Il rifiuto della modernità Stampa E-mail

Giuseppe Bedeschi

Il rifiuto della modernità
Saggio su Jean-Jaques Rousseau

Le Lettere, pagg.204, Euro 18,50

 

bedeschi_rousseau  Questo saggio di Giuseppe Bedeschi (professore ordinario di Storia della filosofia nell’Università La Sapienza di Roma) cerca di offrire “una lettura unitaria degli scritti filosofico-politici di Rousseau”.
  L’Autore ravvisa “il motivo di fondo della meditazione roussoiana (vista non come qualcosa di immobile, ma nel suo divenire) nel rapporto critico e negativo che essa ebbe con la modernità, cioè col sorgere, rafforzarsi ed estendersi dello spirito borghese, ovvero dell'economia mercantile moderna e dello sviluppo scientifico, tecnologico, culturale che a essa si è accompagnato, e che ne ha costituito tanto il presupposto quanto il risultato. La critica delle scienze, delle arti, delle lettere; la critica della società civile moderna perché basata sull'egoismo e sulla disuguaglianza; la teoria dello Stato nuovo, che deve istituire una superiore coesione sociale, basata sulla compenetrazione di tutti (o della grande maggioranza) con lo spirito vivente della «volontà generale»; l'esaltazione della patria-nazione come identità suprema e unità di aspirazioni e di destino a cui la vera vita individuale deve essere subordinata: tutti questi sono altrettanti tasselli di un mosaico che ha come motivo centrale la restaurazione della virtù etico-politica della città antica, virtù che è stata dissolta dallo spirito mercantile della modernità. La modernità è tutta commerci, traffici, brama di arricchimento e di lusso. Perciò lo spirito dei cittadini deve essere, secondo Rousseau, completamente rinnovato nella direzione dei supremi valori etico-politici, nell'ambito di una società "chiusa", nonostante la modernità e contro di essa. Intorno a questi concetti si organizza e si sviluppa […] tutta la meditazione filosofico-politica del grande Ginevrino” (pag.25).
  Rousseau intende la virtù essenzialmente in senso etico-politico come “la dedizione del cittadino alla comunità di cui fa parte, la sua capacità di posporre i propri interessi privati ed egoistici al bene della patria” (pag.34). Gli uomini devono indirizzare le proprie energie morali e intellettuali alla “patria, al governo della cosa pubblica, al bene comune. Perseguire questo compito richiede una intransigente repressione degli egoismi personali, degli interessi privati, della ricerca del benessere e dei comodi” (pag.36).
  Nell’opera del Ginevrino si evince una ispirazione “cristiano-pauperistica” testimoniata dall’”elogio commosso che egli tesse del cristianesimo delle origini, di Gesù e dei suoi apostoli, uomini poveri e indotti che si rivolgevano ai poveri e agli indotti” (pag.47).
  Rousseau è altresì animato da una “visione radicalmente pessimistica di tutta la storia occidentale, considerata come una storia di decadenza e di degrado morale, a partire dalla caduta dell'impero romano. Le invasioni barbariche hanno determinato una mescolanza di tutti i popoli, che ha finito col distruggere i costumi e le usanze di ciascuno di essi; le crociate, il commercio, la scoperta delle Indie, la navigazione, i lunghi viaggi, hanno mantenuto e accresciuto il disordine; tutto ciò che ha facilitato le comunicazioni tra le diverse nazioni ha portato alle une non già le virtù delle altre bensì i loro crimini, e in tutte ha alterato quei costumi che erano pertinenti al loro clima e alla costituzione del loro governo" (pagg.54-55).
  Bedeschi sottolinea anche “la profonda diffidenza di Rousseau per l'emergere dell'individuo in quanto tale, per il suo processo di differenziazione dalla specie; colpisce la sua profonda ripulsa per la personalità individuale in quanto questa pretenda di imporsi con le sue qualità, la sua originalità, i suoi caratteri. Il male, insomma, consiste per Rousseau (conformemente alla sua ispirazione profondamente anti-individualistica), nel voler essere notati e stimati, nel voler essere positivamente valutati e apprezzati: questo, per lui, non è più «amore di sé» (o istinto di conservazione), bensì è «amor proprio», al quale sono inevitabilmente connessi «la vanità e il disprezzo», «la vergogna e l'invidia»” (pag.74).
  La «volontà generale» roussoiana è vista dall’Autore come “un'entità alquanto astratta e mistica, che si forma per una sorta di misteriosa ispirazione nell'animo di ognuno. Questa astrattezza è confermata da un'ulteriore caratteristica fondamentale della «volontà generale» […]: essa è indistruttibile” (pag.119). Secondo tale visione, “il corpo sovrano non deve fare alcuna concessione all'individuo: i sudditi devono impegnarsi a ubbidire sempre e comunque alla «volontà generale», e se non lo faranno dovranno esservi costretti” (pag.103).
  Compito del legislatore roussoiano – spiega ancora Bedeschi – è “quello di far sì che gli uomini trascendano la loro natura sensibile e terrena (con tutte le sue passioni, con tutti i suoi egoismi), e acquistino una natura tutta spirituale, tutta razionale e morale, nel senso più alto e sublime della parola. Ecco perché, secondo Rousseau, all'origine delle nazioni la, religione ha sempre avuto un ruolo decisivo: infatti solo grazie alla religione potevano sorgere istituzioni durevoli: le quali durano, appunto, per il soffio divino che le feconda e le nutre” (pag.129).
  Il Ginevrino conduce la propria battaglia su due fronti: “da un lato contro la decadenza e la corruzione del mondo moderno, tutto industrie e commerci, tutto finanza e brama di arricchimento e di lusso; dall'altro lato contro la cultura cosmopolita degli Illuministi, con il suo ideale di sapienza fine a se stessa in quanto produttrice di «lumi», del tutto dimentica di quei valori civili che soli possono dar vita alla repubblica e conservarla” (pag.147).
  L’opera di Rousseau è caratterizzata, poi, da una profonda ammirazione per il mondo rurale: “l'agricoltura plasma dei buoni patrioti e conserva l'indipendenza della nazione. In ogni paese gli abitanti della campagna generano più figli di quelli delle città; inoltre la semplicità della vita agreste e l'assiduità al lavoro prevengono il disordine e i vizi. I contadini sono molto più attaccati alla terra di quanto lo siano i cittadini alle loro città; l'eguaglianza e la semplicità della vita agreste li spingono a desiderare di non mutarla: di qui una soddisfazione per il proprio stato che rende l'uomo tranquillo. La coltivazione della terra forma uomini pazienti e robusti, quali sono necessari per formare dei buoni soldati, mentre gli abitanti delle città sono molli, non sopportano le fatiche, fuggono davanti al nemico. «La vera educazione del soldato consiste nell'essere contadino»” (pag.161).