Libia 2011. Intervista con Paolo Sensini Stampa E-mail
Scritto da Francesco Algisi   
Lunedì 28 Maggio 2012 09:52

Libia 2011. Intervista con Paolo Sensini

a cura di Francesco Algisi

 

sensini_libia2011  Paolo Sensini, filosofo, saggista e studioso di storia, ha dedicato diversi suoi lavori alla ricostruzione dei più importanti eventi del Novecento. Autore di Il “dissenso” nella sinistra extraparlamentare italiana dal 1968 al 1977 (Rubbettino, 2010), ha curato l’edizione delle principali opere di Bruno Rizzi, Ante Ciliga, del filosofo Josef Dietzgen, oltre alla prima edizione italiana del volume di Sergej Mel’gunov, Il terrore rosso in Russia. 1918-1923 (Jaca Book, 2010). Il suo ultimo libro, intitolato Libia 2011 (Jaca Book, pagg.174, Euro 12,00), ripercorre in maniera seria e documentata le tappe dell’assalto mondialista contro la Jamāhīriyya di Gheddafi. 

  Dottor Sensini, c’è un filo rosso che accomuna le varie rivolte della cosiddetta “primavera araba”?

  Se di filo rosso si può parlare, esso riguarda la caduta dei regimi. In Tunisia e in Egitto, la base sociale delle rivolte era costituita essenzialmente da popolazioni indigenti con un tasso di crescita demografica elevatissimo e un livello economico bassissimo che infatti poi si riversavano nelle immigrazioni apocalittiche verso l’Europa. Nel giro di pochissimi giorni, queste rivolte pacifiche hanno modificato il quadro politico esistente. In Libia, invece, lo scenario è stato del tutto diverso, innanzitutto sul piano economico-sociale: la popolazione libica aveva un tenore di vita decisamente senza paragoni in tutta l’area (si pensi che il reddito medio pro capite ammontava a 18.000 dollari). Inoltre, qui la rivolta non è stata pacifica: fin dall’inizio si sono accesi dei focolai (in particolare in Cirenaica, a Bengasi, a Derna, etc.) per mano di alcune milizie organizzatissime, militarmente ben equipaggiate e provviste di sviluppate conoscenze logistiche. Esse hanno attaccato armi in pugno gli edifici pubblici dello Stato provocando vittime, cui sono seguiti gli assassinii di funzionari statali e di rappresentanti governativi. Subito dopo, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha varato due risoluzioni (la 1970 e la 1973) che istituivano la no-fly-zone sulla Libia. Dopo otto mesi di bombardamenti della Nato, tuttavia, l’“odioso regime” di Gheddafi – come veniva dipinto dai media – non era ancora crollato: se non ci fosse stata una base sociale a favore del “dittatore”, il regime libico non avrebbe potuto resistere tanto a lungo. Non dimentichiamo che la Libia è stata rasa al suolo (per non parlare delle indicibili sofferenze patite dalla popolazione, che ho potuto constatare personalmente durante il viaggio che feci in Libia lo scorso anno). Il fenomeno molto sfaccettato della “Primavera araba” è un’invenzione mediatica di Al-Jazeera e Al-Arabya, creato artificialmente per enfatizzare alcuni aspetti delle rivolte che potessero riscuotere la simpatia delle opinioni pubbliche dell’Occidente: l’esaltazione della democrazia, l’utilizzo spregiudicato dei social network, la caduta dei regimi e una libertà generalizzata. In realtà, c’era anche una forte spinta anti-imperialista, oltre all’odio feroce verso un’élite che si accaparrava tutto: ma questi ultimi aspetti sono stati volutamente ignorati dai media. In Arabia Saudita e in Bahrein, inoltre, hanno avuto luogo delle lotte feroci represse sanguinosamente dai rispettivi governi: e poiché i due Paesi in questione sono alleati strategici degli Stati Uniti, ciò non è stato minimamente reso pubblico in Occidente. Di tutto questo bisogna tenere conto analizzando il fenomeno.

  Nel libro Libia 2011, lei scrive (pag.97) che le attuali politiche statunitensi potrebbero aver trovato degli alleati nei fondamentalisti libici di al-Qaeda contro Gheddafi. Come si spiega questo fatto?

  Al-Qaeda è un’organizzazione creata dagli Stati Uniti in Afghanistan, nel 1979, in funzione antisovietica. Il suo animatore principale era Osama bin Laden, supportato da Zbigniew Brzezinski, allora consigliere nazionale del presidente americano Jimmy Carter (1977-1981). Lo sceicco saudita aveva creato le milizie di mujaheddin che impantanarono i sovietici in Afghanistan, favorendo il crollo dell’Urss. In seguito al-Qaeda ha conosciuto diverse evoluzioni. È un fatto che, dovunque al-Qaeda è presente e crea focolai di rivolta, lì ci sono interessi petroliferi, geopolitici o geostrategici che vedono coinvolti gli Stati Uniti. Grazie agli attentati dell’11 settembre, immediatamente attribuiti ad al-Qaeda, è cominciata la proiezione degli Usa in zone che ancora oggi sono focolai di guerre terribili (pensiamo all’Afghanistan, all’Iraq smembrato e distrutto, ma anche alla Libia: anche qui è stata subito rilevata la presenza di al-Qaeda al fianco dei ribelli libici della Senussya). Ciò che i media non hanno detto, ma che è stato riferito da alcuni analisti statunitensi citati nel mio libro, è che il maggior numero di miliziani appartenenti ad al-Qaeda, sia percentualmente sia in termini assoluti, in Iraq come in Afghanistan era costituito proprio da libici (non tripolitani, ma della Cirenaica). Sussistono dei legami molto forti tra queste componenti del fondamentalismo senussita e al-Qaeda, senza contare le stranissime relazioni con i servizi segreti francesi, inglesi e americani che sono state individuate in loco. È un gioco molto complesso e tuttora in atto: non è certo finito con la Libia.

  Lei riferisce (pag.98) che uno dei capi della rivolta contro Gheddafi trascorse sei anni a Guantanamo per poi essere consegnato alla Libia e quindi scarcerato nel 2010. Perché le autorità libiche hanno liberato un personaggio così pericoloso che ha finito per rivoltarsi contro di loro?

  La Libia è stato il primo Paese, nel 1996, a emettere un mandato di cattura internazionale contro Osama bin Laden, quando ancora in Occidente non si sapeva chi fosse. Negli anni in cui sembrava esserci una sorta di pacificazione tra la Libia e i Paesi occidentali, esisteva un progetto in base al quale molti terroristi catturati sui vari teatri di guerra venivano consegnati alle autorità libiche che li tenevano in galera e poi talvolta li scarceravano. Era una politica che potremmo definire del bastone e della carota: Gheddafi la utilizzò a lungo cercando di non esacerbare una situazione che poteva diventare esplosiva. Anche la liberazione di Abdelhakim Belaji rientrava in questo progetto patrocinato soprattutto dal figlio di Gheddafi, Sayf al-Islam, il quale rappresentava per certi versi l’ala modernizzatrice del Paese e aveva scarcerato, addirittura fino all’inizio di febbraio 2011, moltissimi islamisti, probabilmente ignorando ciò che stava bollendo in pentola in Libia. Quindi, alla base di queste scarcerazioni c’era soprattutto l’intenzione di decomprimere la situazione e rendere più pacifico il contesto: si pensava che gli oppositori, una volta liberati, non avrebbero creato grossi problemi.  Nei primi mesi dello scorso anno, ma probabilmente la cosa andava avanti già da parecchio tempo, alcuni alti esponenti del governo libico (Gheddafi non ricopriva alcuna carica né politica né pubblica, ma era la guida, il leader, la personalità carismatica intesa in senso weberiano) stavano tramando – come è risultato chiarissimo in seguito – per operare un colpo di Stato. Non si spiegherebbe altrimenti come mai, due giorni dopo lo scoppio della rivolta – il 19 febbraio 2011 –, Abdel Jalil, ministro della giustizia libico, diventi il leader del CNT (il consiglio nazionale di transizione libico); il ministro degli Interni, Yunis, assuma il ruolo di capo delle forze armate del CNT; M. Jibril, responsabile della pianificazione economica, diventi il segretario del CNT. E l’elenco potrebbe continuare a lungo.

  Che interesse hanno gli Stati Uniti a creare – come si legge a pag. 99 – in Libia e altrove “uno Stato fantasma composto da piccoli feudi locali sotto il comando di signori della guerra o capi tribù”?

  Questo è un vecchio progetto riconducibile a una dottrina americana, risalente alla fine degli anni Settanta, nota come “Piano Bernard Lewis”:  esso prevede la frammentazione  del mondo arabo mediorientale in  una serie di bantustan, staterelli disegnati sulle linee etnico-confessionali dell’epoca coloniale. È, in sostanza, la vecchia politica del divide et impera, volta a favorire il libero approvvigionamento delle risorse naturali (petrolio, minerali, etc.) di cui quelle aree sono ricchissime, togliendo di mezzo l’ostacolo rappresentato dagli Stati nazionali che impedivano all’Occidente di rapinare le risorse stesse. La Libia di Gheddafi, per esempio, era uno dei principali produttori mondiali di petrolio, ma non aveva rapporti di tipo petrolifero con gli Stati Uniti: gestiva le proprie risorse senza alcuna tutela esterna. Adesso il Paese è stato distrutto e diviso. Lo stesso scenario è stato realizzato in Iraq, che risulta diviso in tre parti (curdi a Nord, sciiti a Est e a Sud, sunniti a Ovest, tutti in guerra gli uni contro gli altri). È quello che ha tentato di fare Israele in Libano nel 2006: in questo caso, però, il piano è fallito grazie alla reazione, per larghi aspetti imprevista, di Hezbollah.  Anche con la Siria si sta faticosamente cercando di fare la stessa cosa: ma per il momento è andata male. Quindi, l’idea è quella di ridurre il Medio Oriente in un pulviscolo di piccoli staterelli gli uni contro gli altri in modo da avere il controllo delle materie prime.

  In questo progetto che ruolo ha Israele?

  Ha un ruolo importantissimo, oserei dire decisivo. Questo progetto - che, sia pure dilazionato nel corso degli anni, sta implacabilmente realizzandosi - è inscritto nella ragione sociale di Tel Aviv fin dall’inizio. Se ne trova traccia negli scritti e nei diari di Moshe Sharett già negli anni Cinquanta e Sessanta. Ne ha dato una definizione estremamente precisa e stupefacente, quanto a chiarezza di tempi e di direttrici strategiche, uno scritto intitolato Una strategia per Israele negli anni Ottanta e Novanta, pubblicato nel 1982 sulla rivista Kivunim. L’autore, Oded Yinon, un giornalista legato al ministero degli Esteri israeliano, auspicava la frammentazione dell’Iraq, della Siria, del Libano e dell’Iran. Quindi, Israele è un giocatore di primo piano in questa strategia, anche perché opera direttamente nell’area.

  Negli ultimi tempi, i giornali riferiscono di un raffreddamento dei rapporti tra Israele e la nuova giunta militare al potere in Egitto (per esempio, riguardo alla fornitura di gas che sarebbe stata interrotta, etc.). Lei però nel libro scrive che questa giunta militare ha preso parte alla destabilizzazione della Libia. Sono solo questioni di facciata, dunque, quelle riportate dai media, nel senso che dietro le quinte i rapporti tra Israele e l’Egitto sono rimasti invariati rispetto ai tempi di Mubarak?

  La realtà non è mai lineare come appare negli scritti e in teoria. L’Egitto è indubbiamente una grande incognita, oltre che un Paese fondamentale per tutta l’area: esso esprime i Fratelli musulmani, il raggruppamento più importante della costellazione dell’islamismo radicale destabilizzatore, che è pesantemente all’opera in Siria e ha fornito un supporto imprescindibile ai senussiti nella devastazione della Libia. Senza l’aiuto della Fratellanza musulmana, gli islamisti fanatici libici non avrebbero fatto molta strada. Però la giunta militare al potere in Egitto è l’espressione anche delle forze presenti nel Paese. Gli attriti relativi alla fornitura del gas rispecchiano un po’ quello che bolle al Cairo. Diversa invece è la situazione in cui versano i Paese del Golfo (Arabia Saudita e Qatar, i due playmaker più importanti, insieme alla Turchia, nella destabilizzazione della Siria). La dirigenza di questi due Paesi – la monarchia saudita (la Casa dei Sa’ud) e la famiglia reale dell’emiro del Qatar (al-Tani) – ha stretto un’alleanza strategica con Israele. Anche l’informazione viene gestita cercando di aiutare il più possibile Tel Aviv: sono riusciti addirittura a creare l’idea, presso le loro opinioni pubbliche, che tutto sommato Israele è un interlocutore, anche a lungo termine, migliore e più sicuro dei Paesi arabi laici che – come la Siria e, in passato, l’Iraq di Saddam Hussein e la Libia di Gheddafi – garantiscono pari diritti a tutti i cittadini cercando di contenere le spinte dell’islamismo. In Egitto, invece, l’opinione pubblica è fortemente ostile a Israele: ciò la rende disomogenea rispetto alle popolazioni delle teocrazie del Golfo che di democratico non hanno assolutamente nulla (non esistono neppure i parlamenti). Pochi giorni fa, mentre mi trovavo in Siria, mi è giunta la notizia riguardante una donna processata per stregoneria in Arabia Saudita: questo può rendere l’idea di chi siano gli interlocutori e gli alleati dell’Occidente nella regione.

  Non crede che il ristabilimento dei rapporti con l’Occidente da parte del Colonnello libico e la conseguente rinuncia alle “armi di distruzione di massa” siano stati per certi versi letali per la Libia?

  Sì, alla luce dei fatti la constatazione che se ne può trarre è proprio questa. Il fatto di avere disarmato e di non essersi creato una garanzia militare ha permesso alla Nato di aggredire il Paese. Non a caso stanno facendo di tutto perché l’Iran non possa dotarsi di armi nucleari – ammesso che lo voglia fare – proprio perché questa eventualità darebbe vita a una sorta di “equilibrio del terrore”. In tal caso, non scoppierebbe più alcuna guerra. È un po’ quello che è successo per cinquant’anni tra Unione Sovietica e Stati Uniti: essendo entrambi armati, si era creato appunto un equilibrio. Non è sicuramente uno scenario idilliaco, però forse l’unica via per scongiurare una catena di distruzioni consiste proprio nell’essere armati in modo tale da potersi difendere. Se la Libia fosse stata temibile sul piano militare, ci avrebbero pensato molte volte prima di attaccarla.

  È per questo, dunque, che la Siria è stata finora risparmiata da un’aggressione da parte della Nato?

  La Siria, pur non disponendo di armamenti atomici, è provvista di un apparato militare straordinariamente avanzato per nulla paragonabile a quella della Libia, il cui territorio ha potuto essere sorvolato liberamente per otto mesi dagli aerei della Nato. Se la Nato aggredisse la Siria, pagherebbe un prezzo altissimo in termini di aerei abbattuti dalla formidabile contraerea di Damasco. L’esercito siriano è molto forte, equipaggiato, ben motivato, contrariamente a quanto hanno detto i media. Dall’inizio della rivolta le defezioni sono state pochissime. In questo caso, poi, la Russia e la Cina hanno opposto il veto nel Consiglio di sicurezza dell’Onu – cosa che non avevano fatto per la Libia –: quindi non c’è la possibilità di intervenire in un quadro per così dire legale. In realtà, non era assolutamente legale nemmeno in Libia, perché hanno bombardato senza l’autorizzazione dell’Onu (la risoluzione 1973 non legittimava alcuna aggressione). La Russia, che possiede una base navale militare in Siria (a Tartus, è il suo sbocco nel Mediterraneo), è consapevole che, una volta rovesciato il regime di Bashar al-Assad, la tappa successiva sarà l’Iran. È una manovra di avvicinamento alla Russia. Finché Mosca terrà questa posizione, la Siria disporrà di una sorta di salvavita. Non si sa esattamente come si svilupperanno gli eventi, perché la realpolitik è molto complessa.

  Pochi giorni fa lei ha fatto ritorno dalla Siria. Che impressioni ha ricavato da questo viaggio?

  Come al solito, recandosi in questi Paesi, si ha un quadro completamente diverso da quello che i media raccontano. Innanzi tutto, la Siria è un Paese totalmente sotto il controllo delle autorità. Damasco è una città perfettamente in ordine e funziona benissimo. Ero lì nei giorni delle elezioni: c’era grande fermento proprio perché il Paese reagiva positivamente. Ho incontrato molte persone – alcuni esponenti del regime,  il Patriarca cristiano-melchita Gregoris III, il Gran muftì di Damasco oltre a numerosi cittadini comuni –; in tutti ho riscontrato la consapevolezza che, a fronte di tanti miglioramenti che si possono fare, la situazione attuale è una specie di “linea del Piave”: non si può tornare al feudalesimo, alle barbarie medioevali di cui sono latori soprattutto i salafiti takfiri, cioè quella corrente dell’islamismo che rifiuta la convivenza con chi è diverso e vuole imporsi con la violenza. Bashar al-Assad è il garante della convivenza pacifica delle diverse confessioni in cui è suddiviso il popolo siriano. Certamente il Paese non sta attraversando un periodo tranquillo perché subisce un boicottaggio pesantissimo da parte dell’Occidente con le ovvie conseguenze (inflazione, etc.) che ciò comporta. Tuttavia, i siriani sono determinati, non vogliono cedere né farsi intimorire dalle milizie giunte dall’Afghanistan e dalla Libia (questo, purtroppo, è il dato che dobbiamo registrare: in Siria sono stati individuati circa sedicimila islamisti radicali di origine libica, che fanno capo al noto Abdelhakim Belaji di cui parlavamo prima, forti dell’esperienza che hanno maturato sul campo; sono stati catturati dalle forze siriane più di 170 ufficiali turchi; senza contare i qatarioti, i sauditi e i pakistani). Tutto sommato, sono pochi i siriani che hanno preso parte alla rivolta. Il grosso della popolazione – consapevole di ciò che è già successo ad altri Paesi – vuole mantenere l’attuale quadro nazionale laico.

  Durante la sua permanenza ha avuto modo di visitare altre città oltre alla Capitale?

  Sì. Sono stato a Daraa, una città situata a sud vicino alle alture del Golan e al confine con la Giordania (anche dalla Giordania, tra l’altro, sono filtrati moltissimi miliziani provenienti da altri luoghi che hanno compiuto azioni terroristiche). Lì la situazione è abbastanza tesa, ma va normalizzandosi. Mi sono recato anche a Qâra, sulla strada per Homs, e ho visitato il monastero di una importante comunità cristiana legata alla figura della Madre superiora Agnès-Mariam de la Croix, che ha svolto in questi mesi un’encomiabile opera di controinformazione per smascherare le mistificazioni raccontate dai media internazionali sul conto della Siria. Va detto che le autorità siriane – soprattutto Bashar al-Assad, a differenza di suo padre che nel 1982 fece una carneficina ad Hama contro gli omologhi degli insorti odierni – hanno cercato di adottare la politica più conciliativa possibile. Quindi, eccezion fatta per i momenti in cui si è obbligati a intervenire con la forza, si limita al massimo l’intervento dell’esercito. Alcuni alti ufficiali siriani mi hanno confidato che, se volessero, potrebbero tranquillamente stroncare gli ultimi fuochi della rivolta nel giro di ventiquattr’ore. Un’operazione di questo tipo, però, potrebbe provocare delle vittime tra i civili innocenti: è un rischio che – l’hanno detto chiaramente – non intendono correre, perché non vogliono assolutamente uccidere persone che non hanno alcuna colpa nell’attuale contesto.

  Com’è il morale della popolazione siriana?

  Certamente sanno di essere sotto una morsa, una pressione internazionale molto forte. Ma il morale, tutto sommato, è alto: pur nella drammaticità della situazione, non ho trovato uno scoramento generale, anzi ho incontrato gente vogliosa di andare avanti e di rendere sempre più saldo e forte il Paese. Certamente vi sono anche persone che vorrebbero cambiare la situazione. Però alle recenti elezioni – l’ho visto  personalmente visitando diversi seggi – c’era una fortissima partecipazione: ha stravinto il fronte progressista che si è formato intorno al Partito Ba’ath, confermando l’attuale quadro politico in un momento così drammatico.

  Comunque in Siria c’è anche un’opposizione nazionale responsabile, che auspica il cambiamento con mezzi pacifici e attraverso il dialogo, senza interferenza da parte degli Stati Uniti e dell’Occidente. Uno degli esponenti di questa opposizione pochi giorni fa ha lanciato un appello per la pacificazione nazionale: il giorno successivo, guarda caso, gli hanno ucciso il figlio (1). Si parla tanto di rivolta, poi però si scopre che la maggior parte degli “insorti” è di provenienza straniera e non c’entra nulla con il popolo siriano: non si vede quale diritto possano avere a voler cambiare la situazione in Siria…

  Sono d’accordo. Il portavoce del CNS (Consiglio nazionale siriano), Burhan Ghalioun, un esule residente a Parigi, in passato aveva lanciato strali contro l’islamismo e il fondamentalismo. Adesso viene usato – e ci sono documentazioni in tal senso da parte delle forze dell’islamismo radicale – come uomo di paglia, come faccia presentabile di tutta la galassia che gli sta dietro. Di recente è stato reso noto il fatto che il Qatar, l’Arabia Saudita e la Turchia hanno finanziato con cento milioni di dollari le milizie operanti in Siria con armi di concezione nuovissima. In qualsiasi altro Paese del mondo occidentalizzato, sarebbe inammissibile una simile ingerenza, che in Siria viene presentata esattamente per il suo contrario. Ho visto le foto di truppe corazzate dell’esercito siriano che, dopo essere entrate in alcune città (Hama e Homs), sono state addirittura liquefatte mediante armi totalmente sconosciute, probabilmente al fosforo. C’è ovviamente il supporto da parte di Israele e degli Stati Uniti che aiutano e sponsorizzano queste forze. Le opposizioni siriane sono consapevoli che in gioco c’è la volontà di distruggere completamente la Siria: non è un caso che la bandiera adottata dai “ribelli” sia quella risalente all’epoca della colonizzazione francese con tre stelle (sulla bandiera ufficiale siriana ce ne sono due): è evidente l’idea di creare uno Stato formalmente diviso in tre parti (gli alawiti sulla costa nord, i drusi a Sud, e il resto del Paese - oltre il settanta per cento circa - in mano ai sunniti). In un contesto di tal fatta, le tribù tornerebbero a svolgere un ruolo di primo piano.

  Dunque, la situazione siriana avrà prevedibilmente un epilogo diverso rispetto a quanto avvenuto in Libia…

  Tutto è molto “scivoloso” e fare affermazioni perentorie è arduo. In Siria, difficilmente – almeno per i prossimi tempi – si potrà prefigurare un contesto come quello libico per le ragioni che appunto dicevamo prima: la presenza di un esercito molto forte e la consapevolezza della posta in gioco da parte degli attori internazionali (Iran, Russia e Cina). Probabilmente continuerà la strategia di logoramento attraverso gli attentati terroristici volti a fiaccare il morale della popolazione per renderla più vulnerabile. È l’unica strategia che potrà avere piede in Siria, sempre che il governo di Damasco non riesca a stroncarla prima.  Certamente i partner della coalizione anti-siriana – Qatar, Arabia Saudita, Turchia, Israele e Stati Uniti – non molleranno la presa perché questi progetti sono troppo importanti per chiuderli facilmente e rassegnarsi. Per il momento, tuttavia, registro il fatto che devono accusare una sconfitta, almeno rispetto alle aspettative iniziali.

 

(1) “[…] in una giornata che ha lasciato sul terreno 22 vittime, un misterioso commando armato ha assassinato Ismail Haidar, figlio di Ali Haidar, leader del partito Nazional-sociale siriano (Psss), uno dei principali dell’opposizione al regime: secondo il quotidiano filo-governativo al-Baath, che ne ha dato la notizia, Ismail e un suo amico sono stati crivellati di proiettili lungo la strada che collega Homs, nel centro del Paese, a Masyaf, un centinaio di chilometri a Nord-ovest. Intervistato, il padre della vittima ha respinto le condoglianze, «perché il sangue di mio figlio non vale più di quello di qualunque altro cittadino siriano». Ieri Ali Haidar e altri oppositori avevano firmato un manifesto comune per «rilanciare il dialogo nazionale senza interferenze straniere».” (Federica Zoja, Raid al campus di Aleppo: uccisi 4 studenti, Avvenire, 4 maggio 2012, pag.19)

 

15 maggio 2012

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