Asse Roma – Berlino - Tel Aviv. Intervista con Andrea Giacobazzi Stampa E-mail

Asse Roma – Berlino - Tel Aviv. Intervista con Andrea Giacobazzi

a cura di Francesco Algisi

 

giacobazzi_asse  Andrea Giacobazzi (Reggio Emilia, 1985) si è laureato nel gennaio 2010 in Scienze Politiche (Relazioni Internazionali e Integrazione europea) presso l’Università Cattolica di Milano, discutendo la tesi intitolata “I rapporti internazionali dell’Organizzazione Sionista Mondiale e del Movimento Sionista Revisionista con l’Italia Fascista e la Germania Nazionalsocialista”. Risultato di due anni di ricerche condotte in diversi archivi italiani e israeliani, la tesi è stata recentemente pubblicata nel volume Asse Roma – Berlino – Tel Aviv (Il Cerchio, pagg.280, Euro 20,00).

  Dottor Giacobazzi, nel volume (pag. 146) lei parla dell’ostilità nutrita da molti ebrei tedeschi nei confronti degli ebrei orientali (Ostjuden). Qual era l’origine di tale avversione?

  Da molti ebrei assimilati gli Ostjuden erano considerati incompatibili con lo “spirito tedesco”, difficilmente inseribili nella società tedesca e arretrati. Non solo l’ebraismo assimilato e nazionalista ma anche diversi israeliti “liberali” usavano toni pressoché antisemiti nel rivolgersi agli Ostjuden. Ho riportato nel libro un testo di M. Rigg in cui si sottolineava come, durante gli anni Venti e Trenta, gli ebrei liberali definissero gli Ostjuden “inferiori”, richiedendo l’assistenza dello Stato per combattere la loro immigrazione. Nell’ambito del giudaismo tedesco-nazionalista – rappresentato da diversi gruppi pronti ad appoggiare la patria nazionalsocialista – si distinguerà, per il disprezzo verso gli “ebrei dell’est”, la “Lega degli ebrei nazionali tedeschi”, che chiedeva l’espulsione degli ebrei orientali dalla Germania e criticava certi comportamenti ebraici in termini quasi antisemiti. Il leader di questa formazione - M. Naumann - credeva che gli Ostjuden non fossero nemmeno paragonabili ai giudei tedeschi perché mantenevano «visioni morali sub-asiatiche [Halb-Asiens] estranee allo spirito tedesco». Secondo Naumann gli Ostjuden erano semplicemente non assimilabili «nella vita tedesca. Le speranze per una loro graduale germanizzazione erano malriposte, la loro natura “orientale” era troppo radicata per questo scopo».

  L’ostilità verso gli Ostjuden era condivisa anche dai sionisti?

  Larga parte dei sionisti veniva dall’Est europeo. Possiamo dire, al contrario, che i sionisti in moltissimi casi avessero un fermo disprezzo per gli ebrei assimilati, considerati traditori del “sangue ebraico” e sradicati senza patria. Un leader sionista del calibro di M. Nordau non esiterà a dir a questo proposto: “Ma che cosa ha di comune Israele con quella gente? La maggior parte di costoro - eccettuo volentieri una minoranza - appartengono alle nature più basse dell’ebraismo che una selezione naturale ha destinato alle professioni in cui si guadagnano rapidamente i milioni, non mi domandate come! […] Già molti di loro abbandonano l’ebraismo; e noi auguriamo loro buon viaggio, dolenti soltanto che, nonostante tutto, essi siano di sangue ebraico, sia pur dei suoi residui”. Concludendo il suo discorso al III Congresso di Basilea affermerà: “Non serbiamo rancore a questi poveri martiri dell’assimilazione. Limitiamoci a staccarci da loro come essi si staccano da noi. Non contiamo neppure sugli uomini pratici che ci abbandonano nella lotta, pronti a venire a noi quando la vittoria sarà conquistata”. Esisteva però un’eccezione che rimane anche oggi.

  Quale?

  Molti ebrei poco assimilati e fortemente religiosi – di questi tempi diremmo ultraortodossi – si opponevano ferocemente al sionismo considerandolo una bestemmia ed una forzatura umana rispetto alla volontà di Dio. Per questi ebrei la costruzione del Regno d’Israele senza la venuta del Messia era un atto contrario alla legge divina. Sempre al III Congresso di Basilea M. Nordau denunciava le resistenze religiose chiedendo retoricamente ai rappresentanti del rabbinato: «Perché ve ne state in disparte? Perché tacete? Perché non guidate la vostra comunità che vi segue con la bandiera davidica spiegata nel campo sionistico? Dicono che diffidate di noi, che temete da noi chi sa quale attentato alla religione».

  In Palestina “bisognava far immigrare “i buoni” e lasciare in Europa “la feccia””, scriveva il sionista Moshe Sharett nel proprio diario (cfr. pag. 177). Come vanno intese le due “categorie” citate?

  La citazione fa riferimento ad un libro di T. Segev ed è relativa ad un’affermazione precedente alla guerra. Le “categorie” vanno viste alla luce della “necessità” sionista di colonizzare. La colonizzazione abbisogna di energie vitali, di giovani forti, di persone preparate. Per molti anni si è descritta l’impresa sionista come un fatto “umanitario” sic et simpliciter; probabilmente una visione più corretta dei progetti nazionali ebraici la fornisce il leader sionista (poi sionista-revisionista) V. Jabotinsky, il quale diceva: “la colonizzazione sionista deve essere terminata o eseguita contro il volere della popolazione autoctona. Questa colonizzazione può, pertanto, essere portata avanti e compiere progressi solo sotto la protezione di un potere indipendente della popolazione autoctona - un muro di ferro, che sarà in grado di resistere alla pressione della popolazione indigena”. È facile intuire quanto un progetto di questo tipo richiedesse persone molto attive, tanto in ambito militare, quanto in campo agricolo, nel settore edilizio e per quanto riguardava formazione ed istruzione.

  I sionisti come Sharett erano quindi indifferenti rispetto alla sorte della “feccia” ebraica in Europa?

  Vi sono differenze tra prima e durante la guerra ma molte affermazioni riconducibili a dirigenti sionisti stimolano questo dubbio. Lo stesso Ben Gurion affermò nel 1938: «se sapessi di poter salvare tutti i bambini della Germania portandoli in Inghilterra o soltanto la metà di loro portandoli in Palestina, opterei per la seconda soluzione, perché noi non dobbiamo considerare soltanto il destino di quei bambini ma di tutto il popolo ebraico». Ho riportato diversi casi in cui il comportamento sionista verso la diaspora non fu irreprensibile. Ad esempio nel 1942-1943 il governo di Sua Maestà britannica rilasciava centinaia di permessi per le colonie inglesi, in particolare per Mauritius. Ricorda a questo proposito il rabbino Schonfeld: “Al dibattito parlamentare del 27 gennaio 1943, quando più di 100 fra parlamentari e Lord erano impegnati a prendere i provvedimenti conseguenti, un portavoce dei sionisti annunciò che gli ebrei si sarebbero opposti alla mozione perché in essa non si facevano riferimenti alla Palestina. Alcune voci si levarono a sostegno di questo intervento, e seguì un fitto dibattito alla fine del quale la mozione era ormai lettera morta. Persino i promotori esclamarono disperati: se gli ebrei non riescono a mettersi d’accordo tra loro, come possiamo aiutarli?”.

  All’interno del Partito Nazionalsocialista (NSDAP) i raggruppamenti ebraici filonazisti (cfr. pag. 144) trovarono qualche interlocutore?

  In realtà ai vari gruppi di ebrei assimilati che cercarono di scendere a patti col regime nazionalsocialista (“Lega degli ebrei nazionali tedeschi”, “Deutsche Vortrupp”, e per altri versi "Reichsbund jüdicher Frontsoldaten" e "Schwarzes Fähnlein”) non fu dato molto credito. Il discorso era diverso per i sionisti, i quali promettevano di liberare l’Europa dagli ebrei. Tra gli esponenti del regime che ebbero più contatti con i sionisti vanno citati senza dubbio Von Mildenstein e Eichmann.

  Come interpreta “la concessione del singolare permesso di utilizzo della bandiera sionista nel Terzo Reich” (pag. 179)?

  Quella della “bandiera ebraica” era forse la minore delle facilitazioni nazionalsocialiste al progetto sionista (pensiamo ad esempio all’Haavara, ai campi di riaddestramento, agli accordi per l’emigrazione e a molto altro). Si può dire che ogni atto che risvegliasse il nazionalismo ebraico era ben gradito a quelle autorità tedesche che desideravano favorire l’esodo israelitico dall’Europa. Del resto come scriveva Isaac Deutscher: «l’antisemitismo trova il suo trionfo nel sionismo, il quale in pratica ammetteva come legittimo e valido il vecchio grido di “Ebrei, andatevene!”».

  Perché Jabotinsky considerava “oltraggiosa” la posizione filonazista (cfr. pag. 182)?

  Nel movimento sionista revisionista, cui Jabontinsky era a capo, si erano diffusi atteggiamenti massimalisti, non solo chiaramente filofascisti ma anche plaudenti verso molti aspetti dell’hitlerismo. Il leader di questa componente estrema era A. Achimeir (già noto per aver tenuto una rubrica su un giornale ebraico intitolata “il Diario di un fascista”) il cui gruppo non esitava ad affermare che ad eccezione dell’antisemitismo di Hitler, il nazional-socialismo tedesco sarebbe stato accettabile e che, comunque, Hitler aveva salvato la Germania. Ancor prima, nel 1932, aveva accolto con favore il “grande movimento nazionale” che aveva salvato l’Europa dai parlamenti impotenti e, soprattutto, dalla dittatura della polizia segreta sovietica e dalla guerra civile. Questi eccessi spinsero Jabotinsky – già soprannominato “Vladimir Hitler” dai suoi avversari – a richiamare all’ordine i suoi: un flirt con i fascisti era accettabile ma fare la stessa cosa col nazionalsocialismo poteva risultare senza dubbio controproducente.

  A pag. 188, si parla di Kadmi Cohen, “esponente revisionista francese, arrestato nel 1941 dai tedeschi e internato a Compiègne”. Perché egli venne sorprendentemente rilasciato? Non era considerato un “nemico” dell’Asse?

  Il rilascio di Kadmi Cohen è quantomeno controverso. Durante la sua prigionia, fondò, con alcuni intellettuali, il movimento “Massada”, ideologicamente estremista e caratterizzato da un netto antiassimilazionismo - di stampo ovviamente sionista - orientato alla fondazione di uno Stato ebraico esteso su Palestina, Transgiordania e penisola del Sinai. Forse i tedeschi pensarono che potesse tornare utile. Fatto sta che il revisionista francese in una lettera che inviò nel gennaio del 1943 al Dr. Klassen, dell’Ambasciata di Germania, chiese ai nazionalsocialisti di passare ad un “antisemitismo positivo, costruttivo” che incoraggiasse gli ebrei europei ad operare una necessaria rottura con l’assimilazione. Aggiunse che uno “Stato ebraico in Palestina, in Transgiordania e nel Sinai avrebbe immobilizzato sia l’Inghilterra sia la Russia e avrebbe protetto le vie del petrolio e del commercio con l’Oriente per il continente europeo”. Il piano tuttavia non trovò supporto, la guerra iniziava a complicarsi parecchio per le forze dell’Asse, il trasporto di una tale massa di persone era difficoltoso sia per i problemi logistici sia per l’impegno materiale che sarebbe costato ad un Paese coinvolto, su diversi fronti, in una guerra che di giorno in giorno assumeva tinte sempre più scure. Alla fine Kadmi Cohen sarà deportato e morirà.

  Nella parte dedicata all’Italia fascista, si evoca spesso il nome di Leone Carpi…

  Carpi è una delle figure chiave del revisionismo italiano, in stretto contatto con Jabotinsky. Già maggiore dell’esercito, iscritto al P.N.F., editorialista de L’Idea Sionistica, periodico revisionista dalle tinte chiaramente filofasciste. Si occuperà dello sviluppo del progetto della Scuola marittima del Betar a Civitavecchia, dove – sotto le insegne del Regime – si formerà “il primo nucleo della marina israeliana”. Parlando a nome dei revisionisti scriverà nel 1937: “Essi dichiarano che non da oggi ma da sempre sono stati nemici di tutte le internazionali, ed anche di quella ebraica, se esistesse, il che non è. Essi si sono chiesti «se l’Italia possa vedere di buon occhio il formarsi di una altro Stato nel bacino orientale del Mediterraneo», ed hanno risposto affermativamente. Essi hanno considerato «se convenga all’Italia colonialmente imperiale in Africa prendere posizione» contro le aspirazioni degli arabi e musulmani di Palestina, ed hanno risposto affermativamente. I loro dirigenti, tutti soldati italiani e fascisti, hanno pronunciato due giuramenti: a questi non mancheranno mai.”

  In Italia vi furono sostenitori o simpatizzanti del gruppo Stern?

  Non ne ho notizia. Il gruppo (che darà luogo ad una scissione interna al revisionismo e che chiederà di scendere in guerra al fianco dei nazionalsocialisti) era principalmente costituito da sionisti revisionisti dell’Est europeo. I revisionisti italiani erano fortemente jabotinskyani e allo stesso tempo molto legati al fascismo. Un aneddoto curioso sui revisionisti italiani ce lo rivela A. Achimeir che, in occasione della Conferenza di Vienna del 1932, racconta: quando l’avvocato Leone Carpi di Milano, che salutò la convenzione con una mano alzata in stile fascista, entrò nella sala, «noi balzammo in piedi dalle sedie e alzammo le nostre braccia in suo onore».

  Lei ha condotto alcune ricerche anche negli archivi israeliani, in particolare presso l’Istituto Jabotinsky di Tel Aviv. Qual è stata l’accoglienza riservatale?

  Presso lo Jabotinsky Institute di Tel Aviv e presso il Central Zionist Archive di Gerusalemme. Ho trovato molta collaborazione e disponibilità: la ricerca era in ebraico e i primi giorni mi risultava molto difficile trovare la corrispondenza con le lettere dell’alfabeto latino, ma l’aiuto da parte loro non è mancato.

  Come viene affrontato oggi in Israele il tema dei rapporti tra i sionisti e l’Asse?

  Ritengo che la cosa sia stata interiorizzata dalla società israeliana. Del resto Menachem Begin – che era un alto dirigente revisionista – divenne primo ministro negli anni’70. La stessa cosa accadde a Yitzhak Shamir, triumviro del gruppo Stern. Molti leader laburisti e liberali coinvolti negli accordi con la Germania e l’Italia di quegli anni arriveranno ai vertici dello Stato israeliano.

 

7 febbraio 2011

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