Lo Stato etico corporativo. Intervista con Antonio Messina Stampa E-mail

Lo Stato etico corporativo

Intervista con Antonio Messina


a cura di Francesco Algisi

 

messina statoetico  Antonio Messina, nato a Mazara del Vallo (TP) nel 1989, studia Storia all'Università di Palermo. Da anni ha indirizzato le sue ricerche nello studio del totalitarismo fascista, cercando di cogliere e analizzare obiettivamente il progetto politico che gli intellettuali fascisti posero a fondamento della loro azione. Appassionato di storia, collabora con testate giornalistiche e associazioni culturali, trattando e approfondendo temi riguardanti la storia dell'Italia fascista, con particolare attenzione alla sua politica culturale. È autore del volume Lo Stato etico corporativo. Sintesi dell'ideologia fascista (Booksprint Edizioni, 2013), definito dal Prof. A. James Gregor "una delle migliori sintesi sinottiche della dottrina fascista ufficiale".

  Quali sono gli "Elementi di protofascismo [...] individuabili nel pensiero di Giuseppe Mazzini" (pag.25)?

  Il pensiero di Giuseppe Mazzini si articolava in una concezione total-unitaria, che vedeva Religione, Politica ed Educazione ricollegarsi strettamente l'una all'altra. Nello specifico, per Mazzini vi era una convergenza assoluta tra rivoluzione (nazionale) ed educazione, cosicché è lecito affermare che il suo fu il primo modello di "pedagogia rivoluzionaria" propugnato in Italia, cui farà seguito quello fascista – gentiliano. Il discorso mazziniano era di natura palingenetica: lui si pose come il profeta della Terza Italia, che doveva rigenerarsi per mezzo di un principio religioso, fondere le masse nel conseguimento mistico di uno scopo comune (identificato con il bene supremo della nazione), ed educarle ai principi nazionali, al sacrificio e alla dedizione verso la comunità. La fede religiosa nella nazione era il fulcro del misticismo politico mazziniano, l'essenza stessa della rivoluzione nazionale. Solo la religione, per Mazzini, avrebbe potuto trasformare la coscienza degli uomini e metterli in cammino nell'ottemperamento del bene comune. Per questo lui concepiva la "Giovine Italia" come «una novella religione politica», con una finalità «essenzialmente educatrice», solo grazie alla quale l'Italia poteva sperare «salute e rigenerazione». La "Giovine Italia" era una associazione idealizzata come comunità mistica di credenti, gli associati vivevano la vita politica come apostolato – spesso sfociante in martirio – e mettevano tutta la loro vita al servizio della patria. Una patria che, nell'ottica di Mazzini, aveva un carattere profondamente spirituale: essa doveva preparare l'avvento di una nuova forma di civiltà, fatta di nazioni libere e affratellate in una «armonia universale», con Roma come centro sacro, da cui si sarebbe irradiata in Europa la nuova religione politica. Il principio educatore posto a fondamento della religione mazziniana fu «il dovere», improntato alla fratellanza, in esatta antitesi alle rivoluzioni individualistiche dei diritti, che Mazzini considerava egoistiche e materialiste. Per tal guisa egli respinse la dottrina dei diritti individuali, fondamento dei regimi liberal-democratici, che aveva creato un «aggregato d'individui [...] devoti a fini particolari», incapaci di adempiere a una missione comune. Parimenti al liberalismo, Mazzini si scagliò contro il "socialismo scientifico" di Karl Marx e Friedrich Engels, giudicato «falso e tirannico», oltre che grettamente materialista. Rigettava la lotta di classe in nome della «associazione fra capitale e lavoro», richiamandosi al principio della solidarietà nazionale, dell'unità e della collaborazione, paventando un'economia sociale con una sempre crescente «piena responsabilità e proprietà sull'impresa» da parte degli operai. Mazzini ha lasciato un'eredità dottrinale che per decenni influenzò la mente e i cuori di molti italiani. La suggestione che il pensiero mazziniano ha esercitato nei teorici della Dottrina fascista è stata documentata da diversi studiosi. Mussolini fece suo il proposito di Mazzini di voler educare e rigenerare gli italiani. Al riguardo, già sul finire del 1920, dirà: «Noi lavoriamo alacremente per tradurre nei fatti quella che fu l'aspirazione di Giuseppe Mazzini: dare agli italiani il "concetto religioso della nazione" [...]. Gettare le basi della grandezza italiana nel mondo, partendo dal concetto religioso dell'italianità [...], deve diventare l'impulso e la direttiva essenziale della nostra vita».

  Tra i 'precursori' del Fascismo (cfr. pag.25) ritiene ravvisabile anche Alfredo Oriani?

  Alfredo Oriani fu, insieme a Mazzini, uno dei più accesi sostenitori di una rigenerazione morale dell'Italia, convinto che il vero Risorgimento fosse ancora da compiersi. Oriani prese coscienza del fatto che l'Italia reale non corrispondesse all'Italia "ideale", e che l'italiano non fosse come in realtà sarebbe dovuto essere. Un enorme fossato divideva le "due Italie", e le origini di questo spartiacque vanno proprio ricercate nelle vicissitudini del Risorgimento. Già Mazzini aveva definito lo Stato post-unitario non la «vera grande Italia», la «terza Roma del popolo», ma una «menzogna d'Italia», un «organismo inerte», cui manca «l'alito fecondatore di Dio, l'anima della Nazione». La colpa veniva fatta ricadere sulla monarchia sabauda e su Cavour, espressioni di un materialismo che aveva soffocato la presa di coscienza delle masse. Non diversamente da Mazzini, anche l'autore della Lotta politica in Italia mosse una severa critica all'Italia liberale, definita una «nazione senz'anima», retta da una monarchia priva di ideali e ambizioni, incapace di assumere quella funzione «universale» e civilizzatrice che spetterebbe alla Penisola in virtù del suo primato. Oriani sosteneva che il Risorgimento non fu una "rivoluzione popolare", non solo perché il popolo non aveva effettivamente partecipato a quell'avventura, ma anche perché «non afferrava ancora il significato della rivoluzione». Esso era privo di quella fede e di quella coscienza che l'«apostolo» Mazzini aveva cercato invano di infondergli; non era stato «rigenerato da un'idea religiosa», e non era stato trasmutato in una «nazione di credenti». Anche Oriani concepì la politica come missione da parte di una èlite il cui compito era quello di educare il popolo, convertirlo alla «nuova religione», mobilitarlo e condurlo alla rivoluzione. Di conseguenza, auspicò l'avvento di un'«aristocrazia nuova», estranea al materialismo positivistico e animata da uno spiritualismo «eroico», capace della virtù del sacrificio, del coraggio, della competizione, della lotta e suscettibile di indurre una «rivolta ideale» contro la vecchia Italia borghese. Questa «aristocrazia nuova» aveva il compito di forgiare il popolo per dar vita a una vera nazione all'altezza delle aspettative di Mazzini. Nella prosa di Oriani si ripercorre tutto questo. Parlò della vita come una manifestazione dello "Spirito" e dello Stato come sua espressione principale. Egli attribuì allo Stato la creazione della comunità (intesa come famiglia e religione) senza la quale gli individui non sarebbero mai riusciti nella piena maturazione della loro personalità («La famiglia prepara l'uomo allo Stato, lo Stato prepara il cittadino all'umanità», scrisse tra le altre cose). Tutte idee che ritroveremo inalterate nella concezione politica fascista. Soltanto un'aristocrazia della volontà e dell'intelligenza può disciplinare le masse informi e indirizzarle a fini morali che trascendono la sfera dei loro interessi immediati. Questi furono i concetti che Oriani aveva espresso in La rivolta ideale, libro che Mussolini ritenne essere fondamento del Fascismo.

  Giovanni Gentile – si legge a pag.42 – credeva che lo Stato dovesse essere "governato da uno spirito schiettamente e profondamente religioso". Come va inteso tale concetto?

  Come per Mazzini, anche per Gentile l'elemento religioso riveste un'importanza fondamentale, ed è la condizione essenziale affinché si compia l'unità morale del corpo politico e sociale. Per Gentile, la vocazione religiosa si esprime attraverso la «virtù d'abnegazione e sacrificio», la «devozione alla legge e all'ideale», il «ritrovare se stessi in una realtà che ci limita e trascende». In tal senso, la dedizione allo Stato costituisce un atto religioso, perché «richiede l'assoggettamento del particolare a un interesse generale e perenne, a una idealità superiore». Nella Dottrina, Gentile scrisse che «il fascismo è una concezione religiosa», conferendo in tal modo al fascismo un carattere religioso, e investendo lo Stato di una missione etica. L'ideologia fascista trovava il suo punto focale nella concezione dello Stato Etico, suprema autorità politica, spirituale e morale, sommo e unico educatore della comunità nazionale. Intellettuali fascisti come Bottai vedevano nello Stato la più alta manifestazione della spiritualità dell'uomo, perché nello Stato «l'uomo realizza i più alti valori morali della sua vita». Non diversamente da Bottai, un altro intellettuale come Paolo Orano scriveva che «lo Stato Fascista non può essere concepito e creduto e servito e glorificato che religiosamente». Il contenuto religioso dello Stato si spiegava per i fascisti con la constatazione che esso era atemporale ed eterno, esprimeva dei valori morali e spirituali, aveva la missione di educare il popolo e conferire a esso una missione da svolgere nel tempo e nello spazio. Lo Stato Etico, così come ideato da Mussolini e Gentile, era un organismo dotato di una volontà sua propria; esso doveva servirsi della totalità delle risorse umane e materiali a sua disposizione per educare il popolo, unificarlo in una fede e creare una nuova civiltà moderna e universale. Tale organismo non trova alcun riscontro pratico in regimi politici passati o presenti, negli assolutismi monarchici o nei regimi paternalistici e autocratici. Esso fu una creazione del tutto nuova e originale, progettata per «eternare il tempo di Mussolini».

  Quale rapporto sussiste tra la concezione 'religiosa' fascista e il Cattolicesimo?

  Il fascismo, ideologia spiritualista e antimaterialista, non si proclamò mai antireligioso, anticattolico o anticlericale, anzi vide nel Cattolicesimo un elemento identitario imprescindibile della Civiltà italiana, una parte fondamentale e inestirpabile del «genio romano», e in quanto tale da proteggere e valorizzare. «Abbandonarlo – si legge nel Dizionario di Politica edito dal PNF nel 1940 – significherebbe porsi fuori da una solidarietà spirituale di alto valore, rinnegare se stessi come storia, togliere al popolo una manifestazione categorica della sua vita e alla nazione un tratto essenziale della sua fisionomia». Giovanni Gentile, in primis, ribadì più volte che la religiosità dello Stato – se non voleva essere astratto e utopico – doveva poggiare le sue solide basi nella cultura nazionale. Per questo egli affermava che «non è realizzabile forma religiosa, che non abbia radice nella coscienza popolare», quindi il sentimento religioso verso lo Stato e la Patria – per Gentile – doveva innestarsi nella coscienza religiosa già matura nel popolo, quella cattolica-cristiana. Solo riconoscendo l'autorità religiosa della Chiesa, lo Stato poteva raggiungere la sua «unità morale», e realizzarsi pienamente come Stato Etico. A questo punto i teorici fascisti più seri si prodigarono per definire le rispettive competenze della Chiesa e dello Stato, stabilendo la natura del loro rapporto. Lo «Stato Nuovo» fascista, che non era ateo, né agnostico, né positivista o razionalista, non aveva alcuna intenzione di imporre una particolare confessione religiosa (e questo lo distingueva dagli Stati confessionali), anzi strinse accordi con molte di esse allo scopo di regolare i reciproci rapporti (si pensi agli accordi con il Cattolicesimo e l'Ebraismo, i rapporti costruiti con l'Islam e la legislazione sui culti a-acattolici ammessi). Il presidio di questa politica filo-religiosa era costituito dalla sovranità etica e politica dello Stato, che non doveva essere intaccata da indebite interferenze di natura politica da parte di nessun culto religioso. Dunque, nell'«armonico collettivo» fascista, Stato e religioni avevano compiti diversi e complementari, entrambi condividevano un orizzonte trascendente e conferivano alla «legge morale» un primato assoluto nella vita.

  Ma la Chiesa cattolica poteva accettare una limitazione delle sue prerogative in nome della sovranità totalitaria dello Stato? Poteva accettare che il monopolio dell'educazione dei giovani fosse di esclusiva pertinenza dello Stato? Poteva, in ultima analisi, convivere con un regime totalitario che affermava il primato dello Stato su ogni altra cosa?

  La risposta a queste domande non è facile. Le uniche certezze storiche che abbiamo sono costituite dai dissidi sorti tra la Chiesa e lo Stato fascista in materia di educazione dei giovani, dissidi che furono poi risolti senza gravi conseguenze da entrambe le parti.

  Lei scrive che il pensiero politico gentiliano "costituisce la solida piattaforma teorica dell'ideologia fascista" (p.42). Come si concilia questo con l'antigentilianesimo dei mistici fascisti, che – come si legge a pag.45 – "si consideravano intransigenti custodi dell'ortodossia fascista e ferventi missionari della sua diffusione"?

  La Scuola di Mistica Fascista non fece una politica antigentiliana, nel senso che diede per scontato il distacco dal filosofo siciliano. Questa presa di distacco si spiega con le accuse che per tutto il Ventennio esponenti del Partito fascista mossero a Gentile, la cui filosofia era considerata un retaggio liberale di cui sbarazzarsi. Non intendo entrare nel merito delle accuse – che personalmente reputo infondate – rivolte a Gentile, su cui rimando a un bellissimo libro scritto da Alessandra Tarquini: Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista. Vorrei solo evidenziare quanto in realtà tale "antigentilianesimo" fosse solo fittizio, perché di fatto i mistici fascisti esaltavano proprio quella Dottrina frutto del connubio tra l'intuizione politica mussoliniana e la visione filosofica gentiliana. Se il Dizionario di Politica definiva la mistica come l'azione determinata «dalla fede più salda nell'assoluta verità delle affermazioni fasciste», quali erano queste «affermazioni» se non quelle contenute nella Dottrina Fascista redatta da Mussolini e dallo stesso Gentile nel 1932? Anche la Tarquini, nel suo lavoro, non può che riconoscere l'influenza esercitata dal pensiero di Gentile sugli stessi mistici, tantoché al convegno nazionale da essi indetto nel 1940 espressero una concezione politica molto vicina a quella di Gentile, piuttosto che a quella di alcuni antigentiliani degli anni Venti e Trenta. Questo perché «il progetto di Gentile coincideva con quello del regime e del partito ed è per questo che il filosofo si impegnò nella costruzione del fascismo, delle sue istituzioni e della sua ideologia» (Tarquini). Perfino i più critici antigentilani «di fatto non riescono a liberarsi di Gentile, a uscire dal solco da lui tracciato: la loro ideologia... conserva... fondamentali elementi riconducibili al pensiero del filosofo siciliano» (Buchignani).

  Lo Stato etico fascista – si legge a pag.55 – "rappresentò il fine ultimo della rivoluzione fascista, il modello di una nuova civiltà universale e imperiale". Nella Dottrina del fascismo – riportata in appendice – si legge, peraltro, che il "fascismo respinge gli abbracciamenti universali". Come deve essere intesa, quindi, l'universalità fascista?

  L'universalità fascista va intesa, anzitutto, come una soluzione alternativa all'universalismo astratto del positivismo razionalista, divenuto preponderante nella cultura europea con la Dichiarazione dei diritti. Secondo i fascisti questo tipo di universalismo nega le differenze tra le diverse culture e comunità nazionali, in nome dei diritti individuali e del progresso economico indefinito. Anche il cosmopolitismo socialista e l'internazionalismo marxista vengono rigettati dai fascisti, perché tendono a negare quella che per il fascismo rappresenta una base insopprimibile: la Nazione-Stato. Per queste ragioni un intellettuale gentiliano come Ugo Spirito scriveva che «l'internazionale liberale e quella socialista erano in realtà soltanto un'antinazionale», e che il fascismo non vuole livellare gli individui e le nazioni, ma «come riconosce, nell'organismo nazionale, a ogni individuo il suo posto e il diritto e il dovere di affermare la sua libera personalità, così riconosce, nell'organismo internazionale, a ogni paese la sua peculiare funzione creatrice di nuova civiltà». L'universalismo fascista è strettamente correlato al concetto di Impero, che a sua volta richiama il concetto di Gerarchia tra le nazioni e i popoli. L'imperialismo era inteso dai maggiori intellettuali fascisti come espansione dell'idea fascista nel mondo, cioè come «coscienza di una superiore civiltà da diffondere» (C. Curcio). Il nuovo impero della «Terza Roma mussoliniana» doveva creare un ordine nuovo, strutturando la comunità internazionale dei popoli su nuove basi gerarchiche, secondo i principi di ordine e di autorità. Contro i «vani internazionalismi che si oppongono alla realtà insopprimibile della nazione», il fascismo affermava la necessità di un Impero all'interno del quale ogni Stato – senza rinunciare alla propria individualità – concorreva a collaborare con un peso proporzionale «al complesso di forze che rappresenta e per la volontà che lo anima». Ogni nazione, quindi, nella prospettiva fascista, deve conquistarsi con "virile audacia" e perseveranza il suo posto nella gerarchia imperiale, e concorrere in collaborazione con le altre all'edificazione della Civiltà.

  Lei scrive che la civiltà fascista era "anti-nazionalista" (pag.72). Il Fascismo non ebbe anche un'anima nazionalista?

  Storicamente il fascismo ha avuto tra le sue fila fiancheggiatori nazionalisti, ma la Dottrina che lo animava fu una, e in essa si può scorgere una posizione che segna un solco incolmabile con il nazionalismo classico. Prima dell'avvento del fascismo, l'ideologia nazionalista aveva descritto la nazione nei termini di una realtà naturale, cioè come un dato di fatto oggettivo e indipendente dalla politica. La patria era intesa dai nazionalisti come la materializzazione geografica della nazione; in tal senso l'ideologia nazionalista non si discostava molto dall'idea – di matrice tedesca – del Blut und Boden («sangue e suolo»). I fascisti respinsero il «vieto concetto naturalistico» dei nazionalisti, intenzionati a celebrare il mito dello Stato e non quello della nazione. Mentre il nazionalismo classico aveva subordinato lo Stato alla nazione, nella Dottrina del Fascismo si legge che «non è la nazione a generare lo Stato (...). Anzi la nazione è creata dallo Stato, che dà al popolo, consapevole della propria unità morale, una volontà, e quindi un'effettiva esistenza». Il primato dello Stato sulla nazione, la visione dello Stato come «creatore» della nazione, è uno dei dogmi centrali dell'ideologia fascista, che la diversifica nettamente dal nazionalismo. Per il fascismo «la nazione italiana è un organismo etico che si realizza nello Stato fascista», per questo Pellizzi scriveva che «lo Stato fascista non solo sovrasta la nazione, ma la riassorbe ed elimina». I fascisti consideravano l'idea nazionalista di nazione come un retaggio materialistico e naturalistico del positivismo ottocentesco, e contrapponevano a essa la visione etica e morale dello Stato, il primato dello «spirito» sulla «materia». Già Mazzini aveva affermato che «la Patria non è un territorio», essa «è l'idea che sorge su quello; è il pensiero d'amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio», e Gentile vi faceva eco scrivendo che «una nazione non è un'esistenza naturale, ma una realtà morale», essa «non è geografia e non è storia: è programma, è missione. E perciò è sacrificio». Per queste ragioni risulta oltremodo errato confondere fascismo e nazionalismo. Concludeva, infatti, lo stesso Gentile: «lo Stato fascista dunque, a differenza di quello nazionalista, è una creazione tutta spirituale. Ed è Stato nazionale, perché la stessa Nazione, dal punto di vista del fascismo, si realizza nello spirito, e non è un presupposto».

  Lei spiega che "nazismo e fascismo sono state due ideologie totalmente diverse, fondate su due antitetiche concezioni del mondo". Ritiene quindi che tra le due ideologie non vi sia alcun elemento comune?

  Gli unici elementi in comune che si possono rintracciare da un confronto tra le due ideologie sono il metodo totalitario – adoperato da entrambi per l'edificazione del proprio regime politico – e la critica ai sistemi liberali e marxisti, condotta però da prospettive diverse. Sulla base di queste scarse similitudini, durante la seconda guerra mondiale, la propaganda anglo-americana ha creato l'inesistente categoria del "nazifascismo", con lo scopo di addossare al fascismo italiano i crimini e le nefandezze attribuibili al nazionalsocialismo di Hitler. È per tali ragioni che – conclusasi la seconda guerra mondiale – la "vulgata antifascista" ha costruito le proprie argomentazioni servendosi della propaganda alleata. Per diversi decenni si è sentito parlare di "fascismo tedesco" e di "crimini nazifascisti", senza la dovuta scissione di fatti, eventi, responsabilità. Ma più ancora, senza un confronto obiettivo e scevro di pregiudizi sui principi che animavano le due differenti dottrine politiche. Eppure, basta leggere il Mein Kampf di Adolf Hitler per rendersi conto di quanto profondamente dissimili – e tra loro stridenti –, siano il fascismo italiano e il nazionalsocialismo tedesco. Nel tentativo di creare una comunità nazionale unita e coesa (Volksgemeinschaft), il nazionalsocialismo si è avvalso dell'uso di miti quali l'esaltazione della purezza del sangue e l'appartenenza a una stessa comunità etnico-razziale, postulando la naturale superiorità della razza "ariana-nordica". La "razza ariana" era concepita come un aggregato biologicamente statico, portatore di valori trasmessi geneticamente nel tempo. Una concezione, questa, decisamente materialistica. Lo Stato venne ridotto al ruolo di pura amministrazione (der Staat ist nur ein Apparat), mentre il partito assunse una posizione preminente. Per i nazionalsocialisti lo Stato fu solo un mezzo utile alla conservazione della purezza della razza, entità metafisica che trascende il tempo e la storia. Se per Mussolini lo Stato rappresentava un caposaldo assoluto, quale organismo etico e morale, per Hitler lo Stato era solo «un mezzo per raggiungere un fine» ossia «conservare i primordiali elementi di razza». La nazione, per i nazisti, non è creata dallo Stato, ma esiste e sussiste «solo nel sangue», essendo la nazione nient'altro che una unità razziale di consanguinei viventi in uno stesso suolo. Questo materialismo sfociava facilmente nel determinismo biologico e nel darwinismo sociale, concependo la natura umana come lotta per la sopravvivenza del più forte e per la conquista di nuovi «spazi vitali». Una concezione, in definitiva, antitetica allo spiritualismo fascista, che esaltava il primato delle «energie morali» e dei valori della romanitas, quali basi per la costruzione di una Civiltà. Un intellettuale come Delio Cantimori rimarcò più volte le differenze tra il fascismo e il nazismo, vedendo in quest'ultimo un'ideologia i cui principi risiedevano «nell'antisemitismo, nell'etnicismo populistico e nella volontà di mobilitare le masse in favore del pangermanesimo», mentre in Italia i motivi che animavano il fascismo erano ben altri.

  Pensa invece che tra l'Italia fascista e l'Urss di Stalin vi fosse qualche affinità?

  Anche il fascismo e il regime sovietico condivisero degli aspetti in comune: la vocazione totalitaria, la presenza di miti in grado di mobilitare le masse, la lotta contro il sistema capitalista e la volontà di creare un "uomo nuovo". Per di più l'Italia fascista fu, dopo l'Unione Sovietica, il paese che ebbe più controlli sulla sua economia rispetto a qualsiasi altra nazione in Europa. Si stima che entro la fine degli anni Trenta circa l'80 per cento del credito disponibile nell'economia italiana era controllato, direttamente o indirettamente dallo Stato fascista. Secondo il prof. Gregor, quando i movimenti rivoluzionari del XX secolo abbandonarono il marxismo tradizionale trasformandolo in "leninismo", "maoismo" o "castrismo", iniziarono ad assomigliare sempre più a una sorta di "fascismo imperfetto". Questi movimenti, infatti, svilupparono un certo interesse per la risoluzione dei "problemi nazionali", e si prodigarono per un rapido sviluppo economico dei loro Paesi arretrati. Sia la rivoluzione fascista sia la rivoluzione bolscevica furono rivoluzioni di minoranze organizzate gerarchicamente, ed entrambe presero il potere con lo scopo di educare le masse ed elevarle a una più alta coscienza sociale. Sia Lenin sia Mussolini ripudiarono il determinismo marxista e fecero leva sulle «aristocrazie della volontà», vedendo nella maggioranza uno strumento per i propri fini politici. Inoltre entrambi sostennero la tesi produttivistica per uno sviluppo su scala nazionale. Alla morte di Lenin, il suo successore Stalin portò a compimento la trasformazione del socialismo internazionale in "socialismo nazionale". Tuttavia, per il bolscevismo lo Stato totalitario non era il fine ultimo da raggiungere, ma un mezzo per attuare il mito della società senza classi (da notare che anche per il nazismo lo Stato era solo un mezzo, ma per raggiungere uno scopo diverso). La differenza sostanziale che separava i diversi regimi totalitari fu la centralità e l'importanza che il fascismo assegnava allo Stato, e i diversi tipi di civiltà che intendevano costruire.

  Per l'ideologia fascista "i gruppi umani" non sono "aggregati biologicamente statici, ma [...] culturalmente omogenei e biologicamente variabili" (pag.100). Potrebbe spiegare questo concetto?

  In opposizione al razzismo deterministico e biologico della concezione nazionalsocialista, il fascismo elaborò un suo concetto di razza, originale e diversificato. Si trattava di un "razzismo" indissolubilmente connesso con il proposito del regime di creare l'uomo nuovo fascista, attraverso la rigenerazione del carattere, degli usi e dei costumi degli italiani. Questo "razzismo" poneva l'accento sull'evoluzione spirituale degli individui, affermando la necessità di una rivoluzione antropologica del popolo italiano, condotta per mezzo dell'educazione fisica e morale. Per Mussolini la razza non era un dato oggettivo presente in natura, ma qualcosa che bisognava creare con un'azione cosciente condotta dallo Stato. Per tale ragione un intellettuale come Leone Franzì, in un volume a cura dell'Istituto Nazionale di Cultura Fascista, pose l'accento sulle differenze tra il razzismo italiano e il razzismo tedesco, sostenendo l'originalità del razzismo fascista che «si fonda su di un primato assoluto della volontà che perciò non traccia o meno limiti biologici». Era la volontà di essere italiani e fascisti il presupposto di questa nuova razza, che per Franzì «si configurava come una comunità politica e non come un gruppo determinato biologicamente». In un'altra pubblicazione che ebbe carattere ufficiale, a cura di Giacomo Acerbo (I fondamenti della dottrina fascista della razza), si affermò chiaramente che «il pensiero fascista non può dunque non superare i termini naturalistici del problema della razza, stante la sua vocazione di rigeneratore e riavvaloratore degli elementi universali da cui è stata sempre informata la civiltà latina». Non diversamente da questi ultimi, Mario Missiroli, in un articolo sul problema razziale commissionatogli esplicitamente da Mussolini, sosteneva che «i più alti valori spirituali sono una conquista della nostra coscienza, il risultato di uno sforzo e di una perpetua selezione e, come tali, non sono legati a nessun dato della natura, perché, in questo caso, la natura si sovrapporrebbe allo spirito, il che è manifestamente contrario all'etica del Fascismo, tutta fondata sulla supremazia assoluta, incontestabile della volontà e della responsabilità morale». Simili posizioni non ammettevano il concetto del determinismo biologico, che era invece largamente presente nella dottrina e nella prassi nazionalsocialista. La nuova razza che voleva creare il fascismo era una comunità di individui spiritualmente e culturalmente rigenerati, omogeneamente devoti al progetto politico dello Stato Etico Corporativo. Quindi anche un antifascista, seppur di sangue italiano, era considerato uno straniero appartenente a una "razza nemica". Se la razza era quindi concepita come qualcosa di dinamico, i cui caratteri fisici possono mutare ed evolversi col tempo, compito dello Stato era quello di vigilare sulla salute fisica e spirituale della razza, influendo positivamente con apposite norme sanitarie, eugenetiche e demografiche. Esso doveva favorire inoltre l'unità politica e spirituale della comunità nazionale. Il "razzismo spirituale" era l'unico che poteva ben conciliarsi con la Dottrina etica e spirituale propria del fascismo, benché all'interno del regime esistessero minoranze propense ad una "nazificazione" del fascismo in senso razzista-biologico. Mussolini decise di optare per la variante spirituale del razzismo italiano, autorizzando Julius Evola a pubblicare la sua Sintesi di dottrina fascista della razza, opera che per bocca dello stesso Mussolini «evita l'errore zoologistico e biologistico proprio a un certo razzismo germanico; in essa vi è posto per il primato di quei valori dello spirito, che fan parte essenziale della nostra tradizione e dell'idea fascista». In quest'opera Evola, opponendosi alla concezione statica del razzismo biologico, sostenne una concezione dinamica dove «razze nuove possono formarsi, altre mutare o tramontare per effetto di fattori interni, spirituali». La razza si esprimeva, secondo Evola, come "qualità", "carattere", "disciplina" e "forma", insomma come "stile" di un tipo nuovo d'elite, la razza dell'uomo nuovo fascista.

  In questa concezione, come si inseriscono le leggi razziali, che lei definisce "oltre che immorali, una triste pagina nella storia d'Italia e nella storia del fascismo" (pag.101)?

  Le leggi razziali più che rispondere a esigenze di natura ideologica, furono il risultato di precisi eventi storici, connessi con la conquista dell'Etiopia e con l'avvicinamento politico-militare tra Germania e Italia. Già lo storico Renzo De Felice aveva fatto notare che la conquista dell'Etiopia impose la necessità, per il Governo fascista, di una politica di "separazione" con la comunità degli indigeni, per evitare l'abbassamento del prestigio del colonizzatore. Il duce infatti addebitava all'atteggiamento eccessivamente promiscuo delle truppe le rivolte scoppiate in molte zone d'Etiopia, indice di una perdita di prestigio da parte dei "colonizzatori". Mussolini accusava le truppe italiane di scarsa coscienza civilizzatrice, e nell'unico discorso pubblico dedicato al "problema razziale", precisò che esso era sorto «in relazione con la conquista dell'Impero, poiché la storia ci insegna che gli Imperi si conquistano con le armi, ma si tengono col prestigio». La guerra d'Etiopia, a sua volta, comportò la nascita dell'Asse Roma-Berlino, e lo stretto avvicinamento tra i due Paesi fu la causa della politica antisemita. Mussolini sacrificò cinicamente la minoranza ebraica presente in Italia, che pure si era ben integrata nel tessuto comunitario, per rendere più granitica e "totalitaria" l'alleanza con la Germania, ed «eliminare il più stridente contrasto nella politica dei due regimi» (De Felice). Ci sono poi altri motivi che spinsero Mussolini verso una temporanea discriminazione degli ebrei: (1) l'atteggiamento ostile delle organizzazioni ebraiche in occasione della guerra d'Etiopia e di Spagna e (2) la lotta contro lo «spirito» e la «mentalità» borghese, ben radicati nella cultura ebraica, e giudicati incompatibili con lo spirito dell'«italiano nuovo» creato dal fascismo. I fascisti denunciarono il settarismo di quegli ebrei che a loro avviso rifiutavano di conformarsi alla nuova morale instillata dallo Stato totalitario, ed esentarono dalla discriminazione l'ebreo patriota, l'ebreo fascista, l'«ebreo benemerito» agli occhi dello Stato. Gli altri invece furono "separati" dalla comunità nazionale e inseriti in una comunità a sé stante, con propri istituti e organismi.

  Lei scrive che l'ideologia fascista "non può in alcun modo essere riconducibile a gruppi, movimenti o partiti cosiddetti "neofascisti" sorti dopo la fine della seconda guerra mondiale" (pag.148). Come interpreta la lettura che tali movimenti hanno dato del Fascismo?

  C'è stata una varietà di neofascismi, i quali hanno avuto in comune la convinzione che, nel suo complesso, il fascismo sia stato un fenomeno positivo nella storia italiana, ma ciascuno ha poi scelto di richiamarsi a un momento, una fase, un aspetto ideologico e mitologico del fascismo, criticando o ignorando gli altri. Generale è stata, presso il neofascismo, la "defascistizzazione retroattiva del fascismo", negando la sua essenza totalitaria, scegliendo di richiamarsi spesso a figure che nel fascismo storico furono marginali, oppure a figure del nazionalismo europeo, tutte molto romanticizzate. Questi movimenti hanno scelto di non fondare la propria azione politica sul pensiero di Mussolini e Gentile, perché considerato anacronistico, e di accogliere nel proprio alveo le idee più disparate: tradizionalisti, occultisti, socialisti nazionali etc.. Tali gruppi si sono inseriti nelle logiche partitocratiche dei sistemi "borghesi democratici", e tendono a promuovere le forme più materialiste di "identità politica", basata sull'identità razziale o etnica. Non è possibile ritrovare in questi movimenti quello spirito mistico e ideale, unito alla consapevolezza dottrinaria, che animava il fascismo di Mussolini.

  Nel libro viene spesso citata l'opera di Sergio Panunzio, Teoria generale dello Stato fascista...

  Sergio Panunzio è stato uno dei più autorevoli teorici dell'ideologia fascista. La sua Teoria generale dello Stato fascista racchiude parte degli argomenti da lui trattati nel corso di Dottrina dello Stato, che dal 1928 tenne nella Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Roma. L'importanza del testo risiede proprio nel suo scopo, che non era quello di presentare una descrizione ed esposizione degli istituti dello Stato fascista, ma secondo le stesse parole di Panunzio «un libro di principi e di determinazione critica dei principi, dai quali poi gli istituti, tutti gli istituti, discendono ed ai quali essi si appoggiano». Tutti questi principi si riassumono nel concetto di «statocrazia», perno essenziale della teoria del nuovo ordinamento fascista. Inoltre, la teoria generale dello Stato fascista formulata da Panunzio, passa in rassegna lo studio di altre distinte teorie: la teoria generale del Sindacato, la teoria generale della Corporazione e la teoria generale del Partito. Questa analisi eclettica sui principi fondamentali del fascismo, rende l'opera di Panunzio un testo fondamentale per gli studiosi della materia. Un altro degli aspetti che la rendono interessante è il «confronto e la contrapposizione metodica fra il Fascismo e il bolscevismo, tra lo Stato fascista e quello sovietico», raffronto molto utile per comprendere la differenza tra i due diversi regimi totalitari.

  Che rilievo ha avuto, nell'elaborazione della sua sintesi storica, il metodo ermeneutico rinvenibile negli studi del prof. A. James Gregor?

  Nel tentativo di sintetizzare il pensiero politico fascista, mi sono basato sullo studio dei documenti ideologici principali prodotti dal fascismo. È mia convinzione che non si può comprendere un fenomeno storico o politico, senza partire dalla definizione che quel fenomeno volle dare di se stesso. La mia interpretazione è stata minima, cercando sempre di dare voce in capitolo all'oggettività dei documenti storici e alle memorie dei teorici che parteciparono entusiasticamente alla costruzione del nuovo Stato. Gli studi del prof. James Gregor – e la metodologia da lui adoperata – hanno esercitato una notevole influenza nelle mie analisi. Il prof. Gregor rappresenta per me un «maestro» e un importante punto di riferimento per il prosieguo delle ricerche in cui mi sono incamminato.

 

1 luglio 2015

Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA