1928: attentato alla Fiera di Milano. Intervista con Carlo Giacchin Stampa E-mail

1928: attentato alla Fiera di Milano. Intervista con Carlo Giacchin

a cura di Francesco Algisi

 

giacchin.jpg  Carlo Giacchin, nato nel 1964 a Cittadella, vive e lavora a Padova. Laureato in Scienze Politiche, è stato allievo di Giampietro Berti. Da anni si occupa di storia contemporanea, in particolare del primo Novecento italiano. È autore del volume Attentato alla Fiera. Milano 1928 (Mursia, 2009), in cui ha raccolto i risultati di un lungo lavoro di ricerca d’archivio sulla strage alla Fiera di Milano del 12 aprile 1928, che provocò la morte di venti persone. Curatore del blog http://storiadelnovecento.blogspot.com, attualmente sta scrivendo un’opera in tre volumi sulla storia del Fascismo milanese.

 

  Perché ha dedicato un libro all’attentato del 1928?

  Durante le ricerche sul fascismo milanese, al cui studio ho dedicato gli ultimi anni, mi sono imbatutto in molti riferimenti ad una strage avvenuta in piena era fascista e in un’Italia ormai apparantemente pacificata. In occasione dell’inaugurazione della IX Fiera internazionale, un ordigno di grande potenza esplodeva in mezzo alla folla assiepata in attesa dell’arrivo di Vittorio Emanuele III. L’ordigno, nascosto all’interno del basamento di ghisa di un lampione di Piazza Giulio Cesare, causò la morte e il ferimento di numerose persone.

  Due fatti mi hanno colpito immediatamente: il primo, per me ancora  giacchin_attentatoallafiera.jpgincomprensibile, è che su un episodio così grave non esiste alcuna ricerca storica approfondita (con l’eccezione di Mimmo Franzinelli). Il secondo aspetto è relativo al fatto che ancora una volta ad essere colpita è stata Milano che nel corso del Novecento ha subito periodicamente un episodio sanguinoso. Nel 1921 una bomba scoppiò al Teatro Diana, ad opera di alcuni anarchici; nel 1928 una bomba scoppiò alla Fiera; nel 1969 avvenne l’episodio di Piazza Fontana. Altri attentati minori sono stati dimenticati, come quello del 7 settembre 1919 quando un giovane anarchico, Bruno Filippi, si fece saltare in aria in Galleria Vittorio Emanuele, al Club degli industriali lombardi, ferendo – fortunatamente – solo pochi presenti.

  Per questi motivi ho deciso di saperne di più sulla strage del 12 aprile 1928.

 

  Quali sono gli elementi nuovi emersi dalla sua indagine? È in grado di dare un nome agli organizzatori e ai mandanti dell’attentato?

  Una volta deciso di dedicarmi alla ricerca su questo argomento, ho raccolto quel poco materiale che c’era da raccogliere come riferimenti bibliografici (Renzo De Felice, i cui studi sul fascismo sono fondamentali, ha però dedicato alla strage solo un breve riferimento in una nota a piè di pagina, nel volume dedicato agli anni 1925-1929) e ho affrontato una lunga ricerca negli archivi di stato. Roma e Milano, soprattutto. Devo ringraziare Mimmo Franzinelli, che mi ha messo a disposizione il suo archivio, creatosi nel corso degli studi sull’OVRA, e il frutto delle sue ricerche su alcuni protagonisti delle inchieste di polizia del tempo, come Umberto Ceva, Ernesto Rossi e il gruppo antifascista Giustizia e Libertà. 

  Ho anche seguito le tracce di altri inquisiti, come Romolo Tranquilli, fratello di Ignazio Silone, e di altri arrestati con l’accusa di strage, come Lelio Basso e Mario Boneschi, padre della scrittrice Marta. La fondazione Basso mi ha messo a disposizione le numerose carte raccolte dal politico socialista, e Marta Boneschi, alla quale va la mia riconoscenza, le carte del padre.

  I fondi della polizia politica, conservati all’Archivio centrale dello stato, e le carte della segreteria particolare del duce, mi hanno permesso di circoscrivere l’ambito delle inchieste condotte dagli uomini di Arturo Bocchini, a capo del mastodontico apparato di controllo e repressione.

  Le inchieste andavano in ogni direzione, apparentamente senza senso: anarchici,   slavi, comunisti, massoni, armeni, fuoriusciti, ecc. Da ogni parte saltavano fuori fiduciari e spie che scrivevano ai loro referenti OVRA di essere a conoscenza dei responsabili della strage di Milano.

  La pista che si delineava come più proficua si perdeva puntualmente in mille rivoli inconcludenti. Inoltre, cosa molto strana, in alcuni casi ho trovato scritto espressamente l’ordine del capo della polizia di fermare le indagini.

  Dopo tutti queste ricerche, per rispondere alla sua domanda, sono in grado di dare un nome agli organizzatori e ai mandanti dell’attentato? La risposta è senz’altro negativa. Questo per un semplice motivo. Lo storico non ha la funzione di trovare i colpevoli, ma di indagare a fondo, individuare i fatti e i loro protagonisti, organizzarli in un contesto definito, tentare una interpretazione, e presentare i risultati. Questo non vuol dire che non mi sia fatto un’idea. Quel che penso io è che l’attentato sia maturato in un ambiente ambiguo, dove provocazione, strumentalizzazione, idealità e doppiogiochismo si fondevano assieme. Un territorio ancora tutto da studiare. Nel mio volume pubblicato da Mursia, ho dovuto sacrificare molte di queste deduzioni. Ho voluto assolutamente evitare ogni dietrologia, e ogni ipotesi che non fosse suffragati da elementi oggettivi, riscontrati durante la consultazione degli archivi. Nel prossimo volume, dedicato alla Milano fascista, con tutta probabilità inserirò un capitolo dedicato al dissidentismo fascista, e all’antifascismo “spurio”, che spesso e volentieri si mischiavano in torbidi complotti. Con ogni probabilità è in quest’ambiente che matura la predisposizione dell’attentato.

 

  Gli attentatori miravano a uccidere Vittorio Emanuele III? L’attentato, quindi, ebbe una matrice anti-monarchica?

  Anche a questa domanda non esiste una risposta certa. È un fatto che il Re dovesse passare di lì a qualche minuto davanti al lampione dove era nascosto l’ordigno. È un fatto che l’ordigno era a tempo, e l’ora dell’esplosione era presumibilmente quella in cui il Re doveva trovarsi nei paraggi.

  Ma c’è un ulteriore fatto da non sottovalutare. Per quanto fosse precisa la previsione del passaggio del Re, difficilmente la bomba avrebbe potuto ucciderlo. C’era solo una possibilità su un milione che la carrozza passasse esattamente davanti al lampione al momento dello scoppio. Un attentatore che avesse come unico obiettivo la morte del sovrano non si sarebbe affidato al caso, ma avrebbe provveduto altrimenti, magari tramite un dispositivo a distanza (come quello scoperto pochi giorni prima lungo la linea ferroviaria nei pressi di Milano, probabilmente destinato al Duce che rimase nella città meneghina fino al 10 aprile, decidendo anzitempo di tornare a Roma).

 

  Nell’eccidio vennero coinvolti numerosi civili. Gli attentatori volevano compiere una strage?

  Questo è uno dei pochi punti in cui la risposta è certa. Sì, gli attentatori – al di là di ogni dubbio – volevano compiere una strage. Questo perché scelsero la piazza dove era previsto l’assembramento maggiore, l’entrata alla Fiera, e perché inserirono l’ordigno all’interno del basamento di ghisa del lampione. Lo scoppio mandò in frantumi il basamento, e lo trasformò in migliaia di proiettili impazziti che mitragliarono la folla assiepata. Sedici persone persero la vita immediatamente. Altre venti furono ferite in modo orribile, e almeno dieci fra queste morirono nei giorni e nei mesi successivi. In Piazza Giulio Cesare morirono più persone che a Piazza Fontana, purtroppo. Se esiste un dubbio sul fatto che volessero la morte del Re, non ne esistono sul fatto che si volesse una strage.

 

  Quello stesso giorno, il 12 aprile 1928, vennero uccisi due membri della Milizia presso la sede della Legione Carroccio a Milano. Sussiste un legame tra questo fatto e l’attentato alla Fiera?

  In realtà furono tre, alla fine, le camicie nere che persero la vita in quello strano incidente. Ho trovato recentemente, all’Archivio di stato di Milano, il rapporto della Milizia sull’incidente. La dinamica dell’incidente è descritta in maniera completamente diversa dal comunicato ufficiale diramato dall’Agenzia Stefani. La preoccupazione principale dell’ufficiale della Milizia è di evitare che l’incidente venga messo in relazione con l’attentato. Anzi, nel rapporto si legge testualmente: «l’incidente è avvenuto nei termini di cui sopra e nessuna altra interpretazione si deve dare al doloroso incidente».

  I «termini» erano questi: un fucile veniva lasciato cadere e questo lasciava partire il colpo, colpevolemente lasciato in canna dal servizio precedente, Il colpo colpiva all’addome il proprietario del fucile, mozzava una falange e trapassava il corpo di un milite, trapassava il corpo di un altro, feriva la coscia un quarto e si conficcava nel collo di un quinto. Cinque uomini con un solo proiettile partito da un vecchio moschetto 1891.

  Il fatto destò molto scalpore. Nella caserma di Via Mario Pagano, sede della XXIV legione della Milizia, accorsero subito Arnaldo Mussolini, il console Dabbusi, il sottosegretario agli interni Michele Bianchi, e altri gerarchi, a testimonianza della gravità del fatto. Anche senza voler fare della dietrologia, e collegare il fatto di sangue con l’attentato del giorno precedente, è molto probabile che in quella caserma ci sia stato un conflitto a fuoco. Non era certo un mistero che all’interno della caserma ci fossero forti contrasti tra i seguaci di Giampaoli, il federale di Milano, e i miliziani vicini all’altro grande protagonista delle faide interne al partito, Farinacci.

  Non ci sono elementi per collegare l’attentato alla Fiera con l’episodio della caserma. Resta il fatto che l’episodio rimase oscuro, e contribuì a creare un clima di tensione e di sospetto attorno ai fatti dell’aprile 1928. Se aggiungiamo il fatto che ci furono altri attentati sventati nei giorni precedenti l’attentato alla Fiera, e i contrasti all’interno del partito fascista milanese erano molto accesi per l’appoggio di Farinacci alle correnti antigiampaoline e agli oppositori di Arnaldo Mussolini e del podestà Belloni, che culmineranno con il commissariamento del partito di lì a qualche mese, abbiamo un quadro della situazione tutt’altro che chiaro. Milano, tra la fine del 1927 e l’inizio del 1929, visse un periodo travagliato, con un contrasto molto forte tra le componenti del fascismo, con il coinvolgimento di alcuni antifascisti fuoriusciti facenti capo a Giannini e a Pacciardi, che dalla vicina Svizzera complottavano per organizzare alcuni attentati.

 

  Fin dalla sera del 12 aprile si diffuse la voce che a compiere l’attentato sarebbero stati uomini vicini al Federale Mario Giampaoli. Perché?

  Fin dai primi momenti si diffusero alcune voci, non si sa quanto vox populi oppure fatte circolare ad arte contro il federale Mario Giampaoli, oggetto di un violento contrasto con l’ala farinacciana del partito.

  Il principale motivo per cui si sospettò Giampaoli (ma per lo spesso motivi si sarebbe potuto sospettare anche di altri) era dovuto a questo: rispetto all’orario ufficiale comunicato all’opinione pubblica, l’arrivo del Re alla Fiera doveva avvenire alle 10 e 30, ma il percorso dalla stazione alla Piazza Giulio Cesare era stato accorciato. Solo pochi erano a conoscenza che Vittorio Emanuele III dovesse arrivare in Fiera alle 10, ossia le autorità cittadine, la polizia, e i vertici del partito fascista, ossia Giampaoli principalmente, ma non solo. La bomba scoppiò qualche minuto prima delle 10, mezz’ora prima, tenendo conto quindi dell’anticipo del corteo reale. Gli attentatori erano quindi a conoscenza del cambiamento di programma.

  Per questo motivo si cominciò a diffondere la voce che alcune componenti del fascismo milanese erano a conoscenza, o avevano avuto una parte, nell’organizzazione dell’attentato. Se poi si parlò subito di Giampaoli e non degli altri che pure erano a conoscenza del cambiamento di programma, questo dipese – a mio parere – da una buona dose di malafede.

 

  Chi era Mario Giampaoli?

  Da anni, ormai, mi sto occupando di questo gerarca. L’immagine che si è tramandata di lui è di un uomo senza scrupoli, un delinquente che, tramite lo squadrismo, è arrivato ai vertici del partito milanese e ha creato un sistema di malaffare costringendo poi lo stesso Mussolini a toglierlo di mezzo. La realtà, come spesso accade, è più complessa, e la figura di Giampaoli ne è uscita ridimensionata.

  Mario Giampaoli proveniva dal sindacalismo rivoluzionario dell’Unione Sindacale Italiana (USI) di Filippo Corridoni, alla quale aderirono molti socialisti interventisti. All’entrata in guerra dell’Italia si arruola volontario, e dopo la guerra entra a far parte del movimento dei Fasci d’azione rivoluzionaria su posizioni di sinistra. La sua ideologia è un misto di arditismo e di sindacalismo rivoluzionario che coniuga comunismo e nazionalismo, in una miscela confusa e pericolosamente esplosiva.

  Diventa nel 1923, dopo l’abbandono di Attilio Longoni, segretario cittadino del fascio milanese, e guida il partito nei primi anni della “normalizzazione” imposta dal duce dopo la presa del potere.

  Nel 1926 sostituisce Carlo Maria Maggi alla carica di fiduciario provinciale, “federale”, come si diceva allora.

  È l’apoteosi del “giampaolismo”, e il nuovo federale da questo momento regna incontrastato – e invidiato – per oltre un biennio.

  Si può dire che Giampaoli fu il principale interprete di un fascismo popolare, vicino alle classi lavoratrici, antiborghese. Cercò – e quasi ci riuscì – di creare «uno speciale fascismo di massa», come lo definì il prefetto Siragusa nel marzo 1928 in un rapporto a Mussolini.

  Milano fu una città profondamente refrattaria al fascismo. Nelle elezioni del 1924, che consacrarono il successo elettorale del Listone in tutta Italia, e che furono caratterizzate da violenze e pressioni, denunciate da Matteotti nel suo famoso ultimo discorso alla Camera prima del suo assassinio, i socialisti riformisti, i massimalisti e i comunisti ottennero 80.000 voti, i popolari oltre 12.000, di fronte alla lista fascista che ne ottenne 60.000. Conti alla mano, Mussolini capì che l’intera classe lavoratrice milanese era antifascista.

  Obiettivo prioritario del fascismo, a Milano, era quello di aumentare il consenso nelle classi popolari. Giampaoli riuscì, in poco tempo, nell’impresa quasi impossibile di far breccia nel fronte avversario. Furono creati i gruppi aziendali, rafforzati i sindacati fascisti, stimolata l’edilizia popolare, con un lavoro costante e duraturo. I risultati vennero, e attorno al gerarca si crebbe un tale consenso da spaventare lo stesso Mussolini. Nel corso degli anni 1926-28 i rapporti della questura ci parlano di un Giampaoli lanciato in una attività frenetica. Comizi improvvisati, visite alle fabbriche, inaugurazioni di numerosi gruppi aziendali, cerimonie, ecc. Nelle carte della segreteria del duce ci sono alcune fotografie molto esplicite. Si vede più volte Giampaoli parlare da palchi improvvisati a centinaia di persone. Nulla di più lontano dalle adunate oceaniche preparate nei minimi particolari, con sfoggio di bandiere, labari e balconi imbandierati. La popolarità del gerarca cresce, e Mussolini puntualmente ne è al corrente.

  Possiamo dire che Giampaoli cercò, con successo, di accreditare il fascismo come genuino interprete delle esigenze delle masse lavoratrici, per la creazione di una sorta di socialismo popolare, basato sulla partecipazione dei lavoratori alla costruzione della nazione al pari delle altre classi sociali.

  Il fascismo di Giampaoli fu caratterizzato anche da profonde contraddizioni, legate soprattutto al ruolo dello squadrismo che, a differenza di altre provincie “normalizzate”, trovava nella dirigenza milanese protezione e considerazione. All’interno dei gruppi rionali (semplici organizzazioni territoriali di base), i vecchi squadristi continuavano a vegetare, protetti dall’ombra del segretario, e a usare metodi violenti per fini personali.

  Giampaoli – infatti – si avvaleva di alcuni loschi personaggi, primo fra tutti Roberto Rossi, capo del suo ufficio stampa, che diventerà in seguito spia dell’Ovra.

  Queste contraddizioni – profonde e innegabili – contribuiranno a squalificare l’esperimento del fascismo milanese di Giampaoli, e diventeranno il pretesto tramite il quale Mussolini riuscirà – non senza difficoltà – a “normalizzare” il partito della città del Duomo.

  Alla fine Giampaoli venne defenestrato. La sua rimozione rischiò di dare vita a una vera e propria sollevazione di gran parte del fascismo milanese. Le autorità si preoccuparono molto dei numerosi seguaci che gli ribadirono la loro fedeltà. Mussolini dosò abilmente repressione, emarginazione e perdono con i fascisti dissidenti e riuscì a disinnescare la mina Giampaoli, il quale si prodigò per calmare i suoi, convinto dell’amicizia del Duce. Tuttavia l’esperimento del fascismo popolare terminò bruscamente e tutto il fascismo milanese visse una lunga crisi dalla quale si riebbe parzialmente solo nel 1933, con l’elezione di Rino Parenti e la “normalizzazione” del partito.

  Giampaoli visse il resto del Ventennio a Roma e a Napoli, fuori da ogni vita politica. Tentò di riscattarsi agli occhi di Mussolini riprendendo gli studi e laureandosi in giurisprudenza, e scrivendo ogni tanto al duce. Venne riammesso nel partito prima della guerra, senza alcuna carica.

  Mario Giampaoli fu una figura complessa, contraddittoria, con molte ombre. Ma fu anche l’interprete di una stagione originale, e poco studiata, della storia del fascismo.

  Aderì, come molti ex squadristi e fascisti “di sinistra”, alla RSI, ma ne restò ai margini. L’unica cosa che fece fu di organizzare un colpo di mano per liberare dal carcere di Verona Galeazzo Ciano e i gerarchi del 25 luglio. Ma l’età, e soprattutto la malattia, glielo impedirono. Morì all’ospedale di Como nei giorni della liberazione.

 

  Com’erano i rapporti tra Giampaoli e Arnaldo Mussolini, il fratello del Duce?

  Giampaoli gode, all’inizio, dell’appoggio del fratello del Duce che gestisce gli affari della famiglia Mussolini, interessandosi dell’editoria milanese e della gestione del “Popolo d’Italia” e di investimenti finanziari. Alla fine del 1926, con la nomina di Ernesto Belloni a podestà di Milano, iniziano anche a circolare alcune voci di “tangenti” nella gestione di un prestito da 30 milioni di dollari ottenuto dagli Stati Uniti. Fu forse una specie di tangentopoli ante litteram quella che Milano visse nel 1928.

  Sarà contro questo aspetto “affaristico” che si scaglierà l’altro grande leader lombardo, Roberto Farinacci, consentendogli di erigersi a “moralizzatore” e a scagliarsi contro Giampaoli e Belloni. Il vero bersaglio del ras cremonese è però Arnaldo Mussolini.

  Farinacci si inserisce più volte nelle vicende milanesi, sostenendo Carlo Maria Maggi. Riesce a convincere l’ex federale a presentare al Duce un memoriale nel quale si accusa Giampaoli e Belloni (e, di conseguenza, il fratello del Duce) di interessi privati nella gestione del potere. Mussolini si infuria con Maggi, che viene espulso dal partito e – soprattutto – con Farinacci al quale rimprovera l’indisciplina e le velate allusioni al fratello Arnaldo nelle vicende del Duomo.

  Da questa vicenda prende l’avvio il famoso carteggio tra Farinacci e Mussolini, con accuse di fuoco e minacce di espulsione. Mussolini intima al ras di Cremona di smetterla con la sua aria da «antipapa» e di indicare «nome et cognome et domicilio dei parassiti che si sono sistemati sotto le guglie del duomo di Milano». Farinacci non va oltre la denuncia, pure lui coinvolto in uno scandalo per la gestione della Banca di Parma.

  Con il fratello del duce, Giampaoli organizzò nei giorni del delitto Matteotti una squadra paramilitare segreta, per difendere Mussolini. Nel periodo del suo massimo potere il rapporto con Arnaldo Mussolini fu contraddistinto da alti e bassi. Alla fine del 1928, comunque, i rapporti si erano notevolmente guastati, tanto che il direttore de «Il popolo d’Italia» non mosse un dito a favore di Giampaoli.

 

  Alludeva poc’anzi a un’opera sul Fascismo milanese cui sta lavorando. Ci può dire qualcosa a riguardo?

  Sul fascismo milanese esistono solo alcuni studi di un grande storico, Ivano Granata, dell’Università di Milano. Partendo da questi sto ricostruendo le vicende della Milano del Ventennio. Grosso modo ho intenzione di dividerla in tre pubblicazioni distinte, anche se la decisione finale spetta all’editore Mursia. Il primo volume tratta della nascita del fascismo italiano, fenomeno quasi esclusivamente milanese, e delle sue vicende fino alla presa del potere il 28 ottobre 1922. Il testo ha necessariamente un respiro nazionale, essendo la nascita del fascismo legata alle vicende del primo dopoguerra, e alla sua affermazione da movimento rivoluzionario in forza di governo.

  Il secondo volume è più specificatamente dedicato, nella prima parte, alla figura di Mario Giampaoli e al suo particolare fascismo popolare. Una parte importante è comunque legata alle violenze squadristiche e all’antifascismo milanese, e ai riflessi della politica nazionale. La seconda parte è dedicata alla città di Milano, al mondo culturale ed economico, con il tentativo fallito di creare la “grande Milano”, una città moderna ed europea, molto lontana dal campanilismo di altre città italiane dell’epoca. Ampio spazio è dedicato agli anni 1924-1930. La parte finale del secondo volume è incentrata sulla normalizzazione, sulle amministrazioni di Visconti di Modrone, Gallarati Scotti e Pesenti, che porteranno Milano fino alle soglie della seconda guerra mondiale.

  Il terzo volume è dedicato a Milano durante la seconda guerra mondiale e, nella seconda parte, alle vicende della Repubblica sociale e del suo crepuscolo. Questo volume è ancora in via di definizione, non avendo ancora completato la ricognizione degli archivi e della bibliografia. Ogni volume fa storia a sé, ed è accompagnato da un programma rigoroso di consultazione archivistica. Ho raccolto, inoltre, gran parte della bibliografia del tempo, e delle fonti a stampa, necessarie per avere il quadro completo dell’epoca. Per questo motivo ogni volume è preceduto, prima della sua stesura, da un lavoro sfibrante di consultazione, controlli, confronti, ecc. Solo in un secondo momento mi confronto con la storiografia recente, De Bernardi, Franzinelli, Granata, Gentile, ecc. Naturalmente De Felice, Della Peruta e la generazione degli storici ormai considerati “classici”, ma questo è ovvio. Un’ultima cosa: per avvicinare un pubblico ampio alla memoria storica le parti più propriamente storiografiche sono precedute da brevi racconti narrativi di introduzione. È una tecnica che ho già usato nel volume sulla strage alla Fiera, e che intendo mettere a punto nei volumi dedicati alla Milano degli anni 1919-1945.

27 gennaio 2010

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