Settembre 1943. I giorni della vergogna Stampa E-mail

Marco Patricelli

Settembre 1943. I giorni della vergogna

Laterza, pagg.352, Euro 20,00

 

patricelli_settembre.jpg  IL LIBRO - Il piccolo re, il grande dittatore, novanta ore di cinismo e di incapacità sufficienti per azzerare uno Stato. Marco Patricelli racconta l’incredibile e grottesca sequenza di eventi che dal 9 al 12 settembre 1943 sconvolse l’Italia e la consegnò a un destino di macerie.

  «La colonna di sette automobili aveva già lasciato Roma illuminando le strade ancora buie e deserte con la luce azzurrognola dei fari schermati. Vittorio Emanuele, la regina Elena, il generale aiutante di campo del re e il tenente colonnello Buzzaccarini erano a bordo di una Fiat 2800 nera, guidata dall’autista che faceva incredibilmente sfoggio del guidone reale: noblesse oblige, ma a nessuno viene in mente che la nobiltà vorrebbe ben altro contegno che una fuga nell’oscurità.»

  È così, alle prime luci del 9 settembre 1943, ad armistizio appena proclamato, che il re abbandona la Capitale per fuggire al sud, lontano dalla vendetta tedesca. In Italia intanto si spara e si muore. Tra quell’alba e il pomeriggio del 12 settembre il Paese si disgrega e precipita nel caos di un vuoto istituzionale senza precedenti. In meno di quattro giorni, e nel raggio di pochissimi chilometri, si compiono due fughe eccellenti: quella tragicomica del re dal porto di Ortona, in Abruzzo, e quella rocambolesco-spionistica di Benito Mussolini dalla prigione dove è stato rinchiuso, sul Gran Sasso. Questa è la storia di quelle fughe, delle loro conseguenze e della vigliaccheria di chi poteva e doveva agire diversamente.

 

  DAL TESTO - "Lungo la strada statale 16, per tutto il giorno, erano invece transitate alla spicciolata autocolonne di camion piene di soldati, autoblindo, carri con la croce nera che venivano da sud, e qualcuno aveva interpretato tali movimenti come la riprova che la guerra era veramente finita e i tedeschi si ritiravano. Troppo bello per essere vero. E infatti non era vero. Agli sgoccioli di quel giovedì 9 settembre il maresciallo Agostinone è agitato ma non si preoccupa della possibile minaccia dei tedeschi. È alle prese con un compito che mai avrebbe potuto immaginare. Poco prima è stato lui a fermare il giovanissimo pescatore Tommaso D’Antuono chiedendogli di seguirlo perché doveva imbarcarsi. Il ragazzo ortonese aveva nicchiato, dicendo che non poteva muoversi perché era solo a casa e che non sarebbe andato da nessuna parte. Il comandante della stazione gli aveva prima biascicato che doveva fare qualcosa, poi, di fronte alle rimostranze: «C’è da fare una missione segreta». «Missione segreta? Io? Marescià’, non scherziamo. Io ho diciassette anni, che c’entro io con la missione segreta?», gli aveva risposto D’Antuono con sufficienza. Agostinone, con i nervi a fior di pelle per la fortissima tensione, aveva persino estratto dalla fondina la Beretta d’ordinanza sbottando in una frase che aveva fatto capire eloquentemente che non c’era nulla di cui discutere e non c’era tempo da perdere. Al che il giovane era sceso nel ventre del peschereccio per provare l’efficienza del motore: contatto, un colpo avanti, un colpo indietro, fine contatto, attesa. L’attesa che arrivasse qualcuno, che adesso stava realmente arrivando. «Sarà passata un’ora, un’ora e mezza, difficile dirlo. Noi pescatori – così D’Antuono – non avevamo l’orologio». Dieci, undici, dodici automobili: sottocoperta, l’aiuto motorista conta finché può dalla sua scomoda posizione e non osa uscire allo scoperto. Sulla Fiat 2800 nera è impossibile non notare le insegne reali. L’improvvisato picchetto di marinai scatta sull’attenti di fronte a Vittorio Emanuele III che sembra più piccolo di quanto la natura e la consanguineità dei genitori gli abbiano concesso. Per non far pesare il complesso di inferiorità al monarca, era stata persino abbassata a 154 centimetri l’altezza minima per essere fatti abili al servizio militare, rendendo così idoneo de jure il comandante supremo che si era sentito appiccicare anche l’etichetta di «Sciaboletta» per deridere la sproporzione tra le gambette rachitiche e l’arma bianca che simboleggiava le cariche di cavalleria. Odiava i cavalli, il piccolo Savoia, perché per lui salirci in groppa era una squalificante tortura, e odiava anche il passo dell’oca introdotto da Mussolini, che si era ben guardato persino dal provare, per non aggiungere il ridicolo al ridicolo. A Ortona non aveva nessuna sciabola al fianco e c’era poco da ridere su quella «carica» verso est, che sembrava tanto una ritirata pronta a trasformarsi in rotta morale incontenibile. Il colore più idoneo a quella notte ce l’aveva sul braccio: il nero del lutto. Lo portava per rispetto della memoria di Boris di Bulgaria, marito della figlia Giovanna. L’altra figlia Mafalda, chissà dov’è adesso. Nessuno l’ha avvisata dell’armistizio e di ciò che sta accadendo. Sarebbe bastato dirle di non tornare a Roma, e invece con quel silenzio avevano condannato la principessa a un destino miserando."

 

  L'AUTORE - Marco Patricelli insegna Storia dell’Europa contemporanea all’Università G. d’Annunzio di Chieti ed è consulente del TG1 Storia della Rai. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Liberate il duce. Gran Sasso 1943: la vera storia dell’Operazione Quercia (Milano 2001, Premio Polidoro); La Stalingrado d’Italia. Ortona 1943: una battaglia dimenticata (Torino 2002); Le lance di cartone. Come la Polonia portò l’Europa alla guerra (Torino 2004); I banditi della libertà. La straordinaria storia della Brigata Maiella, partigiani senza partito e soldati senza stellette (Torino 2005).

 

  INDICE DELL'OPERA - Introduzione - Prologo. Azione e reazione - I. Il re in fuga da Roma - II. Mussolini in fuga da Campo Imperatore - Epilogo. Memoria condivisa e memoria manipolata - Bibliografia - Indice dei nomi