Amor fati. Intervista con Marcello Veneziani Stampa E-mail

Amor fati. Intervista con Marcello Veneziani

a cura di Francesco Algisi

 

veneziani_amor.jpg  Marcello Veneziani, laureato in filosofia, editorialista di diversi quotidiani, ha fondato e diretto settimanali, riviste, case editrici, e curato opere di filosofia, storia e cultura politica. È autore di vari saggi, tra i quali: Processo all'Occidente (1990), Sul destino (1992), La rivoluzione conservatrice in Italia (1994), L'anti900 (1996), Il secolo sterminato (1998), Comunitari o liberal (1999), Vita natural durante (2001), Di padre in figlio (2001), La cultura della destra (2002), La sconfitta delle idee (2003), La sposa invisibile (2006) e, per Mondadori, Il segreto del viandante (2003), I vinti (2004), Contro i barbari (2006), Rovesciare il 68 (2007) e Sud (2008). Il suo ultimo libro s’intitola Amor fati. La vita tra caso e destino (Mondadori, pagg.256, €18.00).

  Dottor Veneziani, lei scrive che Amor fati è un libro che “può predisporre al cristianesimo”. Che cosa significa?

  Significa che Amor fati è una riflessione tesa a riscoprire il senso del sacro, il legame religioso e un disegno intelligente di vita. Ovvero crea le precondizioni per avvicinarsi al cristianesimo. Ma trattandosi di un libro filosofico e non teologico, si ferma volutamente ai temi penultimi senza arrivare al tema ultimo, Dio, che pure è presente nel testo.

  L’Amor fati può, dunque, preludere all’Amor Dei, cioè alla fiduciosa accettazione del volere di Dio?

  Se qualcuno si arrischia a dare un volto al Destino e sale l'ultimo gradino, assistito dalla fede, può certamente identificare l'Amor fati nell'Amor Dei senza che il cammino ne abbia a soffrire.

  Perché le società come la nostra “rimuovono la morte e l’occultano”?

  Perché la nostra vita è fondata sulla rimozione della morte, l'inavvertenza della fine, la finzione che siamo autocreati e non destinati a urtare contro il nostro limite. È la viltà ma anche la follia del nostro tempo, che preferisce occultare o aggirare la morte anziché vederla in faccia.

  Non crede che l’ansia del futuro (l’”angoscia di non padroneggiare il nostro futuro” come scrive a pagina 34) sia dovuta anche all’esasperato radicamento nella dimensione terrena e mondana, senza volgere il pensiero alle “cose del Cielo” (per usare un’espressione ricorrente nelle vite dei Santi)?

  Temo che l'ansia del futuro non sorga da un'attenzione verso la nostra destinazione, una forma di concentrazione preoccupata sul dover essere e sul progetto di vita, ma sia solo la rivelazione del terrore di sparire, di uscire dal gioco, di perdersi nel nulla. E questo dipende dall'esaurire il proprio orizzonte di vita nello spazio terreno e temporale alla ricerca di un assoluto terrestre e di un'onnipotenza precaria che sono contraddizioni in termini.

  Lei non considera “provvidenziale” il passaggio dall’ateismo comunista all’ateismo pratico della globalizzazione. Se la sente di dire che il secondo è ancor più pericoloso del primo?

  Meno cruento ma più insidioso, meno efferato e liberticida ma intimamente più nichilista e più sradicante. Ecco perché non ritengo provvidenziale il passaggio dall’ateismo comunista all'ateismo pratico della globalizzazione. E basta vedere la sorte dei popoli dell'est per rendersene conto.

  Che relazione sussiste tra l’Amor fati e l’homo faber fortunae suae?

  L'Amor fati non esclude la libertà di volere e la responsabilità umana ma considera che la fortuna di un uomo dipenda, come dice Machiavelli, metà da lui e metà dalla sorte medesima.

  E tra l’Amor fati e il determinismo?

  L'Amor fati non è rassegnazione ad un destino predeterminato ma implica l'accettazione dell'accaduto ma solo quando è accaduto, l'accoglienza di quel che ci è dato in origine, e la concezione che l'uomo diventa ciò che è.

  A pagina 9 di Amor fati si legge: “Tutte le rivoluzioni della modernità hanno sognato la liberazione dalla croce”. Ciò vale anche per le rivoluzioni nazionali della prima metà del Novecento?

  Le rivoluzioni nazionali si situano in un altro orizzonte in cui la tensione storica, l'aspettativa del futuro, coabita con la riscoperta del fondo originario di una nazione, di un'identità, di una radice. Si possono deplorare le implicazioni autoritarie e bellicose delle rivoluzioni nazionali, il sogno moderno della volontà di potenza applicato alle nazioni, l'orizzonte storicistico in cui si situano, ma non si può dire che nascano direttamente sul sogno di liberarsi dalla croce.

  Lei scrive che “[…] c’è qualcosa di cristiano nella sua [del genio di Nietzsche, ndr] rinuncia alla protezione della provvidenza, una nobile santità che carica su di sé la croce della vita”. Più avanti, però, aggiunge: “Perfetta è la corrispondenza fra l’accettazione amorosa del destino in Nietzsche e la cristiana remissione ai decreti della divina provvidenza”. Come si conciliano queste due affermazioni?

  Le due affermazioni non si conciliano ma restano irrisolte nella tragica sorte di Nietzsche, sono come i legni che mettono in croce Nietzsche. C'è in Nietzsche un fondo cristiano che ha una derivazione genetica, famigliare, ma anche un'indole culturalmente motivata. L'Amor fati ha qualcosa del Fiat voluntas dei, dell'accettazione cristiana della provvidenza. Ma in Nietzsche coabita tragicamente, cioè senza trovare un punto di incontro, anche la santificazione inversa, di una vita che rinuncia alla materna accoglienza della provvidenza, alla sua tutela e al suo caldo grembo, e accetta il martirio della testimonianza. È questa forse l'unica forma di santità consentita nell'epoca della morte di Dio e del compimento del nichilismo.

8 aprile 2010

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