiuto dal governatore nel settore della scuola. Vennero impiegati 531 maestri italiani e 550 croati. Oltre a ciò, per sfatare l’altra “verità rivoluzionaria” circa l’italianizzazione forzata, si deve ricordare che nel 1941, 52 giovani italiani e 211 croati erano andati a studiare nelle università italiane, usufruendo borse di studio. A tante “atrocità commesse dai fascisti italiani” come rispondevano i civilissimi comunisti? Lo scrive Pitamitz: <Non si può dimenticare che chi lo faceva (il contadino che usufruiva dei vantaggi della riforma agraria o il giovane che andava a studiare in Italia, nda) si esponeva al rischio di essere accusato, dai croati più estremisti o dai comunisti, di “tradimento”, di essersi “venduto” agli italiani, ai fascisti. Il 24 settembre 1941, a Spalato il croato Zvonimiro Petraello, simpatizzante per l’Italia fu pugnalato a morte>.

   Da qualche tempo, ma sempre a ritmo alternato, si è cominciato a parlare delle “foibe”, una ignominia tutta “rossa”, come ignominia è cercare giustificazioni. E quella ricordata dalla signora Sciarelli è una “giustificazione” tendente ad ammorbidire la responsabilità dell’assassinio di 20-30.000 italiani di quelle terre. Dal dopoguerra, per decenni, se ne era persa la memoria, poi dal teatrino della politica italiana si affacciò quello spettro che, se non riportato nella bara, avrebbe potuto dar fastidio a coloro che detengono  il potere di questo sventurato Paese. Gli esecutori materiali di quei misfatti erano comunisti slavi e comunisti italiani e, allora, era necessario trovare una nuova “verità rivoluzionaria”.E non si tardò molto a trovarla. D’altra parte non è questa una Repubblica antifascista? Non è forse vero che i fascisti non hanno accesso né a emittenti radio o televisive, né a un importante editore o a giornali di ampia diffusione, in altre parole che non dispongono di alcun mezzo per contestare le accuse che da oltre sessant’anni quotidianamente vengono su loro scaricate? Se tutto ciò è vero, il gioco è fatto: le “foibe”? Colpa dei fascisti che durante l’ultimo conflitto misero in atto dissennate rappresaglie, ingiustificate fucilazioni di inermi cittadini, incendi, ecc. ecc..

  • La più feroce si ebbe il 16 novembre 1942, quando il generale Cigala Fulgosi, fece bombardare il villaggio di Capocesto, dove nei suoi pressi venti marinai italiani erano stati massacrati (e i cadaveri orrendamente oltraggiati) mentre erano intenti a riparare una linea telefonica distrutta per sabotaggio.

Mario Sorrentino, combattente in Russia, dopo l’8 settembre 1943 non ebbe alcuna esitazione: si arruolò nelle file della repubblica Sociale Italiana. Dalle pagine del Suo “Diario” riporto una parte nella certezza che Lui stesso la dedicherebbe volentieri ai “Signori” di Rai/3 e, in particolare alla trasmissione “Chi l’ha visto?”:

   (…) La notte passò lenta e all’alba uscimmo tra i binari in attesa del nostro treno che si stava formando.Qualche cosa di strano colpì la nostra attenzione fino ad assorbirla completamente.

   La sera prima un lungo convoglio di vagoni merci era stato portato sulla linea. Tutte le carrozze erano chiuse, sigillate. Un rumore oscuro partiva da esse, tale che noi credemmo si trattasse di trasporti di bestiame. Uscendo insonnoliti, al mattini vedemmo il treno ancora lì, e incuriositi ci avvicinammo.

   Era scortato da ùstascia, quei terribili soldati croati eredi di tutta la crudele anima balcanica. Le finestrelle in alto erano sbarrate, e graticciate di fil di ferro. Erano una trentina di vagoni, gremiti di serbi deportati dai croati.

   Quelli che potevano se ne stavano arrampicati alle sbarre delle finestrelle e leccavano su di esse l’umidita’ della notte. Si tenevano sù a forza di braccia e la loro gola lasciava vedere i tendini tesi che sembravano spezzarsi da un momento all’altro. I loro occhi esprimevano lo spasimo.

   Dall’interno giungeva sino a noi, nel fetore opprimente della promiscuità, l’eco selvaggio della sofferenza e della miseria.

   Accenti lamentosi di bimbi, grida isteriche di donne, voci rauche di uomini resi folli dalla paura e dal tormento. Inferno dantesco lasciato indovinare dalle pareti dei vagoni, sorde e mute.

   “Cavalli 8, uomini 40”. In tutte le lingue del mondo, su tutti i vagoni merce. E su quelli, centinaia di infelici a brancicare nello sterco e nel buio. L’odore della carne ammassata e sudante faceva torcer la testa e stimolava  i conati del vomito.

   Ho visto una volta un autocarro di pecore traversare, puzzando, una via della mia città. Erano ingabbiate e in ordine e avevano il loro strame, compiansi quelle bestie. E quelli erano uomini. Di quell’umana specie di cui, da secoli, si proclama la dignità e la libertà. Ed altri uomini li avevano rinchiusi lì dentro. Gli uni si chiamavano serbi, gli altri croati, e nessuno più “uomo”.

   Lo sgomento e lo sdegno erano nei nostri cuori. Avevamo vent’anni e andavamo a combattere perché fosse resa giustizia al popolo italiano. Stavamo attoniti dinanzi al vagone. Qualcuno di quei disgraziati  ci scorse, lesse nei nostri occhi, riconobbe la nostra uniforme e la pietà che non aveva dai fratelli, la chiese a noi, ai nemici.

Una voce lamentosa, disse in un rantolo:  “Bono taliano, VODE’”.

   Gli italiani hanno dipinta sul volto la loro bontà o dabbennaggine. Tutto il mondo, quando non ci opprime o deruba, quando ha bisogno di noi, dice: “Bono, taliano”.

   Quella voce aveva un accento di bestia. Quella parola “acqua” incendiò il vagone, e subito, lungo tutto il convoglio, fu un solo tremendo coro, una allucinante richiesta: “Vodè’ vodè”, “Acqua, acqua”.

   Non bevevano, in luglio, da tre giorni.
Fui colto da una sete irresistibile, che mi arse la lingua, mi fece secca la pelle e mi annebbiò lo sguardo.

   “Bono taliano, vodè’, vodè”.

   E questi “boni”, stupidi italiani, che son sempre tali con gli altri e mai con sé stessi, questi “boni taliani” che eravamo noi sedici, venimmo alle mani con la scorta, la sopraffacemmo e demmo a quei Cristi sulla Croce, quasi tutti ebrei, non aceto, ma acqua.

   Lavorammo come invasati un’ora e più. Li vedemmo bere e bere. Vedemmo i figli strappare l’acqua da sotto la bocca dei padri, vedemmo una mamma che serbava un pò d’acqua nel portasapone per il suo bambino. Demmo acqua e poi acqua, coi secchi e con le boracce. Loro si attaccavano al collo avidi, ed era più la perduta che la bevuta.

   Continuammo finché fu necessario, portando acqua, bestemmiando la nostra pietà e la crudeltà degli ùstascia, finché tutti ebbero bevuto, finché vedemmo i loro occhi, a poco a poco, farsi chiari, tornare umani, le loro facce distendersi. Qualcuno vomitava e vomitava acqua.

   Mentre il nostro treno si avvicinava, uno di noi, il romano Donati, che più degli altri aveva lavorato e imprecato, prese, prima di allontanarsi, la sua razione di viveri a secco e la getttò su di un vagone. Tutti facemmo così, e rimanemmo digiuni, mentre sui vagoni si contendevano, a morsi e pugni, le nostre gallette.

   Povero Donati, chi Ti ammazzò, un anno dopo, se non gli stessi, o i figli o i fratelli degli stessi, cui tu avevi dato la tua galletta?

   Ti uccisero …”Porco taliano”.
 
   
 

Caro dottor Augias…
di Filippo Giannini

   Se prendessimo una palla di gomma e la immergessimo nell’acqua la palla schizzerebbe fuori. Se ripetessimo l’operazione tante volte, otterremmo sempre lo stesso effetto.

   Sono molto più di sessanta anni che almeno dieci volte al giorno si parla di Mussolini e del fascismo, eppure dovrebbe essere morto il primo e sconfitto il secondo. Ecco perché l’abbinamento palla-Mussolini: più si parla del Duce più il Duce “schizza” fuori, ostinatamente. Perché?

   Lei, dottor Augias, ha capito che mi riferisco alla trasmissione “Enigma” di venerdì 29/7, che aveva come tema Claretta Petacci: “l’amante, la spregiudicata, la cortigiana e, addirittura, la spia”, come ho avuto modo di ascoltare.

   Certo, Lei ha avuto l’accortezza di avvertire il pubblico che quella puntata non aveva “valore storico”, ma di semplice “rievocazione”. Mi perdoni, ma questa avvertenza l’ho interpretata come una mistificazione, e mi spiego. Dato che in quella trasmissione sono stati tirati in ballo nomi di personaggi storici che, nonostante  siano stati “condannati dalla storia senza appello”  e baggianate del genere, sono tutt’ora al vaglio della Storia (quella seria); dato che erano presenti “storici” e giornalisti, presenza dovuta non ad una visita di cortesia, ma per discettare su quei personaggi, di conseguenza la Sua trasmissione non poteva essere interpretata come una semplice chiacchierata salottiera. A questo punto mi permetto di chiederLe: perché non era presente anche uno storico “revisionista”? Ahi, ahi, ho citato il termine “revisionismo”, termine malefico da “far tremare le vene e ipolsi” da Ciampi in giù.

   Se fossi stato presente alla trasmissione, pur di fronte a “cotanto senno” avrei osato dire che non ero d’accordo su nulla. Nella trasmissione, tanto per “non cambiare”, è stato di nuovo accusato Mussolini di <aver trascinatol’Italia in una guerra disastrosa>. Ovviamente contesto anche questo assioma, e mi spiego: il programma fascista prevedeva – e molto era stato già fatto -  un “ordine Nuovo Mondiale”  nel quale non c’era più posto per i possessori dell’oro, né per gli accaparratori delle ricchezze mondiali, tanto meno per gli sfruttatori dell’uomo sull’uomo. Bernard Shaw profetizzò, il 13 ottobre 1937, nel corso di un’intervista al “Manchester Guardian”: <Le cose da Mussolini già fatte lo condurranno prima o poi ad un serio conflitto con il capitalismo>. Così fu. Tutto venne programmato alla perfezione: si iniziò con una serie di provocazioni: prepararono l’attacco italiano all’Etiopia; poi il capitalismo si schierò nella guerra di Spagna con i “rossi”; ma il colpo più grosso era in preparazione. Ha scritto Rutilio Sermonti (“L’Italia nel XX Secolo”): <La risposta poteva essere una sola: perché “esse” volevano un generale conflitto europeo, quale ‘unica risorsa’ per liberarsi della Germania – formidabile concorrente economico – e, soprattutto dell’Italia. Questo è necessario comprendere se si aspira a capire la realtà storica: ‘soprattutto dell’Italia’>. Anche Winston Churchill è sulla stessa linea (“LaSeconda Guerra Mondiale”, 1° Volume, pag. 209): <Adesso che la politica inglese aveva forzato(!) Mussolini a schierarsi nell’altro campo, la Germania non era più sola>. Della stessa idea sono De Felice, lo storico inglese George Trevelyan e tanti altri. Ora mi chiedo e chiedo ai saputoni presenti alla trasmissione: sapete che nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma esiste un modulo di telegramma che il Duce stilò, poco prima della dichiarazione di guerra, e indirizzato a: <S.M. il Re, Sant’Anna: (…) l’Italia si limiterà almeno nella prima fase del conflitto a un atteggiamento puramente difensivo alt Francesi e inglesi ci hanno fatto sapere che faranno altrettanto (…).>. Che vogliono dire queste parole? Non dovrebbero scuotere la curiosità degli “storici”, se tali sono? Perché solo chi scrive queste note – che non è uno “storico” – ha rintracciato questo documento e lo ha riportato nel suo libro, insieme ad un altro tanto importante da far dire all’ambasciatore Pietro Gerbore in un’intervista rilasciata a “Il Giornale” dell’aprile 1978: <C’è un documento unico. Di rado, nella storia della diplomazia, una decisione come quella del 10 giugno 1940 è illuminata da un retroterra altrettanto minuzioso e coerente. Non è sconosciuto, i pochi intenditori lo chiamano dal nome del suo autore: ‘Il Rapporto Pietromarchi’>. E’ auspicabile che i sapientissimi storici presenti alla trasmissione ne abbiano almeno sentito parlare. Il “Rapporto” (che poi sono due) è di tale importanza che è stato riportato (entrambi i “Rapporti”) per intero nel libro del quale è autore chi scrive queste note. E credo anche di essere stato l’unico.

   Se <aver trascinato l’Italia in una guerra disastrosa> fu la colpa di Mussolini, invito i presenti alla trasmissione ad una risposta, partendo prima da una premessa. La situazione politico-militare europea nel giugno 1940 si presentava con queste caratteristiche: la Germania (di cui si era garantita l’alleanza con l’Urss) aveva sconfitto in poche settimane gli eserciti polacchi, belgi, olandesi, norvegesi, danesi, francesi e inglesi e si affacciava al di là delle Alpi (anche questo grazie alla politica anglo-francese) con un esercito poderoso e intatto, non dimentico del nostro voltafaccia del 1915. In questo scenario Mussolini aveva di fronte a sé tre e sole tre possibilità: 1) neutralità (ma anche Belgio, Olanda ecc. erano Paesi neutrali). <La Spagna è in un angolodell’Europa>. 2) guerra alla Germania; 3) guerra a fianco della Germania.

   Prima o poi qualcuno dovrà pur darmi una risposta   La verità, anche se può essere stravolta, è una: nel 1940 la stragrande maggioranza dei 45 milioni (sì, anche i neonati) degli italiani volevano “partecipare” alla guerra: <Ma cosa fa quel testone! Grida, grida e poi quando è venuto il momento non si muove> (Paolo Puntoni, “Parla Vittorio Emanuele III”); oppure il messaggio dei trenta Arcivescovi e Vescovi letto nelle chiese d’Italia: <(…). Perché assecondi il pieno successo dell’umanissimo disegno del genio del Duce>. E ancora, ma non davvero ultimo, quanto scrisse Angelo Roncalli (il futuro Papa Giovanni XXII) al fratello Giovanni il 28 marzo 1941: <La guerra attuale è la guerra del ricco contro il povero (…)> (Giovanni XXIII, Lettere ai familiari). E Mussolini al figlio Vittorio: <Adesso tutti desiderano sparare il primo colpo di fucile, il Re, lo Stato Maggiore, i gerarchi. L’unico pacifista sono rimasto io, io solo>.

   Così veniva fatto morire l’unico socialismo “attuabile” e dal volto umano, mentre da lontano James Monroe ridacchiava per il realizzarsi della sua “dottrina”.

   Vede, dottor Augias, sono ben cosciente che quanto scritto non avrà una risposta, probabilmente non passerà alla “rigida censura” della Rai; invierò questo scritto a qualcuno dei giornali con i quali collaboro e sarà letto da poche migliaia di persone. Poca cosa rispetto ai milioni che hanno ascoltato la Sua trasmissione. D’altra parte è l’inflessibile disciplina di questa “democrazia nata dalla Resistenza”. Io continuerò perché ho assunto questo obbligo morale, confortato, però, da “quella palla che più la porti sotto acqua e più schizza fuori”.

   Un cordiale saluto.
 
   
 

Una sfida
di Filippo Giannini

   Leggo che nel libro di Bruno Vespa “Vincitori e Vinti” (e prego l’Autore di indicare chi sarebbero i “Vincitori” e chi i “Vinti”) Massimo D’Alema avrebbe detto che sarebbe stato più giusto processare Benito Mussolini anche perché il processo <avrebbe consentito di ricostruire un pezzo della storia d’Italia>. Ovviamente “i nipotini di Stalin” sono insorti, in testa a tutti Fassino, ma, più di lui Cossutta il quale, epigone della genia bolscevica, a certi atti di “civiltà” è ben avvezzo avrebbe accompagnato il suo pensiero con la solita stantia, stereotipa sentenza: <Mussolini è stato processato (come, dove e quando?, nda)dalla storia>. Dato che la storia non processa nessuno e che tanto meno può emettere sentenze e, di conseguenza, condanne, e dato che alcuni milioni di italiani ancora oggi (è un vero miracolo) non condividono l’asserto di Cossutta e compagni, allora, a nome di quanti vogliono sapere se Mussolini era un bieco tiranno o un “uomo giusto”, lancio la sfida: <Anche se a distanza di sessant’anni dall’”epopea di Piazzale Loreto”, si faccia questo processo: così, una volte per tutte, si potrà stabilire “chi era Mussolini” e quali e quanti “danni” furono procurati dal Fascismo>.

   Il processo dovrà essere una cosa seria, con giudici – so bene quanto questo sia difficile – imparziali. Che si costituisca un collegio d’accusa e uno di difesa (chi scrive queste note, con la massima immodestia si candida come componente di quest’ultimo), con un serio, sottolineo serio, dibattimento. Che il processo si svolga al cospetto di tutti gli italiani, cioè teletrasmesso e in diretta. Vogliamo scommettere che un processo siffatto batterebbe ogni indice d’ascolto?

   Sarei facile profeta se asserissi che questa “provocazione” non verrà presa in considerazione, perché, e questo è ben noto, Mussolini lo si volle morto in quanto da accusato sarebbe diventato accusatore; e questo ancora oggi farebbe tremare le mura degli “alti colli” e, giù giù, sino a passare per le “Botteghe Oscure”  (o nei pressi) e ancora più in basso.

   Tuttavia assicuro che questa “sfida” verrà inviata, via e-mail, a tutti i giornali possibili, alle emittenti televisive e ancora più sù, nonché a tutti gli indirizzi in mio possesso. E mi auguro che chiunque riceverà questa “democraticissima” proposta si faccia carico di ampliarne la conoscenza.
 
     
 

 

 
   
 

L’ANTIFASCISMO E’ UN DOVERE DEMOCRATICO OVVERO: LA FORTUNA DELL’”AVVITATO” E LA MALASORTE DELLO “SVITATO”

di Filippo Giannini
Per prima cosa è necessario spiegare il senso del titolo e quello del sottotitolo.

   Chiunque in questi giorni (primi di ottobre 2006) si dovesse trovare a Fiumicino o dintorni avrà la fortuna di vedere un bel manifesto (grande, quindi costoso) affisso nelle strade, appunto quello del titolo e cioè: “L’antifascismo è un dovere democratico”. Tutto qui? mi potrebbe chiedere il cittadino avveduto e oculato nelle spese, ben sapendo che chi paga è proprio lui. Sì, caro cittadino, tutto qui. Ma questo “tutto qui” racchiude un concetto, potrei dire, di ispirazione dotta, ma cosa dico? di ispirazione divina. Se l’autore di quel concetto fosse il Sindaco di Fiumicino, sarebbe da candidare al Soglio Pontificio.

   Ecco, ora passo a spiegare il sottotitolo: l’”avvitato” è il fortunato che non conosce eccezioni, dubbi, come il principio che l’”antifascismo” è il bene assoluto, per intenderci ben “avvitato” al sistema democratico (e antifascista)  nel quale si vive.

   Di contro lo “svitato” è colui che ha sospetti, dubbi; per intenderci chi scrive queste note ha la malasorte di essere, appunto, uno “svitato”. E, lasciatemelo dire, essere “svitato” fa vivere male in questo mondo di “avvitati” e lo “svitato” ambisce come cosa sublime divenire “avvitato”.

   Perché questa lunga premessa? Mi spiego. Pochi giorni fa (primi di ottobre 2006) ho ricevuto da un caro amico (“svitato” anche lui) un mail con il quale mi informava che <il quotidiano sportivo “Corriere dello Sport” ha intrapreso una nuova iniziativa volta a far conoscere ai propri lettori la storia dell’associazione Sportiva Roma e della Società Sportiva Lazio>. Il mio amico mi informava che la storia di queste Società sportive si possono trovare nelle edicole in DVD. Il mio amico continua: <Una parte del dvd presenta una ricostruzione storica degli anni tra il 1927 e il 1942; la parte fondamentale, cioè, del Ventennio fascista. La ricostruzione storica del filmato usa toni, immagini e commenti a dir poco benevoli nei confronti di Mussolini e della sua dittatura (…)>.

   Memore dei fasti del “Paradiso Sovietico”, per decenni promesso (e promosso) dalla magnanimità dei Lenin, degli Stalin, dei Pol-Pot e così di seguito, i sinistrorsi sono insorti a difesa di quei degnissimi “angeli del bene” dall’infame “dittatore nero”, che osò frapporsi all’avvento del “sole dell’avvenire”. Il mio amico continua: <Ti giro il commento che il Vicepresidente della Camera Carlo Leone (deputato dei Democratici di Sinistra), ha pubblicato sul suo sito (www.carloleoni.net) e che prontamente il quotidiano “Il Manifesto” ha ripreso rincarando – ovviamente – la dose di critiche>. Il mio amico termina scrivendo: <Si dice nel dvd del Corriere dello Sport che il “promulgamento delle leggi razziali crea un certo disagio nella comunità ebraica romana”, definita subito dopo – con inquietante allusività – “forte, ricca e potente”. Un grande quotidiano nazionale ha il dovere – nelle sue iniziative editoriali – di presentare i fatti storici in modo accurato e onesto (è la voce della “Pravda” che parla). Soprattutto un grande quotidiano sportivo, che si rivolge a un pubblico più giovane, ha la responsabilità di non commettere (è da sottolineare questi “avvertimenti”, nda) mancanze e leggerezze tanto gravi, che possono sembrare oltretutto ammiccamenti alle frange più estreme delle tifoserie. Sono necessarie grandi attenzioni e rigore, soprattutto da parte di chi deve sostenere i valori e l’insegnamento che lo sport può e deve trasmettere alle generazioni più giovani>.

   Questa è la voce di una delle più autorevoli personalità “avvitate” che conferma che “l’antifascismo è un dovere democratico”.

   Osservazioni dello “svitato”: perché la “comunità ebraica romana” non prova, perlomeno, lo stesso “disagio” al ricordo dei milioni e milioni di ebrei mandati a morire da Stalin in Siberia? Oppure al ricordo di quei 600 ebrei “regalati” sempre da Stalin a Hitler quando questi due “angioletti” erano alleati, stando alla testimonianza del segretario di Togliatti, Caprara?

   Ora proverò a spiegare perché uno “svitato” (come chi scrive queste note) è tale. Per fare ciò mi voglio avvalere delle testimonianze non di Pontefici come Pio XI, o Pio XII, o Giovanni XXIII, così esaltanti verso “l’adorabile tiranno” (come lo definì George B. Shaw altro “svitato”) come “svitati” erano i suindicati Pontefici (che allora fosse “svitato” anche lo Spirito Santo che ha il potere di “illuminare” il dire dei Pontefici?).

   Ma lo “svitato” vive un dramma che è di difficile soluzione. Se da una parte si sostiene che il fascismo fu una spietata e sanguinaria dittatura, da un’altra parte si sostiene esattamente il contrario. Infatti, Giuseppe Parlato (che non può essere definito uno “svitato”) ha scritto (“L’Economia Italiana tra le due Guerre”, pag. 56: <Durante gli anni Trenta fu progressivamente sviluppato un processo di totalitarizzazione del regime, che non comportò però il definitivo passaggio a un regime totalitario in senso proprio. Perché il fascismo potesse essere definito, al pari di altri regimi (segnatamente di quello nazista e di quello stalinista), totalitari, si sarebbero dovute verificare due condizioni – il ricorso sistematico al terrore di massa e il ricorso sistematico al sistema concentrazionario – che mancarono nella situazione italiana>.

   Tanti, tantissimi altri benpensanti, cioè ben “avvitati”, sostengono che il fascismo favorì il capitalismo, la grande industria, gli agrari a danno del proletariato. Questo i benpensanti, ma altri sostengono, anche in questo caso, il contrario. Prendiamo ad esempio sempre Parlato che a pag. 189 dello stesso volume, ricorda, dopo aver citato la “Carta del Lavoro”: <Nel periodo fra il 1934 e il 1939 vengono introdotte le ferie pagate e le indennità di licenziamento; viene stabilito che, in caso di malattia, un dipendente non possa perdere il posto di lavoro; nel 1934 vengono introdotti, per la prima volta, gli assegni familiari, corrisposti in un primo tempo a partire dal secondo figlio, fino a essere estesi, nel 1938, agli altri familiari; viene stabilita l’età minima per l’ammissione al lavoro a quattordici anni; nel 1935 si introduce il libretto di lavoro; viene introdotta la gratifica di fine anno e si procede alla disciplina del lavoro festivo; viene infine realizzata (1938) una nuova disciplina dei cottimi, che comporta un aumento medio salariale di circa il 10 per cento>. E mio padre che era di una onestà assoluta e un “a-fascista” mi assicurò che simili previdenze erano sino ad allora sconosciute, non solo in Italia, ma all’estero. Ancora oggi, a settanta anni da quei provvedimenti in moltissimi Paesi democratici sono cose ignote.

   Altri benpensanti, ovviamente ben “avvitati”, sostengono che il fascismo fu un movimento, oltreché violento, anche privo di idee e quelle poche erano sbagliate. A contestare queste tesi entra in campo addirittura un professore ebreo di Scienze Politiche presso l’Università di Gerusalemme, Zeev Sternhell, il quale in un saggio “La terza via fascista” (“Mulino” 1990), dopo molte altre considerazioni, scrive: <Il Fascismo fu una dottrina politica, un fenomeno globale, culturale, che riuscì a trovare soluzioni originali ad alcune grandi questioni, che dominarono i primi anni del secolo>. L’autore continua: <Le ragioni dell’attrazione esercitata dal Fascismo su eminenti uomini della cultura europea, fu che molti di questi trovarono in esso la soluzione dei problemi relativi al destino della civiltà occidentale>. Cari “avvitati” vedete dove alloggia lo smarrimento degli “svitati”? Uno storico israeliano scrive che “eminenti uomini della cultura europea vennero attratti dalle idee del Fascismo” e che addirittura (ed è il massimo del massimo) “trovarono in esso la soluzione dei problemi relativi al destino della civiltà occidentale”. Che confusione! Il povero “svitato” cosa deve credere quando analizzerà con più attenzione queste parole? E cioè: le “ragioni dell’attrazione esercitata dal Fascismo”. La cosa si aggrava perché Sternhell aggiunge: <Il corporativismo riuscì a dare la sensazione a larghi strati della popolazione che la vita fosse cambiata, che si fossero dischiuse delle possibilità  completamente nuove di mobilità verso l’alto e di partecipazione>. A rendere ancor più confuse le sensazioni degli “svitati”, Sternhell spiega: <Il potere dello Stato incide sulla mobilitazione dell’economia nazionale, sulle possibilità di programmazione economica su larga scala e favorisce l’unità morale e l’unanimità spirituale delle masse>. Esattamente il contrario di quanto hanno predicato e attuato lo Stato degli “avvitati”; oppure mi sbaglio? Come conciliare tutto ciò con la sagace asserzione – citata nel titolo – “L’antifascismo è un dovere democratico”? Dato che non sempre la cultura si abbina all’intelligenza, frase forse proposta da Vittorio Sgarbi, date le recenti esibizioni in TV?

   Altri esempi di turbamento per uno “svitato” che desidera solo di essere un “avvitato” come tutti gli altri? Nel dopoguerra “un certo” Ruggero Zangrandi ha scritto: <E non potrà esservi dubbio che Mussolini significò, per l’Italia, arretramento, oscurantismo e sventura>. Ma non è lo stesso Ruggero Zangrandi che nel 1938 scrisse, fra l’altro: Mussolini è grande. E Mussolini va esaltato per la sua grandezza>. E un anno dopo: <Il fascismo di quasi tutti i giovani fascisti era un fascismo CONVINTO (maiuscolo nel testo, nda), perché fondato sulla convinzione che il fascismo fosse l’espressione più moderna e realistica del socialismo>?

   Come far coesistere la tesi del primo Zangrandi con quelle di migliaia altre, diametralmente opposte? Quella dell’intellettuale francese Maurice Bardeche che ha scritto nel 1962: <Il Fascismo fece strade, ospedali, acquedotti, prosciugò paludi, aumentò i raccolti, diede il corporativismo, realizzò la Carta del Lavoro…>. O quella dell’attore americano Wallace Beery: <Mussolini grande! Italia bellissima! Italiani simpaticissimi! Evviva l’Italia! Evviva Mussolini!>. O anche l’opinione di Winston Churchill: <Il genio romano è impersonato da Mussolini, il più grande legislatore vivente… Le grandi strade che egli tracciò resteranno un monumento al suo prestigio personale e al suo lungo governo>. E l’architetto francese, Le Corbusier, che ci invidiava con queste parole: <Beati voi, italiani, che avete un Mussolini!>. O il timore del politico inglese, Lloyd George, che ammonì: <Se il mondo non si decide a seguire Mussolini, il mondo è perduto. Non c’è che Mussolini ad avere le idee chiare>. Oppure l’esortazione dello scrittore inglese Rudyard Kipling: <Sappiate amare questo meraviglioso vostro fratello che protegge i vostri interessi e il vostro avvenire. Vogliategli bene sempre>. A seguito della morte del Duce, ecco l’opinione di Stalin (che di certe cose se ne intendeva): <Con la morte di Mussolini scompare un grande uomo politico cui si deve rimproverare di non aver messo al muro i suoi avversari>. Come si può vedere idee, opinioni, giudizi di (“svitati?”) non italiani.

   Giunto qui, alla fine delle mie perplessità, chiedo lumi ai tanti “avvitati”, perché non davvero vorrei che avesse ragione l’intellettuale francese, Claude Ferrere che nel 1946 ci rimproverò: <Alcuni italiani si sono vendicati di un Capo troppo grande per loro, le cui stesse benemerenze apparivano troppo gravose. E tutti i governanti di Europa anche se non osarono approvare apertamente, gioirono in segreto. Dinanzi a quell’Uomo erano afflitti da un complesso di inferiorità insopportabile, come era accaduto tempo prima con Napoleone. Duemila anni or sono per le stesse ragioni, venne ucciso Giulio Cesare>.

   No, non voglio morire “svitato”, quindi chiedo assistenza. Voglio accettare senza sospetto quell’intelligente incitamento sopra riportato e che ripeto per chiarezza: “L’antifascismo è un dovere democratico”. Come risolvere questo dramma? E mi rivolgo ad uno dei più alti esponenti istituzionali, l’Onorevole Carlo Leone sopra citato; c’è un solo modo per risolvere i turbamenti dei tanti “svitati”, cioè porre Benito Mussolini sul banco degli imputati, come da tempo chiede un Comitato di cittadini, non solo “svitati”, per proporre un processo al Duce, processo da farsi in TV, possibilmente su una rete nazionale. Il processo dovrà svolgersi (senza trucchetti) seguendo le norme giudiziarie oggi vigenti, e cioè con un Collegio d’Accusa e uno di Difesa (con relativi assistenti) ed un Giudice, cosicché, alla fine venga emessa una sentenza che non lascerà più dubbi ai poveri “svitati”, che languono in un mare di perplessità.
 
   
 

Dov'erano le uova del drago
di Domizia Carafoli

La nascita del Msi favorita dai servizi segreti americani? Figurarsi! Si arrabbia su Panorama Pietrangelo Buttafuoco, che le sue uova del drago va a scovarle in tutt’altri nidi. Si infastidisce anche Il Secolo d’Italia, organo di Alleanza Nazionale, al quale l’ipotesi di una precoce collusione dei «repubblichini» con gli ex nemici non va a genio. Giuseppe Parlato, con il suo saggio Fascisti senza Mussolini, di cui riferisce Eugenio Di Rienzo in questa stessa pagina, ha toccato un nervo scoperto della destra. Lo ha fatto da storico, basandosi su una mole di documenti inediti, analizzati con l’acribìa che rivela la scuola di Renzo De Felice. Non a caso infatti Parlato, oggi preside della Facoltà di Storia contemporanea alla «Libera Università San Pio V» di Roma, negli anni ’80 era un giovane ricercatore presso la cattedra romana di Storia contemporanea retta da De Felice.
Professor Parlato, come mai queste reazioni irritate alla sua analisi?
«Di primo acchito direi che sono reazioni a caldo, fatte prima di leggere il libro, o almeno di esaminarlo con attenzione. Mi rendo conto che si tratta di un volume un po’ ponderoso. Ci ho messo sei anni a scriverlo...».
Pietrangelo Buttafuoco dice che lei «la spara grossa» con la tesi del Movimento sociale benedetto dall’Oss americano.
«È la risposta a una domanda che mi ponevo da tempo: il Movimento sociale viene costituito il 26 dicembre 1946. Come mai nasce in Italia un partito dichiaratamente neofascista, a soli venti mesi dalla fine della guerra civile? Ho esaminato nuovi documenti americani che confermano i contatti (in parte già noti) dei servizi segreti Usa con personaggi come Junio Valerio Borghese, Pino Romualdi, Valerio Pignatelli, tutti esponenti fascisti che già prima della sconfitta avevano lasciato capire agli anglo-americani di essere disponibili a una futura collaborazione in senso anticomunista. Ho persino scoperto una missione dal Nord al Sud, quando proprio Borghese inviò Bartolo Gallitto, guardiamarina della Decima Mas, presso l’ammiraglio Agostino Calosi, capo dell’Ufficio Informazioni della Regia Marina. Ebbene, mi ha colpito il fatto che tutte queste persone, che avevano avuto questo tipo di contatti, parteciparono anche alla fondazione del Msi».
E ne ha dedotto una longa manus statunitense?
«Ne ho dedotto che il quadro non era casuale ma derivava da una sostanziale convergenza di interessi: in Italia, Paese che contava il più forte partito comunista dell’Europa occidentale, il rischio di una presa del potere da parte del Pci, con tutto quel che ciò avrebbe comportato in materia di equilibri interni e internazionali, era reale. E questo pericolo era fortemente sentito sia dalle potenze atlantiche sia dai reduci di Salò. Il Movimento sociale nasce quindi con una forte connotazione atlantica, moderata, filoamericana, filoisraeliana».
Sempre Buttafuoco, facendo riferimento al libro di Nicola Rao La Fiamma e la Celtica: sessant’anni di neofascismo, sostiene che Pino Romualdi, a quel tempo latitante perché inseguito da una condanna a morte, si incontrava con Togliatti. E che al referendum istituzionale del 2 giugno 1946 votò per la repubblica.
«Romualdi ha sempre smentito qualsiasi contatto con Togliatti. Ci andarono altri e si incontrarono con emissari del leader comunista che certo non avrebbe rischiato di perdere la faccia con incontri diretti. Quanto al referendum, se fascisti votarono per la repubblica, furono certamente pochi. Primo perché molti erano ancora in prigione o in campo di concentramento, secondo perché la stragrande maggioranza considerava la repubblica pericolosamente tinta di rosso».
Però c’erano i contatti col Pci...
«In realtà ci fu una forte attenzione del Pci nei confronti degli ex fascisti, fin dal novembre del 1945. E molti, in effetti, trasmigrarono nelle sue file. La gara a scoprire il fascista nascosto nelle formazioni antifasciste è cosa ormai superata. Ricordo, tra l’altro, che il noto scenografo Ugo Pirro, pseudonimo di Ugo Mattone, componente nel 1944 del gruppo fascista clandestino di Sassari e condannato per questo a undici anni di carcere, è diventato un comunista granitico. Sta di fatto comunque che l’emorragia di ex fascisti nelle file comuniste preoccupava non poco la Democrazia cristiana. Ed è altresì un dato di fatto che questa emorragia si arrestò con la nascita del Msi».
Nascita benedetta, oltre che dagli Usa, anche dalla Dc?
«La Dc certamente consente la nascita del Msi. Scelba chiude un occhio sulle sedi missine che spuntano come funghi in soli sei mesi. Regolarmente documentate nei rapporti che i carabinieri inviavano al ministero dell’Interno. Quando l’Anpi se ne accorse, chiese a Scelba lo scioglimento del Msi. Scelba rispose che lui non poteva farlo, ci voleva l’intervento della magistratura, insomma fece lo gnorri».
Eppure, non molti anni dopo il Movimento sociale si presentava come una formazione fortemente ancorata all’eredità della Repubblica sociale...
«Nel frattempo erano cambiate molte cose. A metà del 1947 De Gasperi estromette il Pci dal governo e la Dc si caratterizza come forza decisamente anticomunista. La strategia di Romualdi del partito atlantista aperto alle forze moderate rischia di far infrangere la navicella missina contro la corazzata democristiana che occupa le stesse posizioni. Non a caso è in quegli anni che naufraga anche un’altra espressione del moderatismo non democristiano, l’Uomo Qualunque. E intanto ai vertici del Msi sale, nel luglio 1947, il giovane Giorgio Almirante che comprende il pericolo e imprime al partito una decisa impronta “identitaria”. L’atlantista Romualdi lo critica - e non a torto - sostenendo che in questo modo si ghettizza il partito, ma intanto Almirante alle elezioni del ’48 riesce a portare in parlamento cinque deputati. E di fatto costituzionalizza il Msi».
Torniamo all’inizio del nostro discorso: come mai l’avere accostato la nascita del Movimento sociale alla politica estera americana, suscita polemiche a destra?
«Credo che più che altro ci si sia fermati ai titoli della stampa, che suonano sempre inevitabilmente come slogan, senza contestualizzare i fatti. E poi nell’estrema destra, come del resto nel fascismo storico, sono presenti diverse anime, tra cui quella di sinistra. Ma anche quella antiamericana che nasce intorno agli anni ’80 fra i giovani seguaci di Pino Rauti. Eppure, per fare un esempio, anche un esponente neofascista decisamente antiamericano come Giorgio Pini, nel 1947 sosteneva il progetto “atlantico” di Romualdi».
Il Giornale, 22 novembre 2006, pag.30

 
   
 
Saddam & Mussolini
MA IL DUCE NON EBBE LA SUA NORIMBERGA
di ARRIGO PETACCO

FARE PARAGONI STORICI è sempre rischioso: diversi sono gli eventi, le condizioni, le atmosfere e soprattutto il senso epico della misura. Perciò è facile equivocare. Tuttavia ben pochi italiani nell 'apprendere della barbara uccisione di Saddam Hussein non hanno fatto un parallelo storico con la barbara uccisione di Mussolini. Lo ha fatto anche il premier iracheno Al Maliki il quale, sbagliando, ha osservato che in Italia hanno fatto di peggio: «Contro Mussolini — ha detto —, ci fu un processo di un sofo minuto. Gli chiesero il nome e poi lo uccisero». Al che Prodi, invece di correggerlo, ha ribattuto risentito che l'Italia di oggi non è più quella del 1945. In realtà le cose non sono andate così. Mussolini fil arrestato il 27 aprile del 1945 e i partigiani che lo avevano catturato chiesero lumi al Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia su come dovevano comportarsi. Il Gin si riunì a Milano e il dibattito fu molto acceso perché alcuni suoi componenti propendevano per la consegna del Duce agli alleati in vista di un regolare processo. Ma alla fine però Luigi Longo, comandante delle brigate garibaldine, ebbe la meglio e fu deciso sia pure a maggioranza la sua rapida esecuzione. Che avvenne il giorno dopo a Giulino di Mezzegra dove fu uccisa per sovrappiù anche la povera Claretta che di colpe non ne aveva. Più tardi furono sbrigativamente fucilati anche i diciassette gerarchi che erano stati catturati con lui. Discutibile ci pare anche la giustificazione adottata da Prodi («si era nel 1945: da allora abbiamo fatto molti passi avanti»). E' infatti vero che l'Italia, per nostra fortuna è molto cambiata da allora, ma quella del 1945 non era diversa dall'Iraq del 2007 e gli italiani di allora, che svillaneggiarono i cadaveri appesi per i piedi in piazzale Loreto erano forse peggio degli iracheni che oggi festeggiano l'impiccagione del laro odiato dittatore. E allora? Meglio andarci piano nel respingere indignati certi imbarazzanti accostamenti. E se possibile evitare anche di cadere nel ridìcolo. Come ha fatto il quotidiano fondato da Antonio Gramsci che in prima pagina condannava l'impiccagione di Saddam e in un pagina interna giustificava l'uccisione di Mussolini. O come ha fatto Marco Pannella che dopo aver favorito l'uccisione di Giorgio Welby, il giorno dopo ha iniziato lo sciopero della fame per salvare Saddam dal patibolo. Per concludere sia pure con tutte le differenze del caso il parallelo storico tra la fine di Saddam e quella di Mussolini è legittimo. Resta semmai da dire che Saddam ha avuto un regolare processo mentre Mussolini fu giustiziato infrena e furia benché nulla impedisse di condurlo davanti a un tribunale e di processarlo in maniera corretta, come è stato fatto per i gerarchi nazisti a Norimberga.
Il Giorno, 03 novembre 2007, pagina 06

 
   
 

Ettore Muti il Fascista perfetto
di Umberto Bonino - Illustrazione di Gino Boccasile (1)

Le prime ore del 24 Agosto 1943, la data in cui Ettore Muti, o meglio Gim dagli occhi verdi (il nomignolo che l'accompagnerà per gran parte della vita e coniato per lui da Gabriele d'Annunzio) viene ucciso in circostanze tutt'oggi misteriose... è da qui, ovvero dalla fine tragica, che parte il nostro breve ricordo. Qualcuno erroneamente pensava di poter cancellare con la morte del "Fascista perfetto" la sua storia unica ed assolutamente inimitabile degna dell'eroismo italico. Eroismo un tempo non raro nel popolo italiano ed oggi praticamente scomparso ed impossibile anche soltanto da immaginare. Era nato a Ravenna il 22 Maggio 1902, volontario di guerra a 14 anni, volontario degli arditi nell'impresa di Fiume, il più giovane dell'impresa, fin da ragazzo dimostra un ardimento guerriero non comune elogiato anche da Gabriele D'annunzio. Dopo l'esperienza fiumana ritorna a Ravenna sua citta natale ed aderisce ai neo-nati Fasci di combattimento. In breve tempo non ci saranno avversari degni di lui e dei suoi Fascisti. Per un uomo come lui la scalata (mai realmente voluta) del partito è cosa scontata. Dopo la Marcia su Roma e negli anni del ventennio il soldato e gerarca Ettore, si interessa sempre più all'aviazione e diventa un ottimo pilota di caccia. Parte volontario per
la guerra d'Abissinia, e come tutti gli italiani del suo tempo, spera di trasferisi definitivamente in quella nuova terra. Controvoglia entra nell reparto d'assalto aereo "la disperata" di Galeazzo Ciano, non ama i gerarchi "chic" e ha difficoltà con il Generale Badoglio ma, nonostante ciò e come normale per lui, si copre di gloria. Parte volontario per la guerra di Spagna il suo vero trionfo militare. Sarà il soldato ed aviatore migliore del contingente italiano, stimato dagli spagnoli e dai tedeschi con questa guerra diventa a tutti gli effetti uno dei migliori gerarchi del ventennio. La terra di Spagna sarà per lui una seconda casa. Subito dopo l'esperienza spagnola, inizia la sua vera scalata al potere politico e cominciano anche le sue maggiori [...]

Ettore Muti il Fascista perfetto
di Umberto Bonino

 
   
 

“Starace pazzo, e io non valgo più nulla”
Dell’Utri: "Ecco i diari di Mussolini". Ma è polemica sull’autenticità

ROMA — Fiero nemico dei tedeschi, negoziatore di una pace che non verrà, sferzante con Starace, implacabile con se stesso: «Non valgo più niente».
L'oramai affascinante giallo storico sul tesoro che Benito Mussolini custodì fino a Dongo, alle soglie della sua fine fisica, ha da ieri subito un nuovo e inedito sviluppo. I diari di cinque anni, dal 1935 al 1939, sarebbero nelle mani, e da oltre un anno, del senatore Marcello Dell'Utri. Avrebbero anche superato sia l'esame calligrafico che il test sulla identità storica della carta e dell'inchiostro in possesso del Duce e oramai sulla rampa di lancio della pubblicazione in grande stile da parte di una casa editrice italiana (Mondadori) e di una seconda straniera. Dell'Utri, vero, è un noto bibliofilo, ma perché proprio sulle sue mani si sarebbero adagiate le celebri agendine che la Croce Rossa donava agli uomini più in vista dello Stato, e che il Duce avrebbe utilizzato per illustrare le sue giornate e i suoi pensieri, è domanda né inutile né impertinente. Spiega il senatore di Forza Italia: «Sono amico di un antiquario che le ha scovate. Sono stato contattato da lui e mi sono recato in Svizzera per prenderne visione. Ho conosciuto la persona che le possiede, figlio di uno dei partigiani che a Dongo arrestarono il Duce. Quest'uomo le ha conservate come una reliquia, poi alla morte gli eredi hanno pensato di trovare soddisfazione economica». Le agendine costano: «Avessi avuto i soldi le avrei acquistate sicuramente. Non potendomelo permettere ho indicato agli eredi una casa editrice, e lei può capire quale, che potesse pubblicarle. È stata comunque un'emozione fortissima avere tra le mani questi diari che fanno scoprire un'identità nuova di Mussolini».
Da un anno le fotocopie sono deposte nello studio di Dell'Utri e le carte autentiche nel forziere di un notaio di Bellinzona che le custodisce prima che un atto tra vivi le destini altrove. Da un anno Alessandra Mussolini, la nipote, trattiene alcuni dei fogli: «Ho solo chiesto che le memorie vengano pubblicate integralmente, senza stralci, senza salti». È comunque da almeno cinque mesi che Mondadori tratta per l'acquisto: data infatti al 23 settembre scorso l'annuncio (riportato con dovizia di particolari sul sito abruzzese www.ilca-poluogo.it) del rinvenimento di questo tesoro da parte di Dell'Utri. Era a Sulmona quel giorno e confidò ai giovani del circolo di cui è padre nobile il valore storico delle agende e il relativo imponente carteggio commerciale. Poi due sere fa la riproposizione della scoperta, questa volta al circolo dei giovani di Udine.
Dalle carte si solleva un Mussolini sprezzante con il suo luogotenente di più alto rilievo, Starace. Bollato come persona politicamente irresponsabile, dal debole equilibrio psichico. Un Mussolini ostile nei confronti della grande borghesia italiana, fermo a tenere fino all'ultimo fuori l'Italia dal conflitto mondiale, la seconda grande guerra.
Nei diari emergono dettagli così rilevanti da suggerire l'idea di un uomo nuovo. Se fosse tutto vero, Mussolini avrebbe lottato strenuamente contro la guerra ("I tedeschi... questi cani"). Spietato e improvviso censore del suo preminente ego ("Non più libero nella libera scelta, ma succube..."), feroce, come detto, con Starace ("è pazzo"), impietoso con gli industriali (parassiti?), severo anche con il Vaticano, che esortava a scegliere per il meglio il successore di papa Pio XI: «Desidero un Pastor Angelicus e non un politicante o un intrigante. Lo siamo già noi».
Ma è tutto vero? Qui riprende la lunga storia del tesoro, o dei tesori dell'ultima straziante ora: catturati, trafugati, custoditi e ritrovati. Già tredici anni fa, nel 1994, il Sunday Telegraph annunciò il rinvenimento. Li aveva un misterioso uomo d'affari italiano che avrebbe scovato i manoscritti in una cassapanca nella casa di suo padre partigiano. Fu scettica la famiglia Mussolini, scettici gli storici. I dubbi convinsero il quotidiano inglese annunciare.
Oggi le carte sono riesumate, restituite alla storia. Integre e autentiche. Sono. Forse è meglio dire sarebbero.
Antonello Caporale
la Repubblica, 12 febbraio 2007, pag.15

 
   
 

Era «Renzo» il partigiano che trafugò le carte
I DIARI DI MUSSOLINI

ROBERTO FESTORAZZI
Sulla vicenda dei Diari di Mussolini è forse il momento di provare a fare i nomi. Chi si cela dietro la misteriosa identità del figlio dell'ex partigiano di Dongo possessore delle carte? E chi sarebbe il «notaio di Bellinzona» nella cui cassaforte sono chiusi i documenti parzialmente presentati da Marcello Dell'Utri?
Voci insistenti, in Svizzera, hanno indicato come custode dei Diari il notaio Sergio Salvioni di Locarno: ma l'interessato ha smentito recisamente, senza considerare appunto che trattasi di Locarno e non di Bellinzona. Ridde di indiscrezioni hanno riguardato anche altri noti professionisti che operano nel Canton Ticino.
Dunque non si conosce ancora con certezza chi sia a gestire il bollente affare, con la discrezione totale richiesta in una condizione del genere. Fino a quando, naturalmente, ciò che è finora avvolto da mistero non verrà portato alla luce del sole. Non meno interessante è scoprire l'identità dei personaggi che, da sessant’anni, detengono le scottanti carte: inevitabile definirle tali, per l'accanimento mediatico che si è scatenato su questa vicenda (anche nel caso in cui, paradossalmente, si dovesse trattare di falsi).
Il «partigiano di Dongo», in base alle informazioni in nostro possesso, è Lorenzo Bianchi. Un personaggio controverso, rimasto sempre in ombra, tanto da aver scelto di vivere appartato, trasferendosi in Svizzera già nel primo dopoguerra. Bianchi aderì alla Resistenza e divenne partigiano assumendo il nomo di battaglia di «Renzo». Originario di Lomazzo, in provincia di Como, dove nacque nel 1922, fu uno dei protagonisti della scena di Dongo nei giorni drammatici della cattura e della fucilazione di Mussolini e dei gerarchi della Rsi. Sapeva tutto del tesoro del Duce e maneggiò anche le borse del dittatore: dapprima confermò di aver letto il nome di Churchill su una delle cartelline che formavano i dossier mussoliniani, ma, in seguito, si rimangiò l'affermazione. Forse per essere aiutato a tenere la bocca cucita, Bianchi venne mandato a fare il croupier al Casinò di Campione d'Italia, dove acquistò la residenza, e non fu l'unico ex partigiano a trovare impiego nella casa da gioco.
Bianchi mantenne la consegna del silenzio, ma, già ai tempi del processo di Padova sull'oro della Repubblica sociale e sui delitti compiuti a Dongo, processo celebrato nel 1957, dovette collaborare con i difensori di parte civile delle vittime per scagionarsi da un'accusa che pendeva sulla sua testa: quella di aver ucciso, in concorso con altri, cinque militi fascisti nelle giornate calde della Liberazione.
Del resto, «Renzo» sapeva tutto ma proprio tutto. Conosceva i crimini compiuti dalle bande di partigiani comunisti: dall'incameramento dell'oro di Dongo agli omicidi commessi per occultare il colossale furto.
Il partigiano «Renzo» fu amico del comandante della Brigata garibaldina che arrestò Mussolini, Pier Bellini delle Stelle, nome di battaglia «Pedro». Ci fu un certo traffico di documenti, in quelle storiche giornate donghesi. Bianchi venne in possesso - non sappiamo ancora come e quando - di un malloppo di carte, di cui non sta emergendo per ora che la minima parte. E forse si tratta di quella «sbagliata».
Nelle frequenti rimpatriate con il suo antico comandante «Pedro», che si svolsero a Campione fino agli anni Ottanta, probabilmente si parlava anche di quei documenti custoditi, pare, in una cassapanca. Nel 1983, i presunti Diari mussoliniani furono offerti in visione allo storico britannico Denis Mack Smith. Cinque anni più tardi, nell'88, il partigiano «Renzo» moriva lasciando in eredità ai figli le agende oggetto dell'attuale disputa. Non va peraltro dimenticato che, nel 1994, ci fu l'assaggio dei manoscritti pubblicati dal londinese Sunday Telegraph. Ma l'operazione andò male, perché tanto gli storici, quanto i figli del Duce gridarono alla «bufala».
Ora sarebbe il figlio di «Renzo», Maurizio, a reggere le fila dell'operazione Diari. Maurizio Bianchi vive anch'egli nella Svizzera italiana dove svolge un'attività commerciale.
Negli ultimi due-tre anni, da quanto sta emergendo attraverso molte testimonianze, frenetici sono stati i contatti intrattenuti e molteplici i tentativi di vendere i presunti Diari del Duce. Sforzi non coronati da successo, e veri e propri fallimenti, come l'offerta - avanzata alla Biblioteca di Lugano e rifiutata dall'autorevole istituzione - di cedere gli autografi per 1,5 milioni di franchi, l'equivalente di quasi due milioni e mezzo di euro. Il direttore della Biblioteca luganese, temendo di incorrere in un infortunio come quello dei falsi Diari di Hitler, chiese di poter trattare direttamente con la famiglia Mussolini o con lo Stato italiano.
La trasmissione di approfondimento di attualità Falò, che va in onda questa sera alle 21 sulla prima rete della tv svizzera Tsi, svelerà alcuni retroscena sull'opera di intermediari che hanno proposto a grandi personalità italiane della politica e dell'economia l'acquisto dei Diari per l'astronomica cifra di venti milioni di euro.
il Giornale, 15 febbraio 2007, pag.31

 
   
 

La figlia di Mussolini: «I diari? Esistono, ma non sono questi»

ROBERTO FESTORAZZI
Il frastuono di questi giorni l'ha convinta a intervenire per aggiungere la sua versione sui famosi Diari del Duce. Perché Elena Curti, figlia naturale di Benito Mussolini e di Angela Cucciati, rappresenta non soltanto una testimone superstite dell'epoca di Salò, che ha vissuto in prima linea come addetta alla segreteria politica di Alessandro Pavolini, ma è in grado di compiere affermazioni difficilmente smentibili. Ottantacinque anni, molta verve, Elena Curti conosce particolari inediti sulla vicenda dei Diari di Mussolini. Pur ritenendo che le agende di cui si parla ormai da giorni siano apocrife, conferma invece la circostanza che il Duce redigesse appunti giornalieri. «Non erano scritti roboanti, ma considerazioni, sensazioni e aneddoti su quanto accadeva quotidianamente. Le cose che ho letto nei giorni scorsi sono inverosimili: Mussolini non scriveva per fare la storia d'Italia».
Elena Curti, che oggi vive in un paese dell'alto Lazio, ha frequentato il Duce a partire dal 1941, dopo che sua madre le ebbe svelato la verità sul suo legame di sangue con il dittatore. Il rapporto tra Mussolini e la figlia naturale divenne più stretto ai tempi della Rsi. La ragazza, al tempo ventenne, era ricevuta settimanalmente dal genitore nel suo studio di Gargnano, tanto da suscitare la gelosia di Claretta Petacci. Elena fu talmente attratta dalla figura di Mussolini da seguirlo fino a Dongo, a bordo della famosa autoblindo di Pavolini. E proprio in veste di testimone superstite, la figlia naturale del Duce svela oggi che suo padre, una sera, le lesse per telefono una pagina dei suoi Diari. «Aveva l'abitudine di chiamare a tarda ora, nella nostra casa romana di via Porpora, per discorrere con mia madre. Ma quella sera - sarà stata la fine del 1942 o l'inizio del '43 - mamma si era già andata a coricare e lo dissi a Mussolini. Egli insistette però per parlare con me. Scandì queste precise parole che ricordo benissimo: «Ho appena finito di scrivere il mio diario e adesso te lo leggo: "Il mio male di stomaco ha un nome e si chiama convoglio. Ogni volta che deve partire una nave per l'Africa, sono agitato". Mi comunicava la verità sul suo male che era legato alle sorti della guerra e si era riacutizzato in conseguenza dei rovesci subiti dalle forze dell'Asse.
Elena Curti racconta anche che, alla fine degli anni Quaranta, un reduce della Rsi, ben inserito nell'ambiente della direzione del partito fascista repubblicano (di cui non fa il nome), la contattò per rivelarle di essere venuto in possesso dei Diari di Mussolini. «Io gli feci molte domande, perché ero scettica sulla possibilità che quel personaggio avesse davvero messo le mani sugli autografi autentici del Duce. Lui mi pregò con molta insistenza di procurargli un appuntamento con Angelo Rizzoli, perché voleva venderli. Pensai che non ci fosse nulla di male nell'aiutarlo, ma posi come condizione di essere tenuta fuori dall'affare. Non volli nemmeno vedere i documenti. Andai alla Rizzoli e parlai con il direttore, Rusca, chiedendogli un appuntamento con l'editore. Angelo Rizzoli ricevette sia me sia il detentore dei Diari. Si manifestò entusiasta sulla possibilità di pubblicarli. Della questione non mi occupai più, e solo tempo dopo seppi che era finito tutto in nulla».
Le conclusioni sono frutto di logica: «Ho l'impressione - argomenta Elena Curti - che questi cosiddetti Diari siano falsi come lo erano quelli di sessant'anni fa. Domando: perché escono soltanto cinque annate di agende, quando è sicuro che Mussolini tenne diari per oltre vent'anni, dal 1921 al 1945? Dove sono finite le altre agende? E poi su quali basi Alessandra Mussolini si è convinta dell'autenticità di questi documenti? Credo che la figlia di Romano dovrebbe essere più prudente, perché, in fondo, lei suo nonno non l'ha nemmeno mai conosciuto».
il Giornale, 14 febbraio 2007, pag.35

 
   
 

I DIARI DEL DUCE
Mussolini, il vero giallo è il falsario

Giordano Bruno Guerri
I diari di Benito Mussolini come le ciliegie: uno tira l'altro. Dopo quelli portati alla ribalta da Marcello Dell'Utri, ecco spuntarne un'altra versione, scoperta da Marcello Foa, che ne ha dato notizia l'altro ieri sul Giornale. Alcune pagine ci sono state messe a disposizione da Pierfranco Castelli, docente di economia al liceo «Carlo Cattaneo» di Lugano. Le agende, depositate in una cassetta di sicurezza bancaria del Cantone Ticino, sarebbero quelle in possesso di Maurizio Bianchi, figlio di quel partigiano Renzo che se ne appropriò nel '45.
Anche questi volumi di diario sarebbero stati sottoposti a una perizia - dalla polizia scientifica cantonale - e risalirebbero davvero all'epoca, sia per l'inchiostro sia per la carta usati. Naturalmente ciò non significa che siano stati davvero vergati da Mussolini: anche la scrittura, diversa in un campione del '38 e in quello del '39, suscita parecchi dubbi.
Al di là delle necessarie controverifiche scientifiche, il primo controllo da farsi riguarda l'attendibilità storiografica dei contenuti, la veridicità dei fatti riportati e la. corrispondenza con il pensiero di Mussolini alla luce di quanto già noto. Lo pagine che abbiamo a disposizione riguardano date tra le più ghiotte dal punto di vista storico: i primissimi giorni del settembre '39, quelli dell'inizio della Seconda guerra mondiale. Oltre che le più appetibili, in apparenza sono anche le più facili da falsare, perché riguardano fatti universalmente noti: l'invasione della Polonia, l'entrata in guerra di Gran Bretagna e Francia, la non belligeranza italiana. Ma sono anche le date in cui un falsario che avesse vergato quelle pagine, nel '39 o negli anni immediatamente successivi, può più facilmente essere scoperto, alla luce dei documenti e delle testimonianze acquisite nel dopoguerra.
Ebbene, la mia impressione che si tratti di un falso è nettissima, a partire dalla personalità e dai pensieri che risaltano nelle annotazioni di quei quattro giorni cruciali. Primo esempio: è del tutto inverosimile che Mussolini, preso atto della scarsa volontà di entrare in guerra del popolo italiano, annoti: «Oh, povere glorie d'annunziane! Poveri eroismi dei nostri grandi». A parte l'apostrofo, sospetto in uno scrittore come Mussolini, è noto e stranoto agli storici che il duce non amava affatto Gabriele d'Annunzio. Di lui diceva: «E’ come un dente guasto. O lo si estirpa o lo si copre d'oro». Aveva scelto di coprirlo d'oro, ma mai avrebbe potuto considerarlo un esempio di virtù italiche.
Alla data del 2 settembre lo pseudo Mussolini annota che Hitler «ha trovato una formula adatta alla nostra presa di posizione»: qui si riferisce - con ogni evidenza - alla formula della «non belligeranza», escogitata invece dallo stesso Mussolini nel Consiglio dei ministri dell'1 settembre.
Vistosissimo e inaccettabile un altro orrore: «Sono passati poco più di 20 anni - dall'ultima guerra mondiale -», scriverebbe il duce, «500mila morti noi italiani». L'esperta calligrafa che ha trascritto il testo è incerta se la cifra sia 300mila o 500mila: c'è da credere che sia 500mila, ma per vent'anni, in numerosissimi discorsi e articoli, Mussolini (e non solo Mussolini) aveva detto e scritto «600mila morti». Non è una differenza, o uno svarione, da poco.
Poco dopo il duce ragiona sulla ricchezza di mezzi e armamenti degli Stati Uniti, e ipotizza una loro possibile entrata in guerra. In realtà non risulta né che tenesse in gran conto la potenza bellica degli Stati Uniti (Italo Balbo aveva tentato invano di convincerlo in tale senso), né che temesse un loro prossimo intervento.
Anche le successive annotazioni sull'Etiopia sono in contrasto con tutto ciò che sappiamo su un Mussolini che fu sempre fiero di «avere dato un impero all'Italia», convinto com'era che quel territorio immenso e vergine avrebbe rappresentato la ricchezza e il futuro sviluppo del Paese. Il riferimento all'uso delle pallottole «dum dum» da parte degli etiopi, poi, era un banale ritornello della propaganda fascista: difficile credere che il duce vi facesse un riferimento tanto significativo nel diario personale, quando sapeva che - per suo ordine - l'esercito italiano aveva usato ben altre armi.
Clamoroso è lo svarione sugli «eroi dell'86», riguardo allo ottocentesche imprese coloniali italiane: il massacro della spedizione Bianchi è del 1885, mentre è del 1887 l'annientamento a Dogali della, colonna De Cristoforis (500 uomini). Si tratta di date scolpite nella memoria dogli uomini di cultura, e non solo, dell'epoca: ben difficilmente Mussolini avrebbe potuto sbagliare, sia pure nella concitazione di quei giorni. E, a proposilo di quei giorni, è del tutto assente l'annotazione di fatti, incontri, trattative di grande importanza, tanto da risultare pochissimo credibile che Mussolini le ignorasse nel proprio diario, per prendere invece nota di banalità reperibili su qualsiasi giornale.
Una volta accertato che le pagine diaristiche fornite dal professore ticinese sono un falso, si tratterà di vedere se è invece vero il resto. Ma soprattutto, se la datazione è autentica, chi ha compiuto il falso? Mussolini stesso o - come sembra più probabile - chi si impossessò dei diari? E perché? Il giallo continua.
www.giordanobrunoguerri.it
il Giornale, 18 febbraio 2007, pag.1

 
   
 

Sbaglia perfino la sua data di nascita
colloquio con Emilio Gentile

«Fondati motivi per dubitare che il loro autore sia stato Benito Mussolini». Sono queste le parole con le quali il professor Emilio Gentile boccia i presunti diari del Duce. Una stroncatura più che autorevole. Gentile, docente di Storia contemporanea all'Università La Sapienza di Roma, è anche autore di importanti libri come "Fascismo, storia e interpretazione" e "Storia del partito fascista". Per non parlare dei suoi interventi come visiting professor in varie università internazionali, da quella di Madison (Wisconsin) al Trinity College di Hartford, nel Connecticut, fino all'Istituto di scienze politiche a Parigi. A suo avviso, scrive il professore nella perizia che gli è stata commissionata nel 2004 da "L'espresso", quelle migliaia di pagine che vanno dal 1935 al 1939, non sono credibili. «Ho avuto la possibilità di studiare per due mesi interi le fotocopie delle agende», sottolinea, «e mi sono convinto che è materiale difficilmente attribuibile a Mussolini».

D'accordo. Ma qual è la percezione generale che ne ha ricavato: quella di un falso grossolano o di un'opera che ridisegna scientificamente la figura di Mussolini?
«Partendo dal fatto che non ci sono validi argomenti per ritenerli autentici, va detto che si tratta di un testo organico e unitario. Ci troviamo di fronte alla presentazione di un Mussolini che, leggendosi, si sarebbe piaciuto molto».

Nel senso che ci teneva a passare per critico nei confronti di Hitler, nemico della guerra, e esemplare padre di famiglia?
«Esattamente. È il ritratto che non a caso ci propongono le testimonianze di altri membri della famiglia, o di stretti collaboratori. Penso alla moglie Rachele, alla sorella Edvige, ai figli Vittorio e Romano. O al suo biografo prediletto, Yvon De-Begnac».

Resta il fatto che Mussolini si è alleato con la Germania, ha fatto la guerra e a quanto si sa è stato un dongiovanni...
«Infatti. A questo aggiungo i profondi dubbi che mi sono venuti, leggendo e rileggendo le agende, legati al Mussolini pubblico, quello per esempio della guerra di Etiopia e delle leggi antisemite. È curioso che in questi diari Mussolini appaia un oppositore di tali provvedimenti, decisi e applicati unicamente da lui, come già dimostrato da Renzo De Felice. E suona strano, per giunta, che il Duce si dissoci dalla politica di un regime, anzi dall'intero sistema, quasi non ne fosse stato l'artefice e il capo supremo. Quindi, ribadisco: è assai probabile che si tratti di falso».

Dunque chi li ha scritti, questi diari?
«Rispondere è come leggere nel futuro. Anche con lunghi e approfonditi studi sarebbe forse impossibile indicare chi sia l'autore e le sue intenzioni. Fa riflettere, comunque, il fatto che la perizia su inchiostro, carta e grafia, indichi una potenziale corrispondenza tra i presunti diari e l'epoca a cui sì riferiscono. Sembra accreditare la tesi di un Mussolini che, falsificando se stesso, a un passo dalla disfatta scriva o riscriva i propri diari».

Una tesi che la convince?
«Per niente. Sarebbe un affronto all'intelligenza di Mussolini. Il Duce mai avrebbe accettato, anche in preda alla disperazione, di apparire come un uomo fragile, in balia degli eventi. E nemmeno come un personaggio incapace di opporsi alla volontà dei Ciano, degli Starace, e di quanti - stando ai presunti diari - portarono il regime e il Paese alla rovina contro la sua volontà».

Dunque, si legge nella perizia, lei considera le agende inattendibili. Ma sono almeno verosimili?
«No. I presunti diari offrono un'immagine di Mussolini molto più negativa del personaggio storico, al quale non si può negare una personalità interessante e volitiva. Credere a questi testi significa svilire definitivamente il Duce».

C'è stato un punto specifico in cui s'è detto: questa è la classica bufala?
«C'è stata una serie dì elementi, in apparenza secondari. Per esempio, mi ha stupito negativamente che il presunto Mussolini sbagli di un mese la sua data di nascita. Che non sappia lui, appassionato lettore di Nietzsche, come si scrive il suo nome. O che scriva ripetutamente "eccezionale" con due zeta. Nessuno ha mai negato a Mussolini la capacità di scrittore, eppure in questi diari ignora la grammatica».

E se fossero sbagli dovuti alla fretta del Duce, alle sue mille urgenze?
«La fretta porta a qualche distrazione, non a ripetuti errori che deragliano nell'ignoranza. Piuttosto, chi ha compilato questi diari non è stato abbastanza attento. Si è fatto prendere la mano e ha messo insieme un bel pasticcio. Le porto un altro esempio: il 30 marzo 1938, nel diario si legge: "Parlo al Senato dopo 13 anni di silenzio". Peccato che non sia affatto vero...».

Il senatore Dell'Utri, però, lancia questi diari come autentici. E con lui è entusiasta la nipote del Duce, Alessandra Mussolini. Febbre da revisionismo?
«Non credo. Anch'io all'inizio sono stato sedotto dall'ipotesi dell'autenticità. Ma poi ci sono i fatti, le date, i riscontri. E alla fine niente quadra. Attendo, a questo punto, che qualcuno mi dimostri che ho sbagliato».
L’Espresso, 22 febbraio 2007, pagg.48-49

 
   
 

"Perché sono sicuro che siano autentici"

Senatore Dell'Utri, il suo annuncio del ritrovamento dei diari di Mussolini ha suscitato un gran clamore. Dove sono adesso? «Sono un documento storico importante, ma non mi aspettavo tanto clamore. I diari sono custoditi nella cassaforte di un notaio di Bellinzona e voglio precisare che non ne sono il proprietario, io li ho solo visti».

Li ha consegnati al notaio il figlio di un partigiano?
«Sì, erano in possesso di un partigiano, ma non di quello di cui parlano i giornali e le agenzie». E di chi, allora?
«Chi li ha consegnati non vuole che sia fatto il suo nome e io rispetto la privacy».

Ci descriva un po' questi diari. «Sono cinque, tutte agende della Croce rossa, e coprono un arco temporale che va dal 1935 al'39».

Da quello che ha potuto vedere esce una figura diversa del Duce?
«Diversa forse no, non credo che cambieranno la storia. Certo è che emergono tutti i suoi dubbi».

A proposito di dubbi, è vero che non voleva entrare in guerra a fianco di Hitler?
«Questo si evince chiaramente. A un certo punto scrive: "Non possiamo e non dobbiamo prendere le armi, che poi non abbiamo", e inoltre aggiunge che l'alleato di oggi potrebbe diventare il nemico di domani. Forse aveva già intuito come sarebbe andata a finire».

Ma alla fine ha trascinato il Paese nella guerra.
«Probabilmente per non lasciare il campo libero alla Germania che sembrava ormai vittoriosa. E così ha rovinato l'Italia».

Parla della guerra civile spagnola e dell'omicidio dei fratelli Rosselli?
«Non ho avuto tempo per vedere anche le agende del '36 e del '37, ma è impensabile che non ci siano riflessioni e commenti su queste vicende».

E riferimenti alla promulgazione delle leggi razziali del '38?
«Ripeto, sono riuscito a dare solo un'occhiata, ma anche sulla persecuzione degli ebrei ci saranno riferimenti».

Per quanto tempo ha avuto le agende per le mani?
«Un paio d'ore ed è stato molto emozionante. Però la grafia di Mussolini non è bella tonda anche se abbastanza comprensibile. In molti passaggi si fa fatica a decifrare le sue annotazioni».

A proposito di grafia, lei è sicuro che i diari siano autentici e non una bufala?
«Sono stati già visti da esperti. Hanno analizzato la carta e l'inchiostro che risulterebbero entrambi di quegli anni. E altri controlli verranno sicuramente fatti».

In uno dei brani il duce parla piuttosto bene di Pio XI, il Papa del Concordato, però al suo funerale manda Ciano che, nei suoi diari, dice che Mussolini era sprezzante nei confronti del pontefice.
«Questa è un'ulteriore prova dell'autenticità dei diari. Chi avesse voluto falsificarli avrebbe certamente consultato quelli di Ciano e avrebbe confermato quanto il genero scriveva».

Mussolini non aveva un'alta considerazione neanche dei gerarchi, come Starace.
«Nei confronti di Starace è addirittura tranchant. In uno dei diari scrive che "fino ad un certo punto quest'uomo mi ha quasi divertito con i suoi salti nel cerchio infuocato e con tutte le buffonate da lui inventate e seguite dai gerarchi obesi e ridicoli. Adesso la pazienza ha un limite, non lo sopporto più"».

Lei comunque è intenzionato a farli pubblicare.
«I diari sono un documento fantastico che servirà a fare maggiore chiarezza sull'uomo Mussolini con i suoi stati d'animo, i suoi dubbi. Soprattutto nei momenti più bui e di scoramento della sua vita di duce».

Ha per caso già sondato la disponibilità degli eredi?
«Ho parlato con la nipote, Alessandra, che è assolutamente favorevole a che siano resi noti».

È il solo, finora, a volerne fare un libro?
«No, c'è anche un editore tedesco che è interessato ai diari del duce».
Francesco Iannuzzi
La stampa, 12 febbraio 2007, pag.38