Ray Banhoff
Vita da autodidatta Una palla in fronte
NFC Edizioni, pagg.128, € 19,00
Con "Vita da autodidatta", Ray Banhoff consegna ai lettori un'opera che sfida i confini convenzionali tra narrativa e teoria, tra romanzo e saggio, tra esperienza vissuta e riflessione meta-esistenziale. Il libro si presenta formalmente come un monologo ininterrotto, in cui la voce narrante — un protagonista senza nome — attraversa il deserto delle proprie disillusioni con un misto di sarcasmo, frustrazione e una disperata lucidità.
Banhoff, già noto per il suo lavoro fotografico e per l'impegno editoriale su testate come "L'Espresso", non si limita a raccontare una storia, ma costruisce una forma ibrida che si avvicina al genere della theory fiction. In questa modalità narrativa, teorizzare e vivere si fondono, dando origine a un testo che è tanto confessione quanto speculazione. Il riferimento alla theory fiction non è gratuito né ornamentale: l'autore sfrutta il romanzo per articolare riflessioni sulla condizione dell'autodidatta come emblema di un'epoca in crisi epistemica e affettiva, in cui l'apprendimento è autoinflitto e il fallimento diventa struttura, non deviazione.
Il protagonista senza nome è l'archetipo del perdente contemporaneo. Non tanto perché soccombe agli ostacoli del mondo esterno, quanto perché si autodistrugge con una coerenza quasi filosofica. Rifiuta il compromesso, rifugge la gratificazione facile, disinnesca ogni possibile slancio verso la redenzione. È un autodidatta non solo perché impara da solo, ma perché si auto-sottrae sistematicamente a ogni sistema: scolastico, lavorativo, affettivo. Egli si colloca in un'interzona esistenziale, uno spazio marginale dove non si ambisce al successo né si rivendica un fallimento nobile. Si rimane, semplicemente, in piedi — a fatica.
Il suo interlocutore occasionale, l'amico Oscar, funge da contraltare morale e razionale: rappresenta la voce della "normalità", quella che invita alla resilienza, all'amor proprio, a un'etica della ricostruzione personale. Ma Oscar è, agli occhi del narratore, una caricatura ottimista, una figura grottesca nella sua buona volontà. Ne scaturisce un dialogo muto e frustrato, un continuo respingimento, quasi beckettiano, dell'azione come soluzione.
L'intreccio, ridotto all'osso, cede il passo a una densa tessitura concettuale. Banhoff usa la narrativa come laboratorio filosofico, in cui si mette alla prova una fenomenologia del fallimento e una genealogia della frustrazione. I riferimenti non sono esplicitati, ma riecheggiano — in filigrana — suggestioni da Mark Fisher, David Foster Wallace, Franco "Bifo" Berardi e persino Emil Cioran. La disillusione è trattata non come un punto terminale, ma come metodo conoscitivo: la rinuncia, il fallimento reiterato, diventano forme di resistenza a un mondo che richiede costantemente performance, adattamento, ottimismo.
In questo senso, l'autodidatta non è solo chi apprende da sé, ma chi si sottrae all'istruzione istituzionalizzata della vita, chi rifiuta la pedagogia implicita delle relazioni, del mercato, dei codici affettivi. La "palla in fronte" evocata nel titolo è al contempo emblema della brutalità del reale e simbolo di una consapevolezza che arriva sempre troppo tardi — quando ormai è impossibile agire, ma inevitabile comprendere.
La prosa di Banhoff è tesa, sincopata, spesso prossima all'oralità. Il ritmo è costellato da periodi brevi, interiezioni, oscillazioni tra lirismo e turpiloquio. Il lessico alterna registri bassi e riflessioni teoriche, mescolando slang urbano a considerazioni quasi aforistiche. Questa instabilità stilistica è una scelta coerente con l'orizzonte tematico del libro: la disintegrazione di una coerenza narrativa riflette la crisi dell'identità del soggetto moderno.
Il romanzo si apre con un'affermazione tanto semplice quanto devastante: "Non conosco nessuno che sia stato onesto e ricco. Almeno non allo stesso tempo." Da qui si sviluppa un assioma morale che guida tutto il testo: la virtù è incompatibile con il successo, l'etica è un lusso da poveri. Banhoff non predica, ma descrive con amarezza la realtà di chi ha rinunciato non per scelta, ma per esaurimento delle alternative.
"Vita da autodidatta" è un'opera che merita attenzione non tanto per la sua trama — volutamente evanescente — quanto per la sua capacità di incanalare un disagio generazionale in una forma narrativa radicale. Banhoff non offre soluzioni né consolazioni: il suo romanzo è un atto di testimonianza, un grido soffocato che rifiuta sia il vittimismo sia la retorica della rinascita.
È un libro scomodo, ma necessario. In un'epoca in cui tutto è storytelling motivazionale, Banhoff ci restituisce il valore dell'inciampo, la nobiltà dell'inadeguatezza, la bellezza ruvida della disperazione consapevole. In ultima analisi, Vita da autodidatta non è un romanzo su chi ha perso, ma su chi si è rifiutato di vincere a regole non proprie.
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