Roma 1922 Stampa E-mail

Marco Mondini

Roma 1922
Il fascismo e la guerra mai finita


il Mulino, pagg.288, € 22,00

 

mondini roma1922  In questo saggio, Marco Mondini (docente di Storia contemporanea presso l'Università di Padova) ripercorre l'itinerario che, culminato nella marcia su Roma, condusse il Fascismo alla conquista del potere nell'autunno del 1922.

  Secondo l'Autore, quell'evento deve essere visto come la "variante italiana di un problema comune nel continente: la mancata uscita dalla logica dell'odio e della crociata tipica della mobilitazione culturale tra 1914 e 1918, che travolse molti paesi e segnò molti destini". Molti veterani tornati a casa dalle trincee della Grande Guerra "erano convinti di avere il diritto, anzi il dovere, di assumere la guida del paese, scacciando (o annientando) tutti coloro che non ne erano più degni: la guerra sarebbe terminata veramente solo allora".

  I "fascisti erano ossessionati dal potere e dalla possibilità di redimere la nazione e di trasformare gli italiani, anche a costo di sterminare tutti coloro che non erano d'accordo con loro. Come molti altri movimenti e partiti radicali saliti alla ribalta nella turbolenta scena europea dopo il 1918, erano convinti che le vecchie élite andassero soppiantate e possibilmente eliminate: lo proclamavano in nome di un nazionalismo esasperato e non del sol dell'avvenire e della rivoluzione bolscevica, ma la sostanza violenta del loro programma era la medesima. Era una richiesta di potere, ma anche la pretesa di un nuovo ordine. Le armi non sarebbero state deposte, fino al compimento di questa missione".

  "Il punto – sottolinea Mondini – era che il fascismo non era stato l'unico movimento politico a dotarsi di una milizia, e non aveva nemmeno giocato un ruolo da protagonista nella prima stagione della mobilitazione armata postbellica. Nella corsa illegale agli armamenti delle fazioni, era stato uno tra tanti soggetti, inizialmente con numeri e capacità limitate. Solo dalla metà del 1920 aveva cominciato a distinguersi all'interno di una costellazione di associazioni di più o meno chiara ispirazione nazionalista, inquadrate con la benedizione e il sostegno di larghi segmenti degli apparati statali, in un contesto in cui l'uso della forza era diventato ormai una regola dello scontro politico".

  Nel 1922, il Partito fascista era attraversato dal "dilemma tra linea «legale» (arrivare al potere per via di alleanze e confidando nelle elezioni) e «insurrezionale» (ottenerlo con la forza)". Le due linee erano rispettivamente incarnate dai "«politici», come Dino Grandi, che reputavano il progetto insurrezionale un vero e proprio suicidio" e dai "fautori del colpo di mano come Bianchi (o Balbo)", "mentre Mussolini si ritrovava a giocare un ruolo mediano, perennemente in equilibrio tra una posizione: «siamo tutti convinti che il fascismo deve divenire Stato [...] che per divenire Stato abbiamo il mezzo legale dell'elezione e il mezzo extralegale dell'insurrezione. Bisogna ponderare prima di prendere una decisione»".

  L'opzione insurrezionale era inficiata dalla "qualità non esattamente eccezionale dell'ala militare del fascismo. Il regolamento e la riorganizzazione delle squadre di combattimento non avevano dato risultati soddisfacenti: gli squadristi continuavano a essere un coacervo di bande mal assortite e persino Balbo avrebbe riconosciuto che la disciplina era ancora una chimera per molte camicie nere («ogni rivoluzione ha la sua feccia»), troppo impegnate a perseguire «interessi privati e losche vendette» e praticamente impossibili da tenere sotto controllo".