Marco Giunio Bruto Stampa E-mail

Roberto Cristofoli

Marco Giunio Bruto
Il cesaricida che diede la vita in nome degli ideali della Repubblica


Salerno Editrice, pagg.305, € 23,00

 

cristofoli bruto  Roberto Cristofoli (docente di Storia romana presso l'Università di Perugia) ricostruisce in questo approfondito saggio la vita di Marco Giunio Bruto, l'uomo "indissolubilmente connesso alla congiura del 15 marzo del 44, in cui venne ucciso Giulio Cesare".

  Bruto nacque nell'Urbe in un anno "variamente collocato dalle fonti tra l'85 e il 78", "come unico figlio del matrimonio tra il tribuno della plebe dell'83 e Servilia", legata sentimentalmente a Cesare.

  La gens Iunia era "di nobiltà plebea" – spiega l'Autore – e "si vantava di discendere dal console del 509 Lucio Giunio Bruto, anche se questi era di nobiltà patrizia, e per giunta aveva ucciso i suoi due figli Tito e Tiberio – che avrebbero voluto far tornare i Tarquini – condannando la sua famiglia all'estinzione: ma sarebbe stato lo storico e filosofo Posidonio, nel II sec. a.C., ad introdurre nella tradizione l'esistenza di un terzo figlio, a salvare la sopravvivenza della stirpe".

  Il futuro cesaricida "ricevette i primi rudimenti della sua formazione – come Cassio Longino, al quale avrebbe legato l'azione più importante e l'ultima parte della sua vita – dal liberto dal Staberio Erote", un grammatico che "offriva le sue lezioni agli orfani delle proscrizioni e alle vittime della dominazione sillana in generale".

  Fin dalla giovane età, Bruto cominciò "quelle attività finanziarie che costituirono per lui una fonte importante di guadagno ma altresì un elemento di discredito sollevato da vari antichi e moderni nei suoi confronti".

  Nel 51, Bruto "venne eletto tra i quindici pontefici che facevano capo al pontifex maximus Giulio Cesare: quest'ultimo può aver favorito la sua elezione, anche su pressione di Servilia, così da confermare gli effetti positivi in costanza di tempo di questa relazione sul percorso di ascesa di Bruto, nonostante le sue scelte andassero spesso in senso contrario rispetto a quello auspicato da Cesare".

  La decade dei Cinquanta – osserva Cristofoli – si chiudeva per il trentacinquenne Bruto con "una serie di affermazioni e di legami che gli valsero un prestigio certamente ancora da consolidare, ma ormai affiorato e tangibile; nato e formatosi in una famiglia che aveva nei suoi lontani antenati, ai quali si richiamava con finalità autopromozionale, le basi di ogni prestigio e ambizione, e che trovò nel legame di Servilia con Cesare e nell'ascesa di Catone nuovi elementi di notorietà e di centralità sulla scena, Bruto guardava agli incipienti anni Quaranta come un uomo che aveva individuato bene e coltivato appieno i suoi interessi culturali, la strada professionale e le attività parallele, e che a livello politico faceva capo ad un gruppo influente, non seguendone però pedissequamente le direttive, ma valutando di volta in volta la compatibilità tra queste e i propri ideali o le proprie convenienze".

  Degli anni Quaranta, invece, "Bruto non avrebbe visto la conclusione, ma si sarebbe comunque configurato come uno dei protagonisti, attuando scelte di campo mai scontate, ed elaborando trame non ascrivibili solo alla categoria di quelle che avrebbero potuto cambiare la storia, ma di quelle che innegabilmente ed effettivamente la cambiarono, anche se non nella maniera ultima in cui il loro autore si sarebbe augurato".

  Dal testo emerge il "duplice errore di prospettiva" commesso dai congiurati: essi "non compresero che l'accezione da loro attribuita al termine «libertà» evocava una sfera di significato preclusa al popolo, per il quale il trapasso dall'oligarchia di poche famiglie repubblicane al dominio dei «signori della guerra» non aveva comportato alcuna radicale limitazione dell'orizzonte esistenziale, né tantomeno un tangibile peggioramento delle condizioni di vita; non compresero, inoltre, che il corso storico degli ultimi decenni portava verso un ineluttabile accentramento del potere, che l'eliminazione di un sinolo uomo poteva momentaneamente differire, ma che alla lunga non avrebbe potuto evitare".

  La libertà propugnata da Bruto e dai suoi compagni "era una tipologia che solo l'aristocrazia aveva sperimentato e cui ambiva, ossia quella di poter competere per posizioni di potere e prestigio anche al prezzo di nuovi conflitti civili, mentre le aspettative del popolo erano piuttosto per un miglioramento della propria situazione materiale, in una repubblica che usciva da una lunga guerra, la quale aveva infuso un desiderio di pace almeno sul fronte interno".
Le Idi di marzo del 44 a.C., comunque, "segnarono uno spartiacque per la storia di Roma: nulla sarebbe stato più come prima".