Sterline, dollari e cannoni. Intervista con Roberto Festorazzi Stampa

Sterline, dollari e cannoni. Intervista con Roberto Festorazzi

a cura di Francesco Algisi

festorazzi_sterline  Roberto Festorazzi è nato a Como nel 1965. Laureato in scienze politiche, giornalista professionista, sposato, con due figli, per dieci anni è stato redattore di Avvenire e si occupa prevalentemente di storia contemporanea. Ha scritto e scrive per quotidiani e settimanali, tra cui Il Giornale, Il Messaggero, la Repubblica, La Stampa, Il Riformista, Avvenire, Panorama, Libero e Gente. Tra i suoi numerosi libri, ricordiamo: I veleni di Dongo (Il Minotauro, 1996; nuova edizione 2004), Churchill-Mussolini, le carte segrete (Datanews, 1998), San Donnino, cella 31 (Simonelli, 1999), La pianista del Duce (Simonelli, 2000), Starace (Mursia, 2002), La regina infelice (Mursia, 2002), Laval-Mussolini, l'impossibile Asse (Mursia, 2003), Farinacci (Il Minotauro, 2005), D'Annunzio e la piovra fascista (Il Minotauro, 2005), La Gladio rossa e l'oro di Dongo (Il Minotauro, 2005), Mussolini e l'Inghilterra (Datanews, 2006), Bruno e Gina Mussolini. Un amore del Ventennio (2007), Il segreto del Conformista (Rubbettino, 2009).

  Il recentissimo Sterline, dollari e cannoni. Gli imperialismi monetari del Novecento e il declino americano è un libro ‘scomodo’ e non ha trovato immediata accoglienza nel mercato editoriale. L’Autore ha, quindi, deciso di pubblicarlo con i propri mezzi. Riguardo al tema ivi sviluppato, gli abbiamo rivolto alcune domande.

  Il suo interesse per l’argomento trattato in Sterline, dollari e cannoni nasce dall’”incontro” con la figura di Mario Alberti e con l’opera (in tre volumi) La guerra delle monete

  Dopo aver trovato e letto quest’opera, mi sono posto l’interrogativo su chi fosse l’Autore. Da lì ho cercato dovunque fosse possibile raccogliere informazioni su Alberti fino ad arrivare ai suoi eredi che mi hanno molto aiutato, fornendomi anche documentazione importante che forse loro stessi sottovalutavano (per esempio, alcune agende dove lui annotava tutti i suoi appuntamenti, che sono a loro volta una griglia interpretativa della vita dell’Autore, come negoziatore internazionale, grand commis, inviato del governo italiano alle grandi conferenze internazionali da Versailles in poi). Alberti è una figura di grande interesse, è autore anche di altri lavori. Uno si intitola Benito Mussolini banchiere della nazione: edito da Mondadori nel 1927, parla della questione relativa al consolidamento della lira, alla quota novanta, alla stabilizzazione (che non è una rivalutazione, ma uno stop al deprezzamento della lira). La lira aveva già perso il 75 per cento del suo valore rispetto all’anteguerra. Ho ripercorso filologicamente l’opera di Alberti e poi naturalmente sono arrivato a una mia sintesi. Il mio libro non è la fotocopia di quello di Alberti, ma parte dall’analisi di Alberti per arrivare a una mia sintesi personale con una parte relativa ai tempi attuali. In alcuni punti, è quasi una parafrasi ma… i libri di Alberti sono molto più vasti: affrontano temi che io non ho toccato, o solo sfiorato, come quelli dei giganti asiatici che si stanno affacciando sull’economia globale e la questione della Russia e dei paesi nordici. Dell’opera La guerra delle monete mi ha folgorato il primo tomo che, secondo me, rimane il più provocatorio e interessante.

  Nel libro, lei ripercorre brevemente le tappe della vita di Alberti,  ricordando che egli,  già direttore del Credito italiano, ebbe uno scontro con i vertici di questa banca e venne allontanato dalla direzione. Scrisse su La vita italiana un articolo che fu, per certi versi, una vendetta nei confronti del presidente del Credito italiano: questo fatto gli procurò l’ostilità del Governo fascista e dello stesso Mussolini. Negli anni successivi, Alberti trovò appoggio solo presso padre Gemelli, che gli offrì una cattedra all’Università cattolica, e Giovanni Preziosi,  che ospitò i suoi interventi sulle colonne di La vita italiana. La collaborazione di Alberti con questa rivista ebbe anche dei risvolti “ideologici”? C’erano delle affinità tra la visione politica di Alberti e quella di Giovanni Preziosi?

  Il Fascismo, innanzi tutto, non era culturalmente monolitico. All’interno del Regime, si esprimevano diverse sensibilità e correnti di pensiero. La rivista di Preziosi era un po’, in un certo senso, l’organo di fronda o di controinformazione all’interno del Fascismo, e quindi aveva una linea precisa interessata a fornire una diretta interpretazione dei fatti internazionali, anche finanziari ed economici oltre che politici. Si trovò così un terreno d’incontro naturale tra Preziosi e Alberti. Alberti ha fornito alla rivista di Preziosi un contributo tecnico-scientifico come esperto e una memoria diretta delle sue conoscenze, della sua esperienza di uomo di banca (della grande banca), di negoziatore internazionale, di persona che aveva avuto indubbiamente delle connessioni con l’alta finanza internazionale. Che poi Alberti sposasse fino in fondo le punte estreme del pensiero di Preziosi, questo non lo posso dire; tenderei, però, in parte a escluderlo. Preziosi era violentemente antisemita: nelle opere di Alberti, non ho trovato una profonda traccia di un pregiudizio antisemita; semmai, egli colse nella finanza internazionale anche una presenza ebraica. Tuttavia, non mi pare di poter dire che avesse dei pregiudizi, dei preconcetti particolari nei confronti degli ebrei. La summa del suo pensiero è una presa di distanza dalle conseguenze degenerative di una certa deriva della finanza internazionale e di quelli che erano i sistemi di governance di allora. Sicuramente c’è la presa di distanza da Versailles, la piena condivisione degli obiettivi politici di Mussolini e del  Regime fascista, fino agli anni Trenta. Ci fu poi anche una condivisione delle ragioni della guerra d’Etiopia, di un’estensione coloniale italiana. Essendo uomo di relazioni internazionali e avendo conosciuto molte persone, era abbastanza super partes. Era stato abituato a trattare con tutti e non aveva un particolare accanimento verso gli ebrei. Si può dire che il matrimonio tra Alberti e Preziosi fu un matrimonio tra due realtà che si possono in parte distinguere. D’altra parte, la rivista di Preziosi ospitava tante suggestioni: era un organo di una certa corrente del Fascismo, che magari non era simile a quella di Bottai; però il fatto che ci scrivesse una persona come Alberti dà l’idea anche della serietà scientifica di alcuni contributi.

  La guerra delle monete è stata dimenticata e ignorata perché ritenuta ormai datata e superata? Oppure perché è un’opera scomoda?

  La mia impressione più profonda è che sia stata dimenticata come molta parte della letteratura di quella fase del Novecento: tanti scritti degli anni Trenta sono proprio stati accantonati, al di là del giudizio che si può dare su questo e quello; tutto è sprofondato nell’oblio. Quindi, oggi si deve fare una specie di ricerca “archeologica”, di recupero globale di quanto è stato scritto in quel periodo, per analizzarne caso per caso le valenze e anche il possibile valore, addirittura l’attualità. L’opera di Alberti è un po’ vittima di tutto quello che è accaduto con la letteratura tra le due guerre (parlo di letteratura in generale: dagli scritti scientifici ad alcuni romanzi o alla saggistica). Vi erano delle case editrici con una saggistica di punta, militante (per esempio, la Bompiani). Oggi, il problema è fare azione di recupero e vedere cosa resiste al tempo e cosa può essere interessante per noi. In  questo senso, non penso che Alberti sia stato dimenticato perché scomodo. Alberti era già scomodo negli anni Trenta, tanto è vero che perdette gli agganci con la grande editoria e pubblicò sostanzialmente i suoi scritti a titolo privato.

  Era scomodo per i problemi che abbiamo ricordato prima (vicenda del Credito italiano)?

  Sì, sicuramente. A parte la collaborazione con La vita italiana, egli non pubblicò più per grosse case editrici. La guerra delle monete venne stampata da Cavalleri di Como, cioè da uno stampatore-editore che pubblicava anche opere significative, ma non era certamente una realtà di punta del panorama editoriale italiano. Alberti proseguì il suo lavoro scientifico, l’insegnamento alla Cattolica e costruì - nella fase terminale della sua vita (morì nel gennaio del 1939) - questa trilogia.

  A pagina 153 del libro, lei scrive che l’ostilità finanziaria contro l’Italia era in atto da molto tempo prima della guerra d’Etiopia. Quali erano le origini e le ragioni di questa ostilità?

  Le origini vanno ravvisate nel fatto che Mussolini voleva preservare lo spazio e il ruolo di sovranità dell’Italia nel dopoguerra. La sua battaglia per la difesa della lira era un fatto che lui stesso sapeva che i grandi potentati finanziari internazionali e, in particolare, le nazioni anglo-sassoni non gli avrebbero perdonato. Non glielo avrebbero perdonato, perché l’Italia ha fermato la svalutazione della lira, preservando un baluardo della sua sovranità. Se nel libro rievoco criticamente il periodo del Fronte popolare in Francia, è perché mi sono accorto che la Francia ha perduto quote della sua sovranità proprio in quello spazio brevissimo dei primi due anni del Fronte popolare, diventando una potenza “di rito anglicano”, e quindi devolvendo parte della sua sovranità altrove fino a diventare Parigi, per certi versi, una succursale di Londra non solo dal punto di visto finanziario ma anche politico. Questo spiega tante cose che sono successe con la guerra mondiale. Mussolini, banchiere della Nazione, preserva un baluardo dell’integrità e della sovranità nazionale ad onta di tutte le manovre volte a scalfire la forza della lira. Tutte le speculazioni documentate contro la lira, che ci sono state nel ‘25 e nel ’26, miravano a sfiancare la divisa italiana e a logorare il Regime ai fini della sconfitta dello stesso.

  Quindi, si può dire che le sanzioni che seguirono la guerra d’Etiopia presero a pretesto il motivo bellico, ma in realtà furono una ritorsione per la politica fascista volta a salvaguardare la sovranità nazionale italiana?

  Sì. Nel libro, cito anche una serie di dati errati diffusi dalla stampa inglese, che tendeva a riferire in modo sbagliato la diminuzione della riserva aurea italiana. Le riserve auree italiane diminuirono, ma non in modo così subitaneo come affermarono le fonti britanniche. La disinformazione è uno strumento per attuare manovre di speculazione finanziaria e monetaria. Poi, indubbiamente l’arma finanziaria e monetaria è uno dei mezzi di lotta politica a livello internazionale: questo viene spiegato un po’ in tutto il libro. Si può usare lo strumento monetario principalmente come mezzo di lotta politica internazionale tra blocchi di nazioni, tra imperialismi diversi.

  Lei scrive anche che, a un certo punto, l’imperialismo britannico sostituisce la dominazione militare con quella monetaria.

  L’Inghilterra, attraverso la difesa della parità aurea e del sistema del gold standard, vuole assimilare altri Paesi, soggiogandoli sostanzialmente mediante l’uniformità monetaria. Si assiste al trasferimento delle riserve auree nella Banca centrale inglese e alla concessione ad altri Paesi di prestiti coperti sempre dall’allocazione di parità aurea nei caveau della Banca d’Inghilterra. Emerge chiaramente che, attraverso un sistema monetario internazionale dominato dalla sterlina ancorata all’oro, l’Inghilterra ha frenato il suo declino finché questo è stato possibile. Poi, con il crollo della sterlina naturalmente un po’ tutto è precipitato e anche l’impero si è liquefatto. Attraverso il protezionismo doganale, i rapporti con i dominions, ecc. l’Inghilterra è riuscita ugualmente a conservare, in qualche modo, un suo assetto imperiale anche con la guerra e dopo la guerra. Gli Stati Uniti, già all’inizio del XX secolo, assurgono a fulcro del sistema finanziario (non ancora monetario) internazionale, perché la finanza anglosassone si sposta da Londra a New York e da lì abbiamo il grande fenomeno dell’espansione degli anni Venti in America e il crollo del ’29.

  Lei non spende molte parole riguardo alla crisi del ’29…

  A me interessava di più analizzare i fenomeni collaterali meno conosciuti. La crisi del ‘29 la conoscono tutti. Le sue conseguenze e le sue diramazioni, le entità collaterali che si manifestano attorno alla crisi del 29’, invece, sono un aspetto più interessante da analizzare, perché poi si ha una ripercussione in Europa che comincia con il ‘31 (con il crollo della banca austriaca Creditanstalt e il crollo della sterlina: fenomeni che sono sempre stati visti in secondo piano rispetto al crollo di Wall Street, ma che hanno, secondo me, una valenza propria per capire il formarsi delle rivalità monetarie, lo svilupparsi di queste forme di aggressione monetaria molto accentuate, cioè la lotta per il dominio sull’oro). La lotta per impadronirsi degli stock aurei è un fenomeno molto rilevante.

  Nel 1936 la Banca d’Italia diventa un ente di diritto pubblico. Perché il Regime, che era fortemente interventista in fatto di economia, non arrivò a nazionalizzare la Banca d’Italia e permise la presenza dei privati all’interno della stessa?

  Perché il Regime fascista non era un regime collettivista. Esso rispettava il mercato pur difendendo l’interesse dello Stato su quello del mercato. Nazionalizzare la banca d’Italia significava sottolineare in maniera sbagliata il primato dello Stato sul mercato. Si poteva sottolineare il primato dello Stato sul mercato senza umiliare il mercato e senza violentare le sue regole. Quello che è stato fatto in Italia, in fondo, è un esempio di sistema misto che poi sopravvive anche nel dopoguerra con l’IRI, con l’”irizzazione” delle banche, cioè la semistatalizzazione dei più importanti istituti di credito. Allo stesso tempo, non si assiste al dilagare del dirigismo, del collettivismo: il sistema Italia rimane un Paese affezionato e legato all’economia di mercato, anche se poi naturalmente con l’impresa etiopica e successivamente con la Seconda guerra mondiale si stravolge un po’ tutto. Lo Stato diventa iperinterventista, tutto è subordinato all’interesse dello Stato e quindi l’assetto di guerra contraddice sempre un po’ l’interesse di un libero mercato inteso come mercato veramente concorrenziale e non dominato dagli oligopoli. La guerra significa anche inquinamento, da  questo punto di vista, della libertà dei mercati. Io difendo la libertà dei mercati ma allo stesso tempo sostengo che lo Stato non deve abdicare ai suoi ruoli, alle sue responsabilità.

  Però, nel caso della banca centrale entra in gioco anche il problema della proprietà della moneta: la moneta dovrebbe essere di proprietà del popolo. Se la banca centrale, ancorché ente di diritto pubblico, è nelle mani dei privati e non dello Stato, non c’è il rischio che il popolo venga ‘espropriato’ della sua moneta?

  Secondo me, il Fascismo ha cercato di evitare che la Banca d’Italia fosse permeata da interessi diversi da quelli dello Stato. Il ruolo del governatore Stringher, a tal proposito, è significativo: il Fascismo lo ha rispettato, sebbene Stringher non fosse un fascista. Lo ha rispettato, perché il governatore aveva già dato prova, in occasione della Prima guerra mondiale, di difendere la Banca centrale in generale da influenze germaniche. Era sufficiente che la Banca d’Italia fosse uno strumento docile e subordinato all’interesse dello Stato. Oggi le banche centrali non contano più niente, però finché c’è stata la Banca d’Italia in Italia, essa aveva il dominio sulla moneta. Di fatto con la banca d’Inghilterra - anche se non si sa quanto la sterlina possa sopravvivere - c’è ancora un baluardo di sovranità, un controllo di sovranità dell’Inghilterra sulla propria moneta presso la banca centrale inglese…

  C’era chi, all’interno del Regime, auspicava la nazionalizzazione della Banca d’Italia?

  Questo onestamente non sono in grado di dirlo. La nazionalizzazione è un modello che si è imposto nei Paesi socialisti, in Francia durante il Fronte popolare, ma non è stato un modello vincente e felice, tanto è vero che, anche dove è sopravvissuta un’economia di mercato come in Francia, il mercato non ha risposto bene alla nazionalizzazione della banca centrale: dopo, infatti, c’è stata la fuga di capitali - anche in forma aurea - all’estero. La nazionalizzazione delle banche, in Francia, è stata un esproprio proletario legalizzato, avvenuto sotto l’alto patronato del governo francese. I francesi fecero una sterzata, ma erano messi parecchio male: tra il ‘36 e il ‘37, avevano un sacco di problemi.

  La Germania di Hitler nel ‘37 nazionalizzò la Reichsbank…

  Questa è una cosa ancora diversa, nel senso che Hitler voleva accelerare il passo verso determinati obiettivi politici e quindi aveva la necessità di subordinare in maniera schiacciante la Banca centrale, la moneta, le finanze dello Stato agli obiettivi imperialistici. Hitler si stava preparando alla guerra. Prima dell’ascesa al potere dei nazionalsocialisti, viene stabilizzato il marco: questo è un fatto significativo. Schacht, tuttavia, corrisponde fino a un certo punto ai desideri di Hitler di violare, in un certo senso, lo spazio di autonomia e la ragione stessa di esistere di una banca centrale. La Germania, inoltre, si trova senza riserve auree, perché viene attuata una spesa pubblica molto consistente negli anni Trenta con la costruzione della rete autostradale, etc.. Non ci fu in realtà un vero rilancio economico se non in forma di preparazione di un’economia di guerra e le risorse auree in Germania già nel 1937 sono praticamente azzerate. A questo si aggiunge lo scontro tra Schacht e Hitler: nel 1939, il governatore si dimette, in un momento in cui la Germania, priva di riserve auree, aggredisce altri Paesi impadronendosi delle riserve auree delle banche centrali degli stessi (questo accade a Vienna, a Praga, a Varsavia, etc.). Quindi, la progressiva annessione di Paesi favorisce l’appropriazione delle loro riserve auree. L’Italia non è in queste condizioni, perché non ha le ambizioni della Germania, non arriva ad azzerare le proprie riserve auree, neanche durante la guerra d’Etiopia. Gli inglesi, quando arrivano ad Addis Abeba, saccheggiano le riserve auree stoccate nella sede etiopica della banca italiana: ciò significa che noi abbiamo mantenuto una tesaurizzazione. Si può dire, dunque, che il modello hitleriano è più simile ai modelli socialisti di quanto non sia simile il modello fascista al modello nazionalsocialista. Infatti, non a caso, si parla di modelli totalitari per il nazionalsocialismo e il comunismo (e per i sistemi di derivazione staliniana), mentre per l’Italia fascista no. L’Italia comunque è un Paese che mantiene dei suoi contrappesi, garantisce una libertà di mercato anche con il sistema corporativo, che in realtà è un modo per salvaguardare l’interesse dello Stato sul mercato, rispettando il mercato stesso. Durante il Ventennio, si ha il mantenimento di alcune libertà, di alcuni contrappesi, una vivacità culturale che in Germania si sono scordati, viene mantenuta la monarchia, persiste il Senato di nomina regia con tutti i senatori nominati dal re  prima del ’22, compreso Luigi Einaudi, si ha una Chiesa sostanzialmente libera, non violata nella sua sfera di influenza. Quindi, tutto si spiega, in fondo, su una diversità di modelli.

   A pagina 161, lei scrive che Hitler rinunciò all’arma monetaria per colpire mortalmente al cuore l’imperialismo anglo-franco-americano. Perché ciò avvenne? Hitler non aveva compreso l’importanza dell’arma monetaria? Oppure, pur consapevole dell’efficacia di tale strumento, non volle infierire “mortalmente” sul mondo anglosassone?

  Se avesse voluto colpire mortalmente l’Inghilterra, gli Stati Uniti e la Francia, avrebbe dovuto scalare anche lui le vette di quello che Alberti chiama il gigantismo aureo. Durante la guerra, è avvenuta l’emissione, ne accenno nel libro, di sterline false: questo è un segnale della coscienza dell’importanza di questi strumenti da parte di Hitler. In realtà, penso che non fosse nelle ambizioni strategiche di Hitler l’atterrare tout court il mondo anglosassone. In fondo, lui sperava e credeva in un componimento, addirittura senza la guerra e nonostante la guerra. Con l’inizio dell’operazione Barbarossa, le cose si sono tremendamente complicate, perché si è  iniziato a creare un blocco molto pericoloso per la Germania: la discesa in campo degli Stati Uniti, di fatto, ha creato un isolamento notevole nei suoi confronti. Credo che Hitler non volesse sconfiggere il nemico attraverso la leva monetaria, né volesse usare la leva monetaria come arma di lotta politica; in fondo, egli pensava che la guerra e la forza militare potessero consentire alla Germania di raggiungere tutti i suoi scopi.

  Un’osservazione molto interessante è quella che si legge a pagina 165, laddove lei dice che “la lotta per la supremazia monetaria e finanziaria costituì uno dei volti forse più nascosti di quelle politiche di potenza che eccedevano nell’uso dei ricatti della ritorsione economica per piegare i più deboli”. Ciò è riferito alla Seconda guerra mondiale, ma possiamo tranquillamente collegarlo anche ai conflitti  successivi, sia pure più circoscritti dal punto di vista geografico…

  Lo schema interpretativo di Alberti, che mette in luce la pericolosità degli imperialismi monetari,  vale soprattutto oggi, quando si stanno affacciando dei nuovi attori sulla scena mondiale e non c’è più l’equilibro tra due superpotenze. Il sistema nato nel ‘45 è stato un po’ ingessato. I conflitti, sia pure con radici molte profonde, sono stati comunque dei conflitti locali. Moltissimi, ma locali: non c’è stata, insomma, una deflagrazione. Oggi siamo invece in presenza di attori nuovi, nuovi soggetti che si stanno affacciando sulla scena mondiale ed esigono di essere  protagonisti politicamente, finanziariamente, monetariamente, senza essere subordinati a nessuno. Quindi, abbiamo avuto un declino prima della potenza sovietica e successivamente della potenza americana. Ultimamente la potenza russa si è consolidata attraverso il regime centralistico semiautoritario di Putin. Dall’altra parte, la tentazione isolazionista di Bush, del primissimo Bush, si è interrotta con l’11 settembre: il 12 settembre ha avuto inizio una nuova politica di potenza americana volta a riguadagnare il ruolo di superpotenza. Abbiamo avuto dei segni evidenti di una revanche, un ritorno di fiamma delle competizioni monetarie (euro contro dollaro), l’affacciarsi di una possibile moneta dei Paesi del Golfo persico, il desiderio di potenze arabe produttrici di petrolio di emanciparsi dal cambio obbligato petrolio/dollaro. Non solo potenze arabe, perché la stessa cosa si manifesta in sud America: si pensi al Venezuela, grande produttore di petrolio, guidato non a caso da un leader politico forte.

  Si può vedere - lei lo accenna in maniera molto fugace – anche nella guerra contro l’Iraq del 2003, presentata come un intervento volto a impedire che lo Stato iracheno si dotasse di armamenti non convenzionali, una manifestazione della lotta per la supremazia monetaria…

  Sì. L’operazione di guerra contro l’Iraq è stata smascherata da subito: non vi erano i presupposti politici e legali per potere attaccare Baghdad, perché  non sono state trovate armi di distruzione di massa e non è stato dimostrato il legame tra Saddam Hussein e Al Qaeda. Però, il fatto che Saddam Hussein, già molto tempo prima, per la verità, dell’attacco americano, volesse essere l’antesignano dello sganciamento del mercato petrolifero dal dollaro, mi sembra un fattore evidente che può aver contribuito a mirare il fuoco in una certa direzione e non in un’altra.

  Le guerre recenti, e in particolare quella contro l’Iraq, rappresentano dunque una forma di lotta per mantenere la supremazia monetaria del dollaro…

  Queste fasi alterne di tensione, falsa distensione o allentamento della tensione tra Stati Uniti e Iran hanno, in fondo, la stessa causa. L’Iran ha aperto la borsa del petrolio non quotato in dollari. Quindi, non  credo che sia per paura dell’atomica che gli Stati Uniti stringono il cappio, per utilizzare un’espressione forte, intorno a Teheran. Tra l’altro, il fatto che quello iraniano non è un regime liberale mi lascia abbastanza freddo, perché tutto il mondo è popolato di regimi illiberali e, guarda caso, il mirino del cannone è sempre puntato nell’area del Golfo persico: il perché di questo me lo devono ancora spiegare. La storia per cui si va a esportare la democrazia con le armi è una delle cose più strane che io abbia mai sentito…

  Si pensi anche al colpo di Stato – appoggiato dagli Stati Uniti - in Venezuela, nel 2002, contro un Presidente democraticamente eletto…

  Non siamo più ai tempi in cui gli Stati Uniti guardavano al sud America come al proprio giardino. È finita la codominazione imperiale USA-URSS, quindi non c’è più necessità che l’estintore americano vada a spegnere il fuoco rosso in ogni angolo del pianeta. Però laddove ci sono degli interessi, dove ci sono delle potenze emergenti di natura tale da impensierire i mercanti di petrolio, gli alti esponenti della finanza, gli speculatori, etc. l’America si impensierisce. Si impensierisce del ruolo che stanno assumendo la Cina e l’India, si impensierisce della forza che ha la Russia in Europa e del fatto che Mosca possa in qualche modo essere associata all’Unione Europea e quindi diventi il secondo polmone dell’Europa.

  La Turchia si sta oramai progressivamente orientando verso Est, verso l’Asia. Sta intensificando i rapporti con l’Iran, con la Russia e con la Cina...

  Le guerre recenti hanno gettato benzina sul fuoco: il jihad è una cosa seria e tutti i Paesi a forte presenza islamica hanno la voglia di essere protagonisti in prima persona senza delegare a un protettore, come è accaduto per tanti decenni. Sono seriamente preoccupato dai rischi di escalation internazionale, dai nuovi focolai che si possono accendere. Ho modestamente delle piccole idee che non ho espresso nel libro: mi piacerebbe un giorno svilupparle contro il dilagare delle guerre preventive. Io vedo il ruolo centrale dell’Europa nel proiettarsi verso Oriente. Non credo più alla centralità di alleanze neoatlantiche, ma credo al fatto, per esempio, che la Russia possa essere un buon collante di nuovi patti, di nuove alleanze di tipo euro-asiatico. Un’altra cosa, secondo me, importante sarebbe quella di creare un tavolo negoziale, una conferenza che può diventare un tavolo negoziale permanente tra tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo (la sponda sud, islamica, araba e le sponde nord-europee), con il compito di svelenire tutte le tensioni attuali, e mettere, per esempio, Israele di fronte alle proprie responsabilità verso i suoi vicini, che non può più eludere. È importante che si creino nuove situazioni, non soltanto il G8 o il G20. Visto che siamo nell’”Europa a 27”, che secondo me non ha molto senso, abbiamo incluso Malta e non includiamo la Russia? Lasciamo la Russia fuori dalla porta???

  Vi è chi propone, oltre al naturale ingresso della Russia nell’Unione europea, anche quello di Israele… non ha molto senso…

  Io la vedo in un’altra ottica, non ha nemmeno senso che la Turchia entri nell’Unione europea. I Paesi che si affacciano sul Mediterraneo meridionale sono un’altra cosa rispetto alla tradizione europea. Quindi, noi abbiamo una vocazione ad andare incontro a questi Paesi che sono i più prossimi a noi, ma che appartengono a un altro mondo, ad altri continenti, il continente africano per un verso e l’Asia per l’altro. Il mondo arabo, come elemento di comunicazione con il mondo asiatico, può essere un veicolo formidabile di collegamento, perché ci porta a dialogare con l’Oriente. Non vedo perché dobbiamo portare la Turchia nell’Unione europea, quando possiamo benissimo istituire una conferenza permanente dei Paesi del Mediterraneo, che secondo me darebbe una dignità e un riconoscimento a tutti i Paesi, anche a quelli piccoli come la Tunisia che non sono motori di grande crescita economica ma hanno una loro storia, un loro ruolo storico che va rispettato e riconosciuto. Bisogna obbligare Israele a parlare con i suoi vicini. Non devono essere più nemici, ma appunto vicini. D’altro canto, prima o poi si dovranno fare i conti: i dati demografici non sono favorevoli alla componente ebraica di quella regione e, quindi... Qui si è proceduto con degli stop and go che sono risultati assolutamente negativi. A fasi di negoziato, di svelenimento del clima, si è passati a improvvise fasi di acuto contrasto: e questo non va bene. Si sono fatti passi avanti e subito dopo passi indietro. Israele ha una responsabilità storica e, se vuole vivere in sicurezza, deve dialogare, accettare l’esistenza di due Stati, la sovranità di uno Stato palestinese. Invece c’è troppa esitazione, probabilmente lì pesano tanti fattori. Certo, le guerre contro l’Afghanistan e l’Iraq non hanno aiutato il processo di distensione in Medio Oriente. Sono stati fatti moltissimi errori negli ultimi anni, soprattutto dall’amministrazione Bush: l’America ha preso delle scorciatoie molto pericolose, che non sono facilmente reversibili. Tornare indietro non è più così facile, quindi occorre che ciascuno faccia la sua parte con convinzione e con forza. Servirebbe un ruolo forte dell’Unione europea, ma purtroppo essa non ha una politica estera comune, né una difesa comune; fortunatamente abbiamo la moneta unica, ma l’euro a questo punto è troppo poco. L’euro senza una  politica unidirezionale autorevole dell’Europa in ambito internazionale, nella difesa, etc. è qualcosa di incompiuto, purtroppo. La moneta unica è il segnale che si voleva fare sul serio, ma poi ci si è fermati,  perdendo almeno dieci anni in derive non propriamente rassicuranti. Non vedo dei grandi statisti in giro. Le nuove superpotenze, o candidate superpotenze, non vogliono più tutori e protettori; desiderano contare per le loro forze: bisogna prenderne atto.

  Non è che abbiano tutti i torti però…questi nuovi competitori…

  Sono realtà, si stanno imponendo, sono questi gli attori centrali della politica del XXI secolo. Se non vogliamo far sì che il XXI secolo diventi la coda velenosa del XX, dobbiamo sbrigarci. Ma io la voglia di fare questo non la vedo. Bisogna discutere molto di più, negoziare molto di più, tendersi la mano molto di più: occorre che tutti facciano la loro parte. Anche l’ONU è un’entità che spesso sembra un fantasma francamente…

  È la degna erede della Società delle nazioni…

  Con la Società delle nazioni non ci siamo salvati, abbiamo creato un ponte tra un conflitto e un altro e basta.

29 marzo 2010

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