Scontenti. Perché non ci piace il mondo in cui viviamo Stampa E-mail

Marcello Veneziani

Scontenti
Perché non ci piace il mondo in cui viviamo


Marsilio Editori, pagg.176, € 18,00

 

veneziani scontenti  Dopo aver affrontato nella "Cappa" l'opprimente emisfero che grava sulle nostre teste, in questo nuovo saggio Marcello Veneziani racconta "l'altra metà, l'emisfero in basso, nel quale viviamo noi, gli scontenti. Per capire di chi è figlia, di chi è madre la scontentezza, come coltivarla e mettere a frutto le sue energie. Lo scontento è una fiamma che ci arde dentro, brucia e illumina, ci divora e ci fa vivi. Il mondo si regge su chi accetta la sorte ma cammina sulle gambe degli scontenti".

  Secondo l'Autore, la vita è un'opposizione "alla morte, alla malattia, alla fame, al dolore. Prima di dire sì alla vita c'è da dire no alla morte e alla non-vita. Non basta aprirsi alla vita, bisogna opporsi a ciò che la nega e la insidia. L'origine inestirpabile della scontentezza è nella condizione umana. Sappiamo di essere destinati alla vecchiaia e alla morte, sappiamo che perderemo i nostri cari, sappiamo di non sapere nulla della nostra vita e dei misteri che la circondano e che anzi la costituiscono; restiamo sgomenti davanti all'infinito e all'eterno, alla storia dell'Universo che si conta in miliardi d'anni, sbigottiti davanti a miliardi di stelle, buchi neri e universi che ci fanno sentire granelli di polvere dispersi nell'atmosfera. Il nostro essere nulla rispetto a tutto, l'insensatezza radicale del nostro essere al mondo e poi del nostro sparire, il buio che ci precede e quello che ci seguirà, il timor di Dio e del Diavolo, la nostra esposizione a ogni male. Potremmo a lungo seguitare, ma bastano questi squarci per renderci conto della nostra condizione inerme, in balia del destino. E per ritenere che la chiave della nostra scontentezza congenita sia ontologica, riposta nella condizione umana, imperfetta, carente, impotente, esposta alle intemperie".

  Sussiste "un nesso causale e necessario fra ateismo e scontentezza. L'espansione dell'uno è crescita dell'altra, sia sul piano storico sia del pensiero. L'ateo cova un sordo rancore verso l'inesistenza divina e l'insensatezza del mondo. Senza Dio la scontentezza non ha finale rimedio né redenzione. Senza Dio non c'è avvenire alla contentezza, né compimento. Sul piano metafisico, lo scontento sorge con la perdita di Dio e finisce con la fine dell'io, non solo per morte naturale; anche chi si libera in vita dell'io, chi si vuota con l'ascesi, estingue ogni scontento".

  Una pratica diffusa consiste nel fingere di essere contenti. "C'è – aggiunge Veneziani - una falsa contentezza che commuta lo sguardo catastrofico sul presente e sul futuro in un messaggio di sollievo. È la finta contentezza degli anziani di non essere giovani in questa epoca e di scampare a quella che verrà. Pur continuando a vestire, vivere, truccarsi da eterni ragazzi, gli anziani hanno attivato una specie di esorcismo dell'invidia, commiserando i giovani dopo averli imitati. Il pretesto è fondato, perché mostra alcune vistose incongruenze nelle condizioni di vita dei giovani e nel futuro «mostruoso» a cui vanno incontro".

  Il "patrono" dell'Occidente, secondo Veneziani, è rappresentato da Faust, nel cui nome "è animato da quella spinta inarrestabile che è l'insoddisfazione, il desiderio di costruire e salire la torre di Babele, la voglia incessante di superarsi e di superare, di conquistare il mondo e di abitare altri mondi. Lo colse Goethe, che scrisse di Faust e del suo patto col diavolo; Spengler ne fece la molla profonda che anima l'Occidente. «L'infinita scontentezza» per Thomas Mann è il motivo dominante del Faust. Eppure le matrici della civiltà occidentale sono di segno diverso, se non opposto, rispetto a questa pulsione febbrile e fabbrile, anche satanica: la matrice greca, la matrice romana e la matrice cristiana non coltivavano quest'ansia faustiana all'ombra di Mefistofele. Il pensiero greco segna in primo luogo il primato della contemplazione sull'azione, e reputa le attività frenetiche come un segno di imperfezione e di tracotanza, hybris, elogiando il senso del limite. L'impero romano amava tracciare confini, stabilire leggi e regole, cioè limiti, amava edificare monumenti perenni e opere destinate a restare. E la civiltà cristiana, soprattutto nella sua tradizione cattolica e in quella ortodossa, esorta alla preghiera, all'umiltà e alla pazienza e al ripudio della volontà di potenza, che è poi il sostrato dell'Occidente faustiano".