La vanità della cavalleria Stampa E-mail

Stefano Malatesta

La vanità della cavalleria

Neri Pozza, pagg.267, € 17,00

 

malatesta cavalleria  IL LIBRO – La vanità è sempre stata una prerogativa della cavalleria e degli uomini in divisa. Nel 1525 Francesco I di Valois, alla testa della cavalleria francese durante la battaglia di Pavia, disarcionato rischiò di vedersi tagliare le mani dai lanzichenecchi e dagli uomini dei tercios spagnoli desiderosi di arraffare i suoi anelli.
Trine, merletti e sete erano merce comune tra gli uomini della cavalerie settecentesca. Durante la guerra dei sette anni, i francesi guidati dal principe di Soubise abbandonarono in fretta la cittadina di Gotha, lasciandosi dietro i propri bagagli, prontamente sequestrati dagli ussari di Hans Joachim von Zieten. Grande fu la sorpresa quando, una volta aperti i bauli, i soldati si trovarono davanti un guardaroba di lusso portato direttamente da Versailles: biancheria intima, mutandoni di seta dall'uso, per loro, così sconosciuto che mimarono una sfilata di moda infilandoseli sopra la testa.
  Friedrich Wilhelm von Seydlitz, una delle glorie della cavalleria prussiana, amava portare sul tricorno una spilla con diamanti e smeraldi cabochon.
  Qualche tempo dopo, quando Lord Brummel impose la "squisita originalità" del suo abbigliamento, fatto di giacche scure e pantaloni chiari, all'intero consesso di civili inglesi e poi europei, i colori divennero esclusivo privilegio dei militari. Durante feste e cerimonie i membri del governo e gli ufficiali civili sembravano becchini in trasferta, mentre i militari pavoni imbellettati.
  Nei secoli successivi la vanità dilagò tra le forze armate. Gli ufficiali austriaci vestiti sempre di bianco sono una delle immagini glamour che l'Ottocento ci ha lasciato. E il secolo che ci è alle spalle non è stato certo da meno. I Savoia che abbracciavano la carriera militare, come il duca d'Aosta, erano soliti portare cappelli fuori ordinanza: il più riuscito era di certo quello che amava indossare l'erede al trono Umberto II Savoia, chiamato «il pentolino», che andava perfettamente d'accordo con le immacolate ed elegantissime mollettiere portate coi calzoni da cavallo stretti al ginocchio.
  Gregor von Rezzori confessò che da giovanotto nullafacente fu tentato di militare nelle SS per ragioni puramente estetiche. Le SS avevano una divisa elegantissima con gli stivali più belli che si potessero immaginare, morbidi, lucidi e che davano un tocco particolare a tutto l'abito. Poi, fortunatamente, ci ripensò.
  Attraverso il brillante racconto della vanità della cavalleria e delle più celebri battaglie combattute a cavallo, dalla carica demenziale di Lord Cardigan a Balaklava, dove la Light Brigade venne sbaragliata dai cannoni russi, alla strage di Caporetto, Stefano Malatesta scrive un libro sulla guerra che non ha affatto il sentore di caserma e di burocrazia, ma appassiona come e più di un romanzo d'avventura.

  DAL TESTO – "Una delle differenze più vistose tra i soldati occidentali e quelli di Gengis stava esattamente nella definizione della ragion d'essere della guerra: per i cavalieri ungheresi, come per i francesi, per i templari e per i cavalieri teutonici, ci si batteva per l'onore almeno quanto per la vittoria. Per i mongoli importava solo vincere e dunque il loro approccio era uccidere e sconfiggere il nemico in modo definitivo al minor costo. Ci sono voluti secoli, in Occidente, per ammettere che l'esercito mongolo era esattamente il contrario dell'"orda", un termine che in mongolo (ordu) voleva dire accampamento militare e che è andato a significare una massa brulicante che caricava senza ordine, in modo selvaggio e incontrollato. I soldati potevano avere un aspetto ripugnante e si dimostrarono di una ferocia senza pari, ma erano due caratteristiche funzionali al terrore che volevano incutere, usate come arma psicologica. E se all'età di tre anni il bambino era già spinto in groppa a un cavallo, come facevano le madri con i propri figli, a sedici i giovani guerrieri, messi alla prova da un clima ostile fatto di venti impetuosi, acqua scarsa e poca selvaggina, che li costringeva a un'emulazione e a competizioni continue, avevano pochi rivali quando cavalcavano nella steppa. Quella lasciata in eredità da Gengis Khan era un'armata di cavalleria composta per il sessanta per cento da cavalleria leggera e per il quaranta da cavalleria pesante, non così catafratta come quella europea e infinitamente più veloce, armata di scimitarra e di lancia con un uncino alla base della lama per agganciare e far cadere da cavallo il nemico. Tutti gli uomini, indistintamente, adoperavano l'arco con due faretre, una con le frecce per i tiri lunghi e un'altra con quelle per la distanza ravvicinata: i mongoli erano i migliori cavalieri e i migliori arcieri al mondo e avevano talmente perfezionato la loro abilità da lanciare le frecce al galoppo nel momento esatto in cui il cavallo stava con tutti e quattro gli zoccoli sollevati in aria, in modo da scoccare in una sorta di sospensione priva di vibrazioni."

  L'AUTORE – Stefano Malatesta è nato a Roma dove si è laureato in Scienze Politiche. Ha cominciato a viaggiare molto presto e da allora non ha mai smesso. È stato viceamministratore di una piantagione di tè alle Seychelles quando queste isole erano una colonia inglese, documentarista di animali, cronista di nera, inviato di guerra. Per "la Repubblica" scrive da oltre venticinque anni critiche d'arte, recensioni di libri e commenti e soprattutto racconti di viaggio sempre sulle tracce di qualcosa o di qualcuno, riprendendo una certa tradizione del recit de voyage quasi scomparsa nei giornali italiani e oggi fin troppo praticata. Oltre alle prime guide alla natura in Italia, ha scritto "L'armata Caltagirone", "Il cammello battriano", "Il cane che andava per mare e altri eccentrici siciliani", "Il grande mare di sabbia", "Il napoletano che domò gli afghani". Dirige la collana di letteratura di viaggio «Il cammello battriano» per la casa editrice Neri Pozza. Ha vinto il Premio Albatros Palestrina, L'Este-Ferrara, il Comisso, il Settembrini regione veneta, il Premio Barzini per il miglior inviato speciale dell'anno e il Chatwin.

  INDICE DELL'OPERA - Elogio del cavallo. Dove si parla non solo di cavalieri, ma anche di cavalli – L'insopprimibile vanità della cavalleria - I quattro cavalieri dell'apocalisse (Don't ask why, do and die. La demenziale carica di Lord Cardigan - Von Seydlitz: il cavaliere che dava il segnale della carica fumando la pipa - Amedeo Guillet: Communtar as Sciaitan - Von Lettow-Vorbeck: il guerrigliero che non fu mai sconfitto) - Più passa il tempo più ci rendiamo conto che la Prima guerra mondiale è all'origine di tutti i nostri mali (Le colpe della guerra - La Somme come macelleria - Rommel a Caporetto - Picnic a Caporetto - Dulce et decorum est pro patria mori è una vecchia bugia) – E intanto sul fronte orientale (Gallipoli: quando Mustafa inchiodò i neozelandesi sulla spiaggia - Il ritratto di Churchill - Lawrence d'Arabia, eroe schivo o attore vanesio? - La First Lady del deserto - La conferenza schizofrenica - Liddell Hart. Lo scopo di una nazione in guerra è quello di annullare la volontà del nemico a resistere al più basso costo possibile di vite umane - La guerriglia) - Le antiche battaglie (Il massacro che piaceva tanto a Hitler e ai romani - Spie e controspie nel foro romano - I sassanidi e il tormentone delle staffe - I mongoli: i cavalieri usciti dagli inferi - Il despota che costruiva piramidi di teschi) - I cavalieri cristiani e feroci (I cavalieri, le armi e gli orrori – We Happy Few - Pavia: il trionfo delle armi da fuoco) – L'epoca napoleonica (England expects every man will do his duty - Waterloo secondo Victor Hugo - Jena: il nuovo mestiere delle armi - La ritirata da Kabul – L'urlo di Garibaldi - Quattro piume: il pasticcio di un impero) - La Seconda guerra mondiale (Il sogno italiano finito nella sabbia - Montgomery non era un grande comandante) - La Marina senza onore (Lo sbarco del leader maximo che sembrò un naufragio - Le spie - Il giorno della vergogna) - Alla ricerca disperata di un eroe italiano