La Turchia di Erdogan. Intervista con Carlo Frappi Stampa

La Turchia di Erdogan. Intervista con Carlo Frappi

a cura di Francesco Algisi

 

erdogan  Carlo Frappi è membro dell’Associazione per lo Studio in Italia dell’Asia Centrale e del Caucaso (ASIAC). Ha frequentato il corso di dottorato in Storia Internazionale presso l’Università degli Studi di Milano e il corso di specializzazione in “Democratizzazione ed Affari Politici”, organizzato, con il patrocinio OSCE, all’Accademia Diplomatica di Vienna e dall’Austrian Study Center for Peace and Conflict Resolution. Fondatore dell’Italian Center for Turkish Studies (ICTS) e responsabile del Desk Turchia presso Equilibri, è borsista del programma di ricerca European Foreign and Security Policy Studies (EFSPS) di Compagnia di San Paolo, Riksbankens Jubileumsfond e Volkswagen Stiftung. Collabora con l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale in qualità di reseach fellow presso l’Osservatorio sul Caucaso e l’Asia Centrale.

  Dottor Frappi, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) è stato spesso definito come una versione turco-islamica della Democrazia cristiana. È fondato questo paragone?

  Personalmente, non amo eccessivamente le comparazioni tra esperienze politiche nate e sviluppatesi in tempi e modalità troppo differenti tra loro. Ciò detto, se il paragone si fonda sulla natura moderata e conservatrice dei due partiti e sul comune retroterra culturale rappresentato dal richiamo a valori confessionali, allora direi che il paragone può reggere.

  Pur tuttavia il contesto storico e culturale nel quale le due esperienze partitiche hanno visto la nascita è profondamente diverso. L’AKP si fa portatore – ed è su questo piano che ha fondato il proprio successo elettorale – di una Turchia più profonda, una Turchia conservatrice, rimasta per decenni ai margini della vita sociale, economica ed intellettuale del Paese. In questo senso e volendo dare un’interpretazione più ampia dell’ascesa e del successo politico dell’AKP, si può a mio giudizio affermare che il partito guidato da Erdogan si è fatto portatore della necessità di parziale ridefinizione dell’identità nazionale turca e di adattamento del precetto kemalista ad una realtà interna, regionale ed internazionale ben diversa da quella in cui tale dottrina si era formata e sviluppata.

  Quali differenze presenta l’AKP rispetto al Refah Partisi di Erbakan, messo fuorilegge dalla Corte costituzionale turca nel 1998?

  Le differenze tra AKP e Refah si fondano principalmente nel diverso contesto interno ed internazionale nel quale i due partiti si sono imposti sullo scenario politico turco.

  Erbakan guidava un governo nato debole sul piano interno, in un contesto regionale caratterizzato da una profonda rivalità tra la Turchia ed i propri vicini. In un cortocircuito tipico dell’architettura istituzionale turca, le rivalità regionali della seconda metà degli anni novanta contribuivano ad accentuare la tradizionale tendenza alla sicurizzazione delle istituzioni nazionali e – conseguentemente – il ruolo e l’interferenza dell’apparato militare e degli alti ranghi del potere giudiziario sul potere civile.

  Al contrario, le nette affermazioni elettorali dell’AKP nelle tornate del 2002 e 2007 hanno garantito al partito una solida maggioranza parlamentare. Inoltre, la tenuta e la legittimazione interna dell’operato dell’AKP ha potuto beneficiare, specie nel corso del primo mandato, dell’apertura del percorso europeo del Paese. E’ in questo contesto che i governi AKP hanno potuto infatti aprire una fase di profonda riforma istituzionale ancor oggi in corso.

  Quali vantaggi potrebbe offrire l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea? E quali rischi nasconde tale eventualità?

  Indipendentemente dall’analisi di vantaggi e rischi economici legati ad un possibile ingresso della Turchia nell’Unione, ritengo che un’Europa matura, volenterosa di rovesciare l’assunto del “gigante economico, nano politico” e di assumere un ruolo di primo piano nelle relazioni internazionali sullo scacchiere euro-asiatico, necessiti della Turchia.

  Concentrandosi su un’ottica di breve e medio periodo, ritengo inoltre che una fondamentale importanza ricopra – prima ancora che l’esito finale del negoziato d’adesione – l’andamento del negoziato stesso. Sin dal 1999, ovvero dalla concessione alla Turchia dello status di ‘paese candidato’, Ankara ha compiuto passi da gigante sulla strada dell’armonizzazione del sistema istituzionale e della condotta di politica estera alle pratiche europee. L’ambigua conduzione del negoziato da parte europea – o, peggio ancora, la sua sospensione – spezzerebbe un circolo virtuoso dal quale l’Europa intera, prima ancora che la Turchia, ha certamente tutto da guadagnare.

  I turchi desiderano ancora entrare nell’UE?

  Il ‘desiderio’ della popolazione turca di entrare nell’Ue rimane, a mio giudizio, fondamentalmente inalterato. L’ingresso nell’Ue resta il punto più alto di un processo di occidentalizzazione inaugurato con la nascita stessa della Repubblica. Sul piano strettamente simbolico-identitario, la valenza attribuita all’ingresso nell’Unione resta dunque profondamente radicata nell’opinione pubblica turca.

  Non si può tuttavia ignorare il trend negativo registrato, nell’opinione pubblica turca, circa il sostegno al negoziato di ingresso nell’Ue, frutto dei suoi altalenanti risultati e di uno strisciante senso di pretestuosità delle sue clausole – scritte e non. Il rischio, dunque, è che le perplessità sull’andamento del negoziato – e, più in generale, sulla buona fede nella conduzione dello stesso da parte delle cancellerie europee – possa finire per inficiare, nel medio periodo, lo stesso desiderio dei Turchi di entrare in Europa.

  Il segretario alla Difesa Usa, Robert Gates, ha recentemente accusato l’UE di aver “spinto Ankara verso Oriente”…

  Non c’è dubbio che le ambiguità e i tentennamenti delle cancellerie europee in relazione al nodo dell’ingresso turco nell’Ue abbiano costituito un importante incentivo al ripensamento delle direttrici della politica estera del Paese. Un ruolo analogo ha tuttavia rivestito l’unilateralismo delle scelte di politica regionale adottato dalle amministrazioni Bush.

  Detto ciò, ritengo che il ripensamento delle direttrici della politica estera turca abbia radici più profonde, legate al processo di ridefinizione del ruolo internazionale e regionale del Paese nel sistema post-bipolare. Il dialogo con tutti gli attori facenti parte del difficile scenario regionale al cui centro la Turchia si colloca – dalla Russia alla Siria, dall’Iraq all’Iran, dai paesi del Golfo fino al Pakistan – è, per Ankara, una necessità storica, non una scelta congiunturale. Nella stessa logica rientra, a mio avviso, l’apertura al dialogo con gli attori regionali non statali – da Fatah ad Hamas passando per Hezbollah.

  La presunta tendenza ‘filo-islamica’, che molti analisti scorgono nella politica estera turca, è dunque una semplificazione che nasconde più di quanto non riveli delle sue attuali direttrici.

  Quanto è stato determinante il ruolo dell’attuale Ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu nella svolta geopolitica di Ankara degli ultimi tempi?

  Davutoglu è sicuramente una figura centrale del pensiero politico dell’AKP su questioni di politica estera. Ancora prima di divenire Ministro degli Esteri, Davutoglu – nella sua veste accademica prima e in quella di consigliere di Erdogan poi – ha gettato le basi di una teorizzazione delle linee guida di politica estera nazionale della quale la Turchia aveva certamente bisogno. Non è un caso che questa necessità fosse apparsa in maniera già piuttosto evidente con i governi Ecevit – che hanno preceduto l’ascesa politica dell’AKP. Questa considerazione è centrale proprio nell’ottica di riportare l’azione dell’AKP a più datate linee di politica estera.

  Che cosa intende Davutoglu con il concetto di “profondità strategica” (stratejik derinlik)?

  La cosiddetta dottrina della “Profondità strategica” risponde alla richiamata necessità, per la Turchia, di ridefinire il ruolo del Paese in un contesto regionale ed internazionale ben più complesso rispetto a quello precedente al 1989-’91. La ridefinizione del ruolo regionale ed internazionale del Paese passa, secondo tale dottrina, dalla possibilità di riscoprire la centralità assicurata alla Turchia da considerazioni di natura geografica, storica e culturale. Ankara è chiamata a bilanciare i tradizionali rapporti con gli interlocutori euro-atlantici, con una fitta rete di relazioni regionali inclusive. Una rete economico-diplomatica che, da un lato, metta la Turchia al riparo dalle periodiche crisi regionali e, dall’altro, innalzi il Paese al rango di attore pivotale su un piano multi-regionale. Il passaggio dalla ‘periferia’ al ‘centro’ del sistema internazionale post-bipolare rappresenta, in ultima istanza, l’essenza e l’obiettivo prioritario della dottrina della “Profondità strategica”.

  È ipotizzabile l’uscita della Turchia dalla Nato nel breve-medio periodo?

  Direi di no. La Nato resta un fattore determinante per l’ancoraggio del Paese alle strategie di sicurezza euro-atlantiche. Ciò non vuol dire, tuttavia, che Ankara aderisca e sostenga incondizionatamente le attività dell’Alleanza, tanto più laddove queste minaccino – come nello scacchiere del Mar Nero allargato – di tradursi in un fattore di destabilizzazione regionale piuttosto che l’inverso.

  La conferenza di Istanbul del 10 giugno 2010 ha auspicato la nascita di una zona di libero scambio tra Turchia, Siria, Libano e Giordania. Quali risvolti politici potrà avere tale progetto?

  L’idea di creare una zona di libero scambio con Siria, Libano e Giordania non è che l’ultimo passo di un processo di approfondimento degli scambi economico-commerciali con i paesi mediorientali che sostiene e completa la “Profondità Strategica” della Turchia. L’interdipendenza economica rappresenta infatti, in questo quadro, un imprescindibile pilastro dell’intesa diplomatica tra Ankara ed i propri vicini – secondo un assunto liberista che fu già propugnato, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, dall’allora Primo Ministro e Presidente della Repubblica Turgut Ozal.

  Vi potrà entrare anche l’Iran?

  Se la logica dell’accordo è quella di approfondire l’intesa economico-diplomatica con i propri vicini nella prospettiva di favorire la cooperazione e la stabilità regionale, non vedo – almeno in linea di principio – incongruenze rispetto alla partecipazione di altri attori regionali, ivi compreso l’Iran.

  Come sono realmente i rapporti politici, economici e militari tra la Turchia e Israele, al di là dell’apparente freddezza sul piano diplomatico ufficiale?

  L’asse turco-israeliano ha rappresentato un fattore di prioritaria importanza per le politiche regionali dei due paesi nel corso degli anni novanta. All’interesse di Tel Aviv di scongiurare il totale isolamento regionale, faceva da contraltare l’interesse di Ankara di sfruttare l’alleanza militare con Israele in relazione ai principali nodi di tensione regionali che la vedevano coinvolta.

  La prospettiva turca è tuttavia profondamente mutata proprio in ragione dell’inaugurazione di una linea diplomatica di dialogo con i propri vicini. Una linea che rende oggi Israele meno indispensabile per la Turchia di quanto non lo fosse un quindicennio or sono. L’approfondimento delle relazioni diplomatiche tra Ankara ed i propri vicini – sia pur con modalità spesso invise a Tel Aviv – rende invece la Turchia, paradossalmente, più importante che mai per Israele. La mediazione di Ankara con la Siria, così come la possibilità che la Turchia assuma un ruolo di mediazione con Hamas e tra le stesse fazioni palestinesi, rappresentano le più evidenti manifestazioni di questa tendenza.

  Il sostegno alla causa palestinese più volte ribadito da Erdogan è davvero sincero o è l’ennesima strumentalizzazione dei palestinesi a uso interno e finalizzata alla crescita del prestigio turco presso le masse islamiche?

  Il sostegno alla causa palestinese non nasce, in Turchia, con Erdogan. È, al contrario, fenomeno le cui origini possono essere collocate almeno negli anni settanta e che trascende la sfera politico-istituzionale. Ciò detto, le posizioni filo-palestinesi assunte dall’AKP rispondono ovviamente anche a logiche di natura interna, così come alla richiamata volontà di giocare un ruolo di primo piano sullo scenario regionale.

  La recente riforma costituzionale – che dovrà essere approvata mediante un referendum popolare in programma nel settembre 2010 – come cambierà gli equilibri interni della Turchia?

  Il referendum costituzionale rappresenta il punto forse più alto della contrapposizione tra il tradizionale establishment kemalista e i circoli governativi – una contrapposizione alla spalle della quale si colloca il più profondo contrasto tra le diverse anime socio-culturali del Paese. Al tempo stesso, il referendum costituirà un fondamentale banco di prova per la tenuta del governo in previsione della scadenza elettorale fissata per il 2011. Ritengo che molto delle future direzioni che il governo prenderà sul piano interno dipenderanno dall’esito referendario, che rischia tuttavia di tradursi in un elemento di ulteriore polarizzazione dello spettro politico, istituzionale e sociale interno.

  Come è mutata, negli ultimi dieci anni, l’opinione pubblica turca nei confronti degli Stati Uniti, soprattutto in seguito all’invasione anglo-americana dell’Iraq del 2003?

  Le due amministrazioni Bush hanno fatto registrare uno dei punti più bassi nella storia delle relazioni turco-statunitensi - dai quali l'Amministrazione Obama cerca oggi, non senza difficoltà, di risollevarsi. Tale dinamica non poteva non trovare rispondenza in un'opinione pubblica, quella turca, tradizionalmente molto attenta alla politica estera del Paese e che ha assistito ad un progressivo scollamento degli interessi e delle strategie regionali dei due partner. Il nodo iracheno rappresenta infatti, in questo contesto, solo il punto più alto di una crisi nelle relazioni bilaterali che si è manifestata con altrettanta chiarezza in relazione alle questioni più rilevanti questioni regionali: dal dossier iraniano alla cooperazione alla sicurezza nell'area del Mar Nero allargato, dal processo di pace in Medio oriente sino alla questione armena.

14 luglio 2010

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