Tamerlano Stampa

Michele Bernardini

Tamerlano
Il conquistatore delle steppe che assoggettò l'Asia dando vita a una nuova civiltà


Salerno Editrice, pagg.575, € 32,00

 

bernardini tamerlano  Michele Bernardini, docente di Lingua e letteratura persiana e Storia dell'Impero ottomano e dell'Iran medievale e moderno all'Università degli Studi di Napoli «L'Orientale», ricostruisce, in questo ampio e documentato volume uscito nella prestigiosa collana "Profili" (diretta da Andrea Giardina) della Salerno Editrice, la vita di Timur-i lang (Timur 'lo zoppo'), noto in Italia con il nome di Tamerlano, condottiero turco-mongolo ("o forse mongolo turchizzato") trecentesco "che si dedicò principalmente alla guerra con alcune intuizioni politiche, ma con ridotte, se non nulle, capacità di legislatore; praticava una religiosità di comodo, quando non era incline alla superstizione e alla magia, e aveva limitati interessi culturali, fondamentalmente destinati a una ossessione autocelebrativa prossima alla megalomania".

  Secondo le fonti persiane, Timur nacque l'8 aprile 1336. Era alto circa un metro e 70 cm., "di tipo "Mongolico" si disse, con diverse patologie: nel braccio destro fu riscontrata un'affezione cronica al gomito che ne impediva il movimento, forse si trattava di una forma tubercolare che gli aveva infine paralizzato il braccio, o forse, suggeriva [Mikhail M.] Gerasimov [antropologo che ebbe modo di studiarne i resti mortali], la spalla destra era stata trafitta da una freccia, come dimostravano delle tacche sull'osso".

  Ebbe probabilmente "una gioventù travagliata e persino un'infanzia difficile, segnata probabilmente dall'indigenza e da diversi incidenti. Fu un uomo che trascorse gran parte della sua vita a cavallo, come è ovvio per le numerose campagne militari che realizzò, ma anche forse un tipico esempio di sovrano nomade, sul modello turco-mongolo di vari autorevoli predecessori, primo tra tutti Chinggis Khān".

  Sul piano caratteriale, Timur è "impulsivo, non sa contenere l'ira, neanche con i suoi, e anzi sguaina una spada per minacciare un vecchio sceicco che lo implora di non andare a esporsi inutilmente. È, nel contempo, pronto al buon umore".

  La storiografia in lingua persiana presenta Timur come "un condottiero ossessionato dalla volontà di unificare un regno frammentato in piccoli domini, tutti esposti a un potere straniero, quello dei discendenti di Chagatai".

  "I successi militari – spiega l'Autore – avevano finito col conferire a Timur un tratto titanico che indubbiamente incuteva terrore in chiunque intendesse attaccarlo. Restava però un limite nelle sue conquiste, quello di non essere capace di mantenere un presidio durevole dei territori. Il fatto di lasciare ai regnanti locali il dominio delle provincie rivelava in maniera vistosa quanto a un successo militare indiscutibile si accompagnasse un'incapacità politica vistosa che costrinse di fatto, in questa fase, Timur a compiere dei veloci quanto repentini ritorni nelle regioni già sottomesse. Non ultima pesava l'incapacità dei membri della sua famiglia a contenere le spinte numerose che nei territori conquistati riemergevano a ogni ripartenza del sovrano transoxiano. Se per compiere le campagne centroasiatiche Timur aveva dovuto contare sugli eserciti dei suoi figli, di fatto la Persia era stata abbandonata a sé stessa e non mancò il ricomporsi di scontri tra fazioni e gruppi in contesa tra loro".

  L'esercito di Timur superava spesso le duecentomila unità e "permetteva di essere scomposto in varie formazioni", di cui la principale era rappresentata dalla miriarchia, "un'armata che sottostava a un unico comandante, il più delle volte un emiro di rango, il quale gestiva autonomamente le sue unità, pur seguendo le linee strategiche indicate da Timur".

  Ferrea era la disciplina all'interno dell'esercito. "Esso – aggiunge Bernardini – era diviso in forma gerarchica: Timur premiava gli emiri e i principi più valorosi disponendoli in posizioni di rilievo, c'erano poi gli elementi acquisiti che potevano essere capi militari che si erano sottomessi volontariamente o prigionieri che svolgevano funzioni spesso non di primaria importanza ed erano soggetti a un certo controllo, onde evitare che tradissero o si allontanassero dal campo di battaglia, un aspetto che Timur sapeva ben sfruttare nei suoi avversari e che dunque temeva nei propri ranghi".

  Fin dall'antichità il cavallo era stato "il protagonista principale di un'infinità di azioni militari culminate nell'evento più eclatante della storia dell'Asia, l'espansione che aveva portato i Mongoli a consolidare un impero di dimensioni mai viste, che dall'Oceano pacifico arrivava ai Balcani, includendo tra le sue terre la Cina, la Persia, le steppe dei Qipchaq, dei Bulgari del Volga e l'Europa orientale, l'Anatolia e parte del Medio Oriente. Depositario tra i Mongoli di un carattere mitico, se non magico, il cavallo occupava uno spazio di primaria importanza in tutte le civiltà di quel vasto continente nomade".

  Il 18 febbraio 1405, Timur, dopo aver fatto giurare solennemente agli emiri fedelissimi "di rispettare la sua ultima volontà", "morì nel cuore della notte".