Malaparte scrittore di guerra. Intervista con Enzo R. Laforgia Stampa
Scritto da Francesco Algisi   
Mercoledì 15 Giugno 2011 10:57

Malaparte scrittore di guerra. Intervista con Enzo R. Laforgia

a cura di Francesco Algisi

 

laforgia_malaparte  Enzo R. Laforgia insegna Filosofia e Storia presso il Liceo classico «E. Cairoli» di Varese e collabora con Università e centri di ricerca in Italia e in Francia. È autore di numerose pubblicazioni dedicate alla storia e alla cultura dell’Italia tra Ottocento e Novecento e ai rapporti tra cultura italiana e imperialismo. Per Vallecchi ha curato l’edizione del volume di Curzio Malaparte, Viaggio in Etiopia e altri scritti africani (2006), definita dal domenicale del «Sole 24 Ore» «un libro fondamentale per rileggere gli articoli di Malaparte apparsi sul Corriere della Sera», e ha scritto il recente saggio Malaparte scrittore di guerra (Vallecchi, pagg.267, Euro 14,50).

  Prof. Laforgia, qual è il pregio principale delle cronache di guerra di Curzio Malaparte?

  Ci sono diverse ragioni per le quali le cronache di guerra dello scrittore toscano risultano di grande interesse ancora oggi per il lettore come per lo studioso. Innanzitutto l’eccezionalità delle esperienze vissute da Malaparte tra il 1940 ed il 1943. In questo periodo lo scrittore ebbe modo di prendere parte direttamente, come capitano degli Alpini e come corrispondente di guerra, alla battaglia delle Alpi sul fronte italo-francese nel giugno del 1940; ai bombardamenti aerei sulla Grecia agli inizi dell’anno successivo; all’invasione della Jugoslavia e alla distruzione di Belgrado, nella primavera del 1941; all’invasione dell’Unione sovietica nell’estate; fu testimone dell’assedio di Leningrado nella primavera del 1942. Questa densa esperienza fu inoltre restituita con grande lucidità e intelligenza. Malaparte, ad esempio, che aveva preso parte giovanissimo anche al primo conflitto mondiale, colse subito l’eccezionalità della nuova guerra europea. «Questa guerra trasformerà profondamente, irrimediabilmente il mondo», scrisse nel giugno del 1940. E del resto, nelle sue corrispondenze, seppe cogliere come pochissimi altri suoi contemporanei la novità di quella guerra totale: la dimensione tayloristica di un conflitto in cui i militari assomigliavano sempre più ad operai di una moderna fabbrica; la freddezza della morte procurata con tecnologie che distanziavano l’uccisore dall’ucciso, anestetizzando i sentimenti; la portata distruttiva delle nuove macchine da guerra; la volontà di annientare il nemico, perseguita con lucidità scientifica. A tutto questo, poi, si aggiunga la qualità dello scrittore, che, nel proporre la cronaca di ciò di cui era stato testimone, poteva attingere ad una personale straordinaria enciclopedia estetica.

  Lei scrive che Malaparte, nelle settimane che precedettero l’attacco alla Grecia, "piegò la sua penna alla volontà dei gerarchi che premevano per la guerra, abbracciando senza remore le ragioni della propaganda fascista" (pag. 62). Egli - con le corrispondenze da Atene pubblicate sul Corriere della sera – agevolò insomma la nascita di un "clima favorevole all'invasione" della Grecia (pag. 59). Come interpreta questo atteggiamento, alla luce del fatto che Malaparte, nelle corrispondenze dalla Polonia per esempio (ma anche dalla Russia), cercò sempre di "rappresentare il punto di vista della popolazione sconfitta" (pag. 91)?

  Questo episodio testimonia ulteriormente la complessità e l’ambiguità del personaggio Malaparte. Certamente egli fu spesso coraggioso testimone e cronista di una guerra che il fascismo, grazie al controllo esercitato sulla stampa e che ho documentato nel primo capitolo del mio lavoro, proibiva di raccontare (in diverse circostanze alcuni suoi articoli furono censurati o tagliati e in una occasione una sua corrispondenza causò il sequestro di un numero del «Corriere della Sera»). E tuttavia non disdegnò di assecondare la propaganda ufficiale nel presentare la Grecia come un paese imbastardito e corrotto, esattamente come prescrive il ministero della Cultura popolare (o il «Culpopò», come lo chiamava Malaparte nelle sue corrispondenze private). In questo caso lo scrittore fu ingaggiato direttamente dal suo amico Ciano, che gli dettò esplicitamente la linea da seguire: «Non sto a dirti – scrisse Malaparte al direttore del Corriere della Sera Aldo Borelli – che Ciano mi ha ripetuto che “io posso scrivere quel che voglio, tenendo presente che so quel che vuole lui”».

  In una lettera dell'11 gennaio 1942 (citata a pag. 97) indirizzata ad Aldo Borelli, direttore del Corriere, Raffaele Mauri scrisse che "Gli articoli di Malaparte sono visti superiormente”. Alludeva al Duce, oltre che al Minculpop?

  Sì, esatto. Malaparte godette di un’attenzione particolare. Come risulta dalle carte del ministero della Culturale popolare, i suoi articoli erano letti direttamente dal ministro, il quale spesso ne informava Mussolini. A volte era stato sufficiente un titolo per scatenare gli strali del ministero (strali che ricadevano sul direttore del Corriere della Sera, come nel caso dell’articolo In guerra muoiono i migliori, del 23 marzo 1941); altre volte, come nell’estate del 1941, alcune informazioni contrastavano con la vulgata ufficiale dei bollettini di guerra tedeschi e italiani. Ma, come scrisse Malaparte al quotidiano milanese proprio nel giugno del 1940, i limiti posti dalla censura erano troppo angusti: «Non posso far del colore su Messina, se ci capito proprio il giorno del terremoto, astraendo dal terremoto».

  Il governo Badoglio, nell’agosto 1943, accusò Malaparte "di svolgere attività sovversiva" (pag. 109). Come si spiega tale accusa?

  A tale riguardo sappiamo con certezza che lo scrittore rientrò precipitosamente dalla Svezia non appena appresa la notizia della caduta di Mussolini il 25 luglio del 1943. Il 2 agosto giunse alla direzione del Corriere della Sera il divieto di pubblicare suoi articoli. Tra queste due date fu arrestato e condotto nel carcere romano di Regina Coeli, dove presumibilmente fu trattenuto sino al 7 agosto. Una settimana dopo era a Capri, da dove scrisse a Bompiani di essere stato arrestato per «attività sovversiva» e di essere stato rimesso in libertà grazie all’intercessione di alcuni suoi potenti amici. I contenuti di questa «attività sovversiva» restano tuttavia poco chiari. Abbiamo trovato un rapporto del Capo di Stato maggiore generale che il 3 agosto riferisce al Capo della Polizia come Malaparte, rientrato il giorno prima in Italia, stesse «brigando per un intervento tedesco a favore del cessato regime».

  Alberto Mondadori scrisse che il romanzo Il sole è cieco - pubblicato a puntate su Tempo - fu interrotto perché Malaparte dovette partire (cfr. pag. 131). Lo scrittore, invece, spiegò che l'ultimo capitolo di tale opera venne "bocciato" da Pavolini nel febbraio 1941 (cfr. pag. 133). Come stanno in realtà le cose?

  Non abbiamo trovato conferme circa un intervento censorio di Pavolini. Questo è ciò che dice lo scrittore, ma a guerra finita, quando, cioè, è impegnato a rileggere il proprio passato in funzione del mutato clima politico. Il romanzo, nato dall’esperienza della battaglia delle Alpi del giugno 1940, fu pubblicato a puntate sulla rivista Tempo, diretta da Alberto Mondadori, figlio di Arnoldo, dal 2 gennaio al 27 marzo 1941. La tredicesima e ultima puntata fu fatta seguire da una nota redazionale in cui si annunciava la fine del romanzo nel numero successivo della rivista. Sul numero successivo, invece, fu pubblicata una nota dello stesso scrittore, in cui si precisava che il romanzo doveva ritenersi concluso e che non ci sarebbe stata un’ulteriore puntata. Possiamo attribuire questa rapida conclusione al fatto che Malaparte stesse per recarsi in Romania ed iniziare una nuova avventura come corrispondente di guerra. Il sole è cieco prende spunto dalle corrispondenze che aveva scritto per il giornale milanese. E probabilmente Malaparte decise di far confluire quelle cronache all’interno di una cornice narrativa d’invenzione perché il 7 luglio del 1940 il ministero della Cultura popolare, guidato da Pavolini, vietò la pubblicazione di corrispondenze dal fronte occidentale.

  "Il Volga [nasce in Europa] - scrisse Malaparte a Valentino Bompiani il 21 agosto 1943 (cfr. pag. 147) -, l'ho scritto nel periodo precristiano. E va perfettamente in un periodo come questo, in cui il trionfo del cristianesimo è allo Zenith". Che cosa intendeva dire con queste espressioni?

  Lo scrittore incalzò insistentemente Bompiani per la stampa di questo volume, in cui furono raccolte le corrispondenze dal fronte russo e da Leningrado, sostenendo che, benché i testi fossero stati scritti durante il fascismo, andavano comunque benone anche nel nuovo clima antifascista. Non aveva tutti i torti. Il racconto che Malaparte fece di quelle esperienze belliche fu spesso divergente dalla vulgata pretesa dal regime fascista e in più di un’occasione il Minculpop intervenne sul Corriere della Sera per bloccare qualche articolo. A proposito di una corrispondenza pubblicata il 10 agosto del 1941, il ministro della Cultura popolare fu informato che il numero del giornale milanese che la ospitava era andato a ruba proprio tra i «più impuniti e noti antifascisti» e fra le «masse operaie»: «le affermazioni del Malaparte sono destinate a suscitare notevole impressione». Queste stesse considerazioni spinsero evidentemente il ministero della Cultura popolare della Repubblica sociale italiana ad ordinare, nel 1943, il sequestro del volume Il Volga nasce in Europa, in cui quelle corrispondenze erano state raccolte.

  L'edizione di Il Volga nasce in Europa, distrutta dal bombardamento alleato nel febbraio 1943, differiva in qualche modo da quella pubblicata nell'autunno successivo?

  Nel mio lavoro ho dato conto delle varianti tra gli articoli apparsi sul quotidiano di Milano, la loro pubblicazione nel volume di Bompiani del 1943 (edizione erroneamente ritenuta mai andata in stampa) e quella successiva del 1951 uscita per i tipi Aria d’Italia. Gli interventi sui testi originari per l’edizione del 1943 non furono molti ma, in qualche caso, furono significativi: l’andamento della guerra sul fronte russo era decisamente cambiato tra il 1941 ed il 1943. Nei testi raccolti in volume, inoltre, furono amplificate alcune descrizioni o inserite alcune digressioni di carattere «sociale», come le definì l’autore, sulla Russia comunista. Nell’edizione del 1951, invece, fu profondamente rivista la prefazione. Malaparte cercò di presentare i suoi testi come la prova evidente del suo antifascismo della prima ora, ricostruendo con una certa libertà le vicissitudini in cui era incorsa la stampa della prima edizione. L’unico intervento di un certo rilievo fu il recupero di un articolo pubblicato il 28 aprile del 1942, che non figura nell’edizione Bompiani.

  Qual era l'"evoluzione della guerra" prevista da Malaparte nella lettera ad Alberto Mondadori del 23 febbraio 1943 (riportata a pag. 219)?

  Malaparte aveva firmato un contratto con Mondadori per la pubblicazione in volume del Sole è cieco, dopo la sua uscita a puntate sul periodico Tempo nella primavera del 1941. Il progetto fu ripreso nell’inverno del 1942 e le bozze furono finalmente spedite all’editore in dicembre. L’editore, tuttavia, riteneva il romanzo incompiuto e sollecitò lo scrittore a completarlo. Malaparte, come si è detto, la pensava diversamente. Lo scrittore aveva fretta di far uscire un volume di argomento bellico mentre la guerra era ancora in corso. Per questo scrisse a Mondadori dicendo che il suo libro doveva uscire al più presto: «se aspettiamo la fine della guerra [...] sarà inutile pubblicarlo». Tale sensazione si fece ovviamente più forte nel 1943, quando ormai la guerra stava prendendo nuove e inedite direzioni. Chiese pertanto all’editore milanese di rinunciare a quel suo titolo (in cambio di un romanzo continuamente promesso ma mai portato a termine), per farlo uscire quanto prima con Vallecchi. Il sole è cieco vide la luce presso la casa editrice fiorentina solo nel 1947. Anche in questa occasione il racconto fu fatto precedere da una prefazione in cui l’autore cercò di sintonizzare quegli scritti nati nel 1940 alla nuova realtà politica dell’Italia del dopoguerra.

 

15 giugno 2011

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