Storia di Craxi. Intervista con Ugo Finetti Stampa

Storia di Craxi. Intervista con Ugo Finetti

a cura di Francesco Algisi

 

  Ugo Finetti, giornalista, ha realizzato per la Rai inchieste e reportages in vari paesi europei. Tra i suoi libri si segnalano Il dissenso nel Pci (1978), La partitocrazia invisibile (1985), La resistenza cancellata (2003), Togliatti-Amendola. La lotta politica nel Pci. Dalla Resistenza al terrorismo (Ares 2008). È condirettore di “Critica Sociale”.

  Il suo ultimo libro, Storia di Craxi. Miti e realtà della sinistra italiana, è stato pubblicato da Boroli editore.

  Dottor Finetti, come si può definire il socialismo di Bettino Craxi?

  È l’individuazione di un “socialismo liberale” che da un lato ha ricollegato il Psi alle sue origini e tradizioni riformiste e dall’altro lo ha inserito nel quadro del socialismo democratico.

  La rimozione di Falce e martello dal simbolo del Partito è stata compiuta grazie a Craxi che ha così cancellato il “timbro” che venne messo dai comunisti quando la maggioranza massimalista portò il Psi ad aderire all’Internazionale Comunista.

  Con Craxi cessa una politica tutta nazionalizzazioni e programmazione nel segno della fuoriuscita dal capitalismo e di schieramento “antimperialista” e “pacifista” in sostanza antiamericano.

  Con Craxi il Psi accetta pienamente l’economia di mercato ed esalta il pluralismo economico: un’economia di mercato non dei monopoli, ma un’economia di mercato imperniata sulla concorrenza e con impegno sul sociale.

  A ciò si aggiunge la scelta di collocare pienamente il Psi nel quadro della democrazia occidentale, a fianco dei partiti socialisti europei. Vi è quindi un forte impegno europeista e atlantico pur con una forte attenzione ai paesi mediterranei e in via di sviluppo tanto da essere commissario dell’Onu per un programma di aiuto a questi stati.

  I socialisti furono quindi con Craxi schierati contro le dittature di destra e di sinistra e cioè a sostegno sia degli esuli cileni, greci e spagnoli sia dell’opposizione sovietica, polacca e cecoslovacca.

  È in questo quadro di principi che si colloca l’impegno nel governo dell’Italia.

  Nel 1979 il Psi creò le condizioni di una governabilità senza il Pci per affrontare una situazione di emergenza evitando una instabilità che avrebbe impedito di reagire efficacemente alle difficoltà economiche e all’attacco estremistico. Non va dimenticato che Berlinguer non fu discriminato, ma che uscì dalla maggioranza perché i comunisti italiani non potevano sostenere una politica atlantica ed europeista: il Pci infatti si schierò contro la scelta di installare gli euromissili (contro gli SS20 sovietici puntati contro le capitali europee) e contro la scelta di aderire al Sistema Monetario Europeo che fu il primo passo verso la moneta unica.

  Dall’assunzione di responsabilità di governo nel 1980 e poi di guida del governo nel 1983 i socialisti hanno contribuito in modo determinante alla tenuta democratica contro il terrorismo e l’estremismo e per il superamento della crisi economica conseguente alla crisi energetica e alla deindustrializzazione degli anni ’70 affrancandosi da una strategia anticapitalista.

 

  A proposito del Psi di Craxi, Giano Accame parlò di “socialismo tricolore”. Quale ruolo giocò la componente nazionale e patriottica nella visione craxiana del socialismo?

  Craxi non condivideva la lettura classista del Novecento come scontro tra capitalismo reazionario a tendenza fascista e classe operaia ad avanguardia comunista. Più in particolare rifiutava la tesi di una sostanziale “eccezione d’infamia” sulla storia nazionale che secondo la storiografia dominante di influenza marxista era imperniata sulle tesi del Risorgimento tradito e della Resistenza tradita con Mussolini-demone che è figlio dell’Italia liberale e padre dell’Italia repubblicana con il Pci all’opposizione.

  Craxi rivendicava una continuità e un “patriottismo” nel segno di una storia nazionale che vide l’unità d’Italia raggiunta con lotte e ideali straordinari e che si era tradotta in crescita sociale, modernizzazione e assunzione di un ruolo da protagonista sulla scena internazionale già nel periodo giolittiano.

  Di conseguenza fu contro la cultura dell’”Altra Italia”, dell’Italia dei gruppi minoritari (ghibellin-giacobini-marxisti) secondo cui, in particolare dal dopoguerra, avremmo conosciuto solo reazione, restaurazione capitalista, imprenditori sfruttatori e un’economia a rimorchio degli Stati Uniti.

  Nei suoi scritti, iniziative e manifestazioni dedicò particolare impegno a disegnare una storia del socialismo italiano che si intrecciava positivamente con la storia dell’unità d’Italia. Non era, secondo Craxi, con la nascita del partito comunista che i lavoratori avevano finalmente un’avanguardia matura cosciente e capace. Al contrario il comunismo - con il suo antipatriottismo ed il suo internazionalismo proletario filosovietico - rappresentò un ottenebramento e un inquinamento del movimento dei lavoratori italiani. La valorizzazione di Garibaldi operata da Craxi era diretta appunto a non far nascere il “vero” socialismo dopo 1921 e a saldare tradizione socialista e storia d’Italia.

 

  In che rapporto si pone questo socialismo con la tradizione marxista e con la storia socialista italiana?

  Il rifiuto della lettura classista implica anche la non condivisione del dogma marxista della radicalizzazione sociale tra borghesia e classe operaia ovvero della “proletarizzazione” dei ceti medi.

  Berlinguer aveva invece fatto propria la lettura estremistica di Asor Rosa secondo cui l’Italia andava radicalizzandosi in “due Italie” contrapposte puntando quindi sugli “emarginati”. Basti pensare che Berlinguer alla Conferenza operaia del Pci che si svolse a Milano nel 1976 arrivò a declamare – lasciando di sasso gli stessi dirigenti comunisti della Cgil – che i lavoratori italiani dovevano prendere esempio dai vietnamiti e non andare al lavoro in auto, ma in bicicletta (sic!).

  Craxi recuperando il patrimonio riformista guardò in modo articolato al mondo del lavoro e soprattutto a partire dalla sua esperienza milanese considerava con attenzione non solo i ceti medi, ma anche la piccola e media imprenditoria. Dalla crisi degli anni ’70 egli vedeva delinearsi un futuro non apocalittico e di radicalizzazione. Al contrario si trattava di incoraggiare ad esempio la crescita del terziario di fronte alla deindustrializzazione.

  Si svilupparono così numerosi convegni del Psi che prima e dopo la Conferenza programmatica di Rimini del 1982 proposero una lettura nuova della società italiana e delinearono politiche di innovazione.

  Le politiche del lavoro, ad esempio, di cui un capitolo fu il decreto sulla scala mobile portarono i socialisti a un rapporto molto positivo con le componenti riformiste del sindacalismo e della cultura cattolica: dalla Cisl al Censis.

 

  Craxi è stato spesso paragonato, dai suoi critici e avversari, a Benito Mussolini. Qual era la posizione del Leader socialista riguardo alla figura di Mussolini?

  Nella riconsiderazione della storia unitaria per Craxi anche Mussolini non andava demonizzato e nella sua azione andava visto – senza indulgenza per dittatura e razzismo – come l’Italia era cambiata e cresciuta.

  La figura di Mussolini, la sua storia personale dagli albori socialisti alla dittatura, le sue idee e le iniziative che Mussolini mise in atto in Italia, nel mondo del lavoro e in campo culturale, e sulla scena internazionale erano frequente oggetto di riflessione e Craxi ne parlava spesso nei cosiddetti “pranzi del lunedì”, gli incontri settimanali con i dirigenti milanesi a lui più vicini prima di partire per Roma.

  Craxi rifiutava giudizi sommari e sprezzanti anche se era molto legato all’antifascismo che primeggiava nella sua famiglia, nel padre e quindi nella sua educazione.

  In questa attenzione e rilettura della figura di Mussolini Craxi era anche influenzato dall’atteggiamento di Pietro Nenni che pur nella contrapposizione più radicale al fascismo manteneva l’eco della giovanile amicizia e di motivi di rispetto e di affetto verso Mussolini con cui era stato insieme in prigione dopo “la settimana rossa”. Quando apprese la notizia della fucilazione del Duce,il leader del Psi non nascose le lacrime. Va anche ricordato che quando Edda Ciano rientrò a Roma si recò a casa di Nenni dove fu accolta affettuosamente. Nenni fu al centro di una forte polemica, ma egli che pur all’epoca era filocomunista e filo stalinista replicò serenamente: “L’ho tenuta in braccio da bambina”.

  Nel fascismo e in Mussolini vi furono elementi di modernizzazione della società, di miglioramento delle condizioni dei lavoratori (dall’alfabetizzazione all’assistenza) e di intraprendenza verso potentati nazionali che Craxi teneva presente e che oggi – grazie alla strada aperta da De Felice – sono sempre più riconosciuti.

 

  Negli anni di Craxi, gli organi culturali del Psi si impegnarono nella rivisitazione della vulgata resistenziale, aprendosi ai contributi provenienti anche da intellettuali di destra e alle tesi del prof. Renzo de Felice. Ciò tradiva il desiderio di superare l’antifascismo militante?

  Vi erano varie ragioni. In particolare: la non accettazione della coincidenza tra antifascismo e democrazia, la contestazione di una agiografia dell’unità antifascista, il rifiuto dell’uso della Resistenza a fini politici strumentali fino alla degenerazione di usarla come legittimazione del terrorismo di sinistra, l’opposizione a porre al centro della vita politica “la questione comunista” ovvero la riedizione dei governi del Cln e, in conclusione, la non condivisione dell’”arco costituzionale” e cioè la pregiudiziale esclusione del Movimento sociale dalla vita parlamentare.

  La Resistenza era per Craxi un fatto importante, ma non andava rappresentata come veniva fatto prevalentemente e cioè come un film sovietico. Vi furono nella lotta di liberazione a fianco degli Alleati una pluralità di apporti che l’animarono, forti contrasti che la caratterizzarono e soprattutto atti della “Resistenza parallela” comunista - che forse sarebbe più esatto definire  “Resistenza italo-jugoslava” - che andavano condannati e fatti conoscere.

 

  Come si spiega l’ostilità del mondo finanziario (italiano e non) nei confronti di Craxi?

  Le ragioni di impopolarità e di odio nei confronti di Craxi nascono dal fatto che egli aveva fatto crescere e diventare determinante un partito socialista che sembrava destinato a scomparire portandolo da meno del 10 per cento a quasi il 15 per cento, ma soprattutto lo aveva caratterizzato come del tutto autonomo dal Pci e anche dalla Dc. Con Craxi il Pci non solo era tornato all’opposizione, ma aveva iniziato una parabola elettorale che lo ridimensionava ad ogni elezione (salvo le europee del 1984 celebrate sull’onda dei funerali di Berlinguer). Il comunismo italiano nel 1989 era già sconfitto.

  Il fatto che un partito minore svolgesse un ruolo da protagonista imponendosi a Dc e Pci faceva infuriare elettori comunisti e democristiani, anche se, d’altra parte, si assistette anche ad una popolarità di Craxi che andava ben oltre i confini di partito proprio perché dava il segno di “decisionismo” e cioè di cercare di affrontare i problemi rifiutando l’immobilismo e di voler modernizzare il paese caratterizzandolo sulla scena internazionale e con una nuova e forte attenzione ai ceti produttivi.

  Il mondo finanziario ebbe un atteggiamento non sempre ostile. Vi fu da parte dello stesso Cuccia un periodo di forte simpatia. Il leader di Mediobanca vedeva con piacere un indebolimento della presa democristiana e conseguentemente un indebolimento della finanza “bianca” che mai persino i comunisti avevano osato contestare. Apprezzava in Craxi una politica di innovazione e di uscita dal paludamento. Ma alla fine lo stesso Cuccia si allineò alle posizioni della Fiat che aveva visto sempre con fastidio che vi fosse un soggetto politico in Italia. Agnelli aveva sempre amato situazioni di potere politico debole, immobile, balcanizzato e facilmente influenzabile.

  L’ostilità a Craxi che disturbava il consociativismo e dava vita a un governo che governava fu quindi naturale. Non solo De Benedetti, ma anche Romiti votò contro l’accordo sulla scala mobile nell’esecutivo della Confindustria cercando di mettere in minoranza Merloni. In quella vicenda emerse con chiarezza come dalla Fiat a Guido Carli editorialista di De Benedetti la politica di rigore era invocata solo a parole, ma la preferenza era per il consociativismo paludoso e un potere politico debole e subalterno da cui ricavare assistenzialismo.

  In sostanza certo mondo finanziario non voleva avere a che fare con un potere politico che fosse un soggetto autonomo fino all’imprevedibilità. Se Craxi fosse stato “comprabile” non sarebbe stato rovesciato.

  La sua caduta è ricercata da chi intende mettere le mani sul patrimonio pubblico e vede in Craxi un ostacolo che non può essere rimosso con le tangenti. L’attacco nacque per il fatto che in Italia contemporaneamente alla caduta del comunismo che avrebbe rafforzato Craxi si apriva per gli anni futuri uno scenario nuovo con tre importanti scadenze: privatizzazioni, moneta unica, allargamento della Comunità europea ai paesi dell’Est. Una partita strabiliante che vide un fuoco di artificio di progetti e di desideri.

 

  Craxi era favorevole alle privatizzazioni?

  Le privatizzazioni furono al centro della caduta di Craxi. Tutto nacque dall’avversione  cresciuta nell’area imprenditorial-finanziaria alla prospettiva di un ritorno del segretario del Psi alla guida del governo. Craxi non era contrario alle privatizzazioni, ma certamente avrebbe avversato il “self service” e preteso che venissero fatte in un quadro di salvaguardia di posizioni strategiche per l’economia italiana. In particolare non condivideva le mire di Cuccia sulla Comit e temeva quel che poi è avvenuto: la sua scomparsa.E cioè avrebbe avversato il modo in cui sono poi state fatte le privatizzazioni: “a mani libere” da parte di cordate messe in piedi secondo due esiziali criteri speculativi e cioè: a indebitamento e senza garanzia di non vendere a distanza di poco tempo dall’acquisizione.

  Avendo azzerato il potere politico per via giudiziaria si sono così potute fare privatizzazioni puramente speculative con nuovi proprietari assillati dall’indebitamento contratto con le banche, che hanno ridimensionato ricerca, sviluppo e competitività ed hanno spesso rivenduto poco dopo agendo con mire appunto puramente speculative e consentendo uno smantellamento della presenza italiana in settori strategici e regalando un generalizzato primato di altri paesi.

  Certamente si può contestare il ruolo crescente che Craxi esercitava nel mondo economico contrastando cordate e promuovendone altre. Non è sulla strada maestra un paese in cui la politica invade il territorio della economia. Ma per comprendere questo fenomeno va tenuto conto che esso fu conseguenza della pretesa a sua volta del potere economico di invadere e dominare la scena politica. Può sembrare l’uovo e la gallina, ma da parte di Craxi vi era una ribellione alla pretesa di alcuni imprenditori e banchieri di essere il “governo ombra”, anzi il vero governo d’Italia.

 

  A proposito di Tangentopoli, Paolo Cirino Pomicino ha più volte parlato di una “manina d’oltreoceano”. Anche Craxi era di questo avviso?

  Non so. Dai suoi scritti dalla Tunisia non mi sembra che ritenesse di essere vittima di una “vendetta” di un paese straniero.

  “Mani pulite” è una storia essenzialmente italiana che rispecchia appunto la crescita di una forte avversione al ritorno di Craxi alla guida del governo alla vigilia delle privatizzazioni. “Mani pulite” non è stata una manovra commissionata, né una vendetta estera. Bisogna diffidare di dietrologie. Il complottismo nasce dal negare l’evidenza. L’evidenza è quel che il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha definito “durezza senza eguali” e “brusco spostamento degli equilibri nel rapporto tra politica e giustizia”.

 

  La vicenda di Sigonella e la posizione filo-palestinese, secondo Lei, sono all’origine delle “disavventure” politico-giudiziarie di Bettino Craxi?

  Non credo che gli israeliani siano stati così stupidi da rischiare una presa del potere, che nel 1992-1993 sembrava automatica, da parte dei postcomunisti e di un conglomerato politico che, a cominciare da Occhetto e D’Alema,  era ed è tuttora  schierato a fianco di Hamas, delle posizioni più estremiste rispetto ad Arafat e oggi ad Abu Mazen.

  È vero il contrario: con “Mani pulite” vi è stato un forte indebolimento dell’ala filoisraeliana in Italia che ha rischiato di sparire dalla scena politica.

  Va ricordato – per comprendere Sigonella – che, a parte il fatto che Craxi ignorava che fosse stato compiuto un assassinio sulla “Achille Lauro”, al centro della opposizione alla consegna dei palestinesi agli Stati Uniti vi è stata la preoccupazione di salvaguardare Mubarak. Il presidente egiziano si era esposto in prima persona nella mediazione per il rilascio della nave facendosi garante che i palestinesi non sarebbero stati arrestati. Ne andava la credibilità e il prestigio di Mubarak nel mondo arabo. Se Craxi cedeva avrebbe pugnalato nella schiena il leader della parte moderata del mondo arabo. Di ciò si rese ben conto il presidente degli Stati Uniti. Regan infatti invitò immediatamente Craxi alla Casa Bianca e archiviò il caso condividendo il “salvataggio” di Mubarak che era un interlocutore fondamentale anche per gli Stati uniti.

 

  Berlusconi può essere considerato l’erede di Craxi? Come vide il Leader socialista la “discesa in campo” del Cavaliere nel 1994?

  Come ha osservato Lucio Colletti nel 1999 l’Italia è stato l’unico paese al mondo in cui i partiti anticomunisti democratici sono finiti sul banco degli imputati e i comunisti sul banco dei giudici. “Mani pulite” aveva disegnato una dialettica imperniata su Pci-Pds da un lato e dall’altro una destra a guida postfascista. Ma dopo i duelli di Roma e Napoli tra Rutelli e Fini e Bassolino e la Mussolini con Berlusconi quello schema fu scompaginato.

  La conseguenza della criminalizzazione della Dc e del Psi salvaguardando insieme ai comunisti solo la sinistra socialista e democristiana ha fatto sì che la maggior parte dell’elettorato del pentapartito nel 1994 si riversò su Forza Italia mentre l’elettorato della sinistra cattolica e socialista confluì sotto la guida postcomunista.

  La discesa in campo di Berlusconi fu quindi ben vista da Craxi che auspicava la sconfitta del disegno di consegnare l’Italia a un conglomerato postcomunista che lasciava le mani libere ai cosiddetti “poteri forti”.

  Craxi e Berlusconi – pur nelle loro radicali differenze a cominciare dal riferimento alla tradizione socialista dell’uno e a quella liberale e cattolica dell’altro - hanno in comune il fatto di aver avuto contro da un  lato l’establishment politico-finanziario e dall’altro comunisti ed estremisti.

  Berlusconi è a torto sottovalutato. E’ sempre stato attento alla politica secondo appunto una avversione verso il sessantottismo, i comunisti e l’establishment conservatore e consociativo. Sin dagli inizi negli anni ’70 egli guardava con attenzione al vivaio del Ceses di Renato Mieli. La sua prima “discesa in campo” politica è stato il salvataggio del “Giornale” di Montanelli che si contrapponeva al Corriere e Repubblica espressione dell’alleanza tra Grandi Famiglie e comunisti e simpatizzanti del Sessantottismo.

  D’altra parte in Craxi e Berlusconi molti italiani – lavoratori che amano veder premiato il merito, ceti medi e imprenditorialità competitiva – hanno visto in loro chi  cercava di modernizzare il paese mantenendo una forte tutela sociale, non trattava risparmiatori e proprietari di casa come delinquenti e “carne da cannone” da colpire ad ogni finanziaria, ma li difendeva e li incoraggiava.

 

22 maggio 2010

Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA