La difficile identità. Intervista con Michele Tossani Stampa

La difficile identità. Intervista con Michele Tossani

a cura di Francesco Algisi

 

tossani_difficile  Michele Tossani (Firenze, 1978) si è laureato in Storia americana presso l’Università di Firenze e ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell’Europa moderna e contemporanea presso l’Università di Bari. Agli studi su Stati Uniti e fascismo affianca l’interesse per la ricerca filosofico-teologica, che lo ha portato a iscriversi alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale. È autore dei seguenti volumi: Repubblicani senza Bush. Storia e prospettive del conservatorismo americano (Aracne, 2010) e La difficile identità. L'estrema Destra italiana e l'America nella stampa neofascista tra il 1945 e il 1960 (Aracne, 2010). Sul tema sviluppato in quest’ultimo libro, gli abbiamo rivolto alcune domande.

  Dottor Tossani, perché lei non riconosce alcuna sensibilità rivoluzionaria ai neofascisti “di sinistra” della fine degli anni Quaranta (cfr. p.111)?

  Il corporativismo fascista fu concepito come un ordinamento socio-economico rivoluzionario in quanto presupponeva il rovesciamento dell’assetto capitalistico vigente in Italia. Era uno dei cardini della “rivoluzione” fascista. Tale rivoluzione era abortita già nel Ventennio; il Pellizzi chiamò l’opzione corporativa una “rivoluzione mancata”. Nel pensiero del neofascismo di sinistra, componente minoritaria di un partito minoritario e ghettizzato, l’impossibile rivoluzione sfumò in una generica propensione a provvedimenti di carattere sociale. Il corporativismo restò nell’ideologia missina come una forma di affermazione di principio e di diversità, che contribuiva, nei fatti, insieme con altre incompatibilità, all’inserimento del partito nel gioco politico nazionale. Esso fu più una memoria che una prospettiva: nessuno se la sentiva di fare la rivoluzione per instaurare il corporativismo.

  Lei scrive che, nell’area neofascista, circolava anche l’idea che “separava l'ideologia comunista, esecrabile e nefasta, dalla realtà statuale dell'Unione Sovietica, contro la quale non esistevano motivi di avversione. Ad essa si affiancava l’altra, secondo la quale il modello americano non era eticamente superiore a quello sovietico” (pag.133). Quanto erano diffuse queste posizioni tra i neofascisti? E chi in particolare, oltre a Ezio Maria Gray citato nel testo, se ne faceva latore?

  Quando, nel 1950, il Gray stabilì il paragone, negativo per entrambi i soggetti, fra il comunismo dell’Unione Sovietica e il capitalismo degli Stati Uniti, la scelta occidentale dell’Italia era stata compiuta ed era irreversibile. Ma l’anima nazionalista del neofascismo era ben viva, anche se confinata in ambiti marginali. Essere nazionalisti significava non appiattirsi sulle posizioni del principale alleato dell’Italia, ma sviluppare un’azione politica fondata sul primato dell’interesse nazionale e, come tale, libera da vincoli preordinati. Distinguere il regime politico di un Paese dall’anima del suo popolo è un luogo comune generico e insignificante; era, tuttavia, abbastanza osé negli anni Cinquanta, quando a destra (e non solo a destra) l’essere comunisti era visto come subordinazione totale agl’interessi nazionali ed imperialistici dell’URSS. Questa identità fra capitalismo e comunismo eludeva il problema politico delle scelte di campo possibili perché concrete: presupponeva una terzietà di fatto inesistente. Questo è il motivo dell’inconsistenza e, insieme, della popolarità della formula del Gray, alla quale fecero capo sia neofascisti di sinistra come il Pettinato, il Giovannini, il Tonelli e il Ruinas sia di destra (Evola, Erra, Sterpa, Papasso-Torre). La storia del neofascismo italiano è piena di esempi di acrobazie verbali che celano aporie politiche; il verbalismo che tutti accontenta spiega anche la difficoltà di inquadrare esattamente personalità complesse come il Rauti, il De Marsanich, il Michelini stesso.

  Come si concilia la citata posizione di Gray con il successivo “gradualismo” dello stesso (cfr. pag.224), che lo portò a riconoscere “nell’America una garanzia di libertà, anche se “relativa””?

  Il Gray non venne mai meno al suo anticomunismo di fondo, ma non era così estremista da non vedere che delle due opzioni, l’americana e la sovietica, la prima era, pur con le sue contraddizioni, preferibile alla seconda. America e URSS non erano né l’una né l’altra modelli ideali, ma graduando il male che era giocoforza scegliere e tenuto conto del fatto che l’Italia non poteva fare da sé, era meglio l’America.

  Quali reazioni suscitò l’invito che Concetto Pettinato, ”più antiatlantico che anticomunista”, rivolse ai missini dalle colonne del “Meridiano d’Italia” affinché si impegnassero “con i comunisti in una comune opposizione, dato che gl'interessi sovietici e quelli italiani non erano in contrapposizione" (pag.212)?

  La posizione del Pettinato, espressione dell’antiatlantismo missino di allora, fu convalidata dal voto contrario dei comunisti e dei neofascisti all’adesione italiana al Patto Atlantico. Che gl’interessi sovietici e quelli italiani non fossero in conflitto è un’affermazione che riprende l’espediente dialettico del Gray per omologare USA e URSS in una comune avversione. Vedo in tale posizione il colpo di coda di un nazionalismo nostalgico e sterile e, insieme, il tentativo di conseguire un qualche collegamento con altri partiti, anche antitetici al MSI, per rompere l’isolamento.

  A pag.220 si legge che “nella corrente di sinistra di Pini e Pettinato” era presente la convinzione “dell’ineluttabilità dell’opzione atlantica”. Che cosa significa?

  L’affermazione dev’essere intesa nel senso che opporsi al Patto Atlantico era un’operazione di retroguardia obiettivamente perdente sin da allora. I rapporti di forza in Parlamento prefiguravano l’adesione all’atlantismo. Il Pini e il Pettinato abbandonarono allora il partito per lasciare una testimonianza di principio. Essi sapevano che il MSI non avrebbe preso né la via dell’avvicinamento al comunismo (tentazione frequente, ma sempre vana) né quella di un terzaforzismo italiano autosufficiente, chiaramente impraticabile. La dirigenza del partito preferiva, ovviamente e di gran lunga, incamminarsi verso la DC.

  All’inizio degli anni Cinquanta, la base missina era ancora decisamente antiamericana, mentre la dirigenza cercava “il modo di sganciarsi da quella sterile e superata contrarietà e di andare alla ricerca di quei "fatti nuovi" che, secondo il mandato del Congresso di Roma, avrebbero giustificato un ripensamento sull'adesione al Patto Atlantico” (pag.226). Come si spiega questa differenza di posizioni tra i militanti e i dirigenti del MSI?

  Il partito missino ricordava il passato e lo attualizzava: era un partito di nostalgia e di memoria. Come risulta dall’inchiesta pubblicata dal Meridiano d’Italia il 10 e il 17 aprile 1949, la base era fortemente antiamericana, mentre la dirigenza aveva ben presente la mozione approvata dal II Congresso Nazionale di Roma, che apriva all’adesione italiana in presenza di imprecisati “fatti nuovi”. Il motivo del gap fra base e vertice è riconducibile, senza dubbio, al principio generale che, in ogni partito, vede la base come conservatrice dei valori storici e fondanti, il vertice come guida e direzione, che non immediatamente convince il corpo degli associati. Valgono anche altre considerazioni più puntuali, come, per esempio, la passione nazionalistica non ancora obsoleta, il peso degli ex-combattenti, dei reduci della RSI, con i rispettivi familiari, dei profughi dalla Venezia Giulia, dalla Dalmazia, dal Dodecaneso e dalle colonie africane. Chi ha memoria dei raduni missini fino a tutti gli anni Cinquanta ha ben presenti queste componenti, che attribuivano all’America la loro personale condizione di sconfitti e di “esuli in patria”.

  Oltre a padre Antonio Messineo, quali altri esponenti del clero cattolico ebbero a sostenere “le stesse tesi che appartenevano al patrimonio del neofascismo” (pag.242) su temi come il trattato di pace e l’adesione italiana al Patto atlantico?

  I cardinali Ottaviani e Tardini temevano che una troppo stretta dipendenza dell’Italia dagli Stati Uniti comportasse  il dilagare dell’influenza protestante e massonica, a detrimento della presenza cattolica. L’America, inoltre, esprimeva una temibile forma di materialismo allettante e invasivo. La diffidenza verso gli Stati Uniti si combinava con il timore della Chiesa che essi non fossero interessati e capaci di frenare eventuali cedimenti italiani al comunismo, in particolare da parte della DC. Non si dimentichi l’allarme prodotto in Vaticano nel 1952 dalle dichiarazioni di De Gasperi circa il “giusto equilibrio” fra la sua fede cristiana e la sua fede politica. Né va taciuto, come segno delle preoccupazioni della Curia, il tentativo di don Sturzo di apparentare, alle elezioni municipali romane dello stesso anno 1952, la DC con l’estrema destra in funzione anticomunista. Non si comprende la politica vaticana dell’anteguerra e del dopoguerra se non si tiene conto di questo ossessivo timore del comunismo.

  Perché, come si legge a pag.300, “l'idea dell'estraneità dell'Italia e dell'Europa alla contesa mondiale fra Stati Uniti e Unione Sovietica […] era più simile all'indecisione della debolezza che alla determinazione di una terza forza”? E, in tal caso, una “terza forza” quale atteggiamento avrebbe dovuto tenere nei confronti degli Usa e dell’Urss per essere “determinata”?

  Nel 1950 non erano ancora stabili, nel pensiero degl’Italiani, i concetti di interdipendenza degli Stati e di globalizzazione dei conflitti: non lo erano almeno nella misura loro conferita da fenomeni contemporanei come il terrorismo. Ma tali concetti circolavano, per esempio, negli Stati Uniti per il loro ormai indiscusso ruolo mondiale; circolavano anche nella Chiesa, a causa dell’estensione planetaria del fenomeno comunista, al quale venivano impropriamente ricondotti anche altri fenomeni, come quelli nazionalistici in Asia e in Africa. Perciò la Corea, anche se l’ONU assunse in quel conflitto un ruolo militare, non fu l’equivalente dell’odierno Afghanistan. L’Italia non intervenne militarmente. I motivi furono domestici e provinciali. Oltre alle prevedibili e difficilmente controllabili manifestazioni di piazza dei socialcomunisti (si ricordino gli scioperi poi avvenuti in occasione della visita del generale Ridgway, comandante della NATO, per il ruolo da lui svolto nel conflitto coreano, che gli fruttò l’epiteto di generale-peste), c’era anche la difficoltà di far accettare all’opinione pubblica l’idea di un costoso impegno militare in un Paese in tutti i sensi così lontano. I missini reagirono al conflitto in modo umorale e anacronistico, oscillanti fra l’antiamericanismo della base (si leggano gli articoli del Paribeni e del Gianfranceschi), malcelatamente soddisfatta delle difficoltà degli USA, e l’intenzione di mercanteggiare l’eventuale intervento italiano, come aveva fatto la Grecia per Cipro. Quest’ultima posizione era di chiara derivazione nazionalistica e ignorava il fatto che la forza dell’Italia era minima, per non dire inesistente. C’era poi chi, come il Gianfranceschi, prevedeva il collasso dell’America e allora perché correre in soccorso del probabile sconfitto? Una politica terzaforzistica avrebbe dovuto essere, innanzi tutto, risoluta e chiara nei suoi motivi e nei suoi obiettivi; ma essa richiedeva una forza dello Stato e del suo apparato militare che la facessero davvero contare nello scacchiere internazionale, dove le velleità, i rancori, le nostalgie contano meno di zero. Nel 1950 né l’Italia da sola né l’Europa come somma di Stati avrebbero potuto esprimere tale determinazione politica.

 

6 ottobre 2012

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