Realismo politico e geopolitica in Zbigniew Brzezinski. Intervista con Alessio Stilo Stampa E-mail

Realismo politico e geopolitica in Zbigniew Brzezinski

Intervista con Alessio Stilo

a cura di Francesco Algisi

 

campi realismo  Alessio Stilo, laureato in Scienze Politiche, è dottorando di ricerca in Studi Storici, Geografici e Antropologici presso l'Università di Padova. Giornalista pubblicista, dal 2013 è ricercatore associato dell'Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) nell'ambito del programma di ricerca "Teoria e storia della Geopolitica". Autore di diversi contributi scientifici, analisi geopolitiche e articoli giornalistici di politica estera, ha scritto il saggio intitolato Realismo politico e geopolitica in Zbigniew Brzezinski, pubblicato nel volume Il realismo politico (Rubbettino, 2014). Cura il blog "Geo-Polis".

  Dott. Stilo, perché Zbigniew Brzezinski è un realista "anomalo" (pag.314)?

  Anomalo poiché, pur adottando un approccio alla politica internazionale che consente di ricondurlo ai (neo)realisti classici, soprattutto Nicholas Spykman, egli enfatizza costantemente la portata universale della liberal-democrazia occidentale.

  Nel pensiero di Brzezinski sono ravvisabili anche tracce della teoria "idealista"?

  Più che di teoria idealista, l'impianto teorico di Brzezinski risente dell'influenza di una parte degli istituzionalisti liberali laddove auspica un sistema ad interdipendenza complessa entro il quale si trova ad agire l'attore egemone (gli Stati Uniti).

  Quali differenze sussistono tra il "realismo" di Brzezinski e quello di Kissinger (cfr. pag.297)?

  Come estrinsecato nel saggio, esistono diverse analogie ma altrettante difformità tra il "realismo" di Brzezinski e quello di Kissinger. Innanzitutto la mutata contingenza storica: Kissinger si ritrova ad agire in contrasto con la pluridecennale prevalenza dell'approccio liberal alla politica internazionale, mentre Brzezinski eredita una più consolidata realpolitik dalle amministrazioni Nixon e Ford. In secondo luogo esiste una differenza teorica di fondo che conduce i due personaggi a conclusioni strategiche divergenti. Kissinger predilige un approccio "europeo" alla realpolitik, ispirato soprattutto alla diplomazia di Metternich, che lo spingerà ad operare per dividere il mondo comunista in funzione anti-sovietica, attraverso il ristabilimento di relazioni diplomatiche con la Cina, con l'obiettivo strategico di gestire il bipolarismo e "cristallizzarlo", favorendo la coesistenza. Brzezinski invece fa proprio l'armamentario ideologico dei liberal americani per esortare il decisore a intraprendere ogni misura necessaria a contenere l'URSS con il fine teleologico di provocare la dissoluzione progressiva dell'impero sovietico.

  Lei scrive che, negli anni della Guerra fredda, il pensiero di Brzezinski era caratterizzato dall'"ostilità al comunismo sovietico" (pag.298); più avanti (pag.308), però, aggiunge che "è la Russia post-sovietica di Putin a rimanere il rivale geopolitico prediletto da Brzezinski". Insomma, indipendentemente dalla forma di governo vigente a Mosca, la Russia è fonte di costante preoccupazione per Brzezinski. È lecito quindi definirlo un "russofobo"? E tale "russofobia" può trovare una spiegazione nell'origine polacca del personaggio (cfr. pag.298)?

  È possibile definirlo "russofobo" nella misura in cui si consideri la "russofobia" come un postulato derivante da elaborazioni di carattere strategico. Così come per la geopolitica classica, soprattutto anglosassone, Brzezinski osteggia una Russia dalla vocazione imperiale, qualunque sia il regime politico vigente a Mosca, poiché ne ravvisa le potenzialità affinché essa unifichi l'Eurasia sotto un unico blocco – o un'alleanza tra potenze – con il rischio di minacciare la proiezione della potenza statunitense nell'Eurasia. L'origine polacca del personaggio può senz'altro fungere da ausilio interpretativo per capire l'evoluzione del pensiero politico e l'adozione di una certa posizione nei confronti di Mosca, tuttavia Brzezinski articola una serie di considerazioni strategiche di lungo termine per avallare le venature anti-russe delle sue tesi.

  Potrebbe riassumere brevemente queste considerazioni strategiche?

  Già a partire dagli anni '60 Brzezinski riteneva che gli Stati Uniti non avevano espresso una politica estera "realista ed effettiva" nei confronti dell'Europa dell'Est: Washington avrebbe dovuto adoperarsi per una sorta di "impegno pacifico" nell'Europa orientale teso a stimolare l'ulteriore tendenza centrifuga negli Stati comunisti. Questa tesi puntava a proporre un modello confederale per l'impero russo-sovietico ormai in fase di disgregazione, il quale avrebbe "reciso la connessione mistica tra la Russia come stato-nazione e la Russia come entità imperiale, [...] demitologizzando il nazionalismo grande-russo". Brzezinski avvertiva il crescente secessionismo di matrice nazionalista nelle repubbliche sovietiche ed esortava l'Occidente a "incoraggiare e sostenere» tali istanze attraverso iniziative economiche, scambi accademici e contatti diplomatici". In sostanza, adottando un'impostazione classica, Brzezinski ripercorre le prescrizioni spykmaniane per proporre una "geostrategia per l'Eurasia" orientata a impedire l'unificazione di Heartland e Rimland sotto uno stesso potere. Questa eventualità potrebbe portare a un blocco dei commerci, causato dall'autosufficienza dall'Heartland, con il risultato che gli Stati Uniti sarebbero circondati dall'Eurasia e limitati all'emisfero occidentale, cioè alle due Americhe. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale sino agli anni '80 l'unica potenza eurasiatica in grado – per risorse, influenza politica e potenziale militare – di unificare Heartland e Rimland era la Russia sovietica.

  Quali affinità ci sono tra il pensiero di Brzezinski e la "prassi metodologica non-violenta formulata da Gene Sharp" (pag.299)?

  Sebbene non sia possibile attribuire un rapporto di causa-effetto tra il pensiero di Brzezinski e la tattica teorizzata da Gene Sharp, è altrettanto possibile attestare una sorta di "funzionalità" tra la prassi metodologica ispirata da Sharp, le "rivoluzioni colorate" avvenute nello spazio post-sovietico (Ucraina, Georgia, Kirghizistan) e nella Jugoslavia post-Tito e la pubblicistica di Brzezinski, il quale nel 1961 sulla rivista Foreign Affairs esortava a intraprendere una serie di azioni "pacifiche" (peaceful engagement) volte a sottrarre all'URSS gli stati satelliti dell'Europa orientale. Non è un mistero che gran parte dei movimenti democratici nei paesi in questione siano stati sostenuti, anche economicamente, da agenzie governative riconducibili ai due grandi partiti statunitensi.

  In che modo è cambiata la "produzione brzezinskiana" a partire dalla "fine degli anni '90" (pag.303)?

  Complessivamente non è mutato l'impianto teorico, semmai esso è stato applicato al sistema internazionale post-bipolare. Il Brzezinski sovietologo sembra trarre spunti dalla geopolitica classica e dall'esperienza fattuale che lo induce a elaborare una serie di precetti di carattere strategico volti a preservare l'egemonia statunitense sotto il profilo politico, economico, militare e culturale. Nel 1998 esce The Grand Chessboard, la sua opera più nota, la quale riecheggia gli assunti di Mackinder e Spykman e li ibrida con talune osservazioni delle scienze strategiche. Anche nelle successive opere, incluse quelle pubblicate dopo l'11 settembre 2001 e durante la fase post-unipolare, l'intento di Brzezinski sembra essere quello di elaborare una Grand Strategy per assicurare agli Stati Uniti una continuità politica attraverso l'influenza o il controllo – diretto o indiretto – sulla periferia della massa continentale eurasiatica.

  L'"enfasi universalista posta sulla dimensione valoriale della democrazia" (pag.298) avvicina Brzezinski ai neoconservatori?

  Lo avvicina solo nella misura in cui condivide l'assunto concernente l'universalità della democrazia liberale. Del resto è ormai noto come i primi esponenti del movimento neocon provenissero da culture politiche di natura liberal, se non addirittura socialista o trotzkista (James Burnham e Max Shachtman). Ciò nondimeno, Brzezinski diverge con l'enfasi messianica della dottrina dei neoconservatori e con buona parte delle tattiche che questi hanno adottato in politica estera (esportazione permanente della democrazia, questione iraniana, appoggio incondizionato a Israele) durante le amministrazioni di Bush sr. e Bush jr.

  Lei spiega che la geopolitica di Mackinder e Spykman "presuppone una base di determinismo geografico-ambientale esulante da considerazioni di carattere etico-prescrittivo" (pag.298)...

  La geopolitica classica attribuisce alle caratteristiche fisiche e demografiche di uno Stato, nonché al suo posizionamento nello spazio fisico, la capacità di predeterminare le sue possibilità successive di sviluppo, espansione e successo. In sostanza, secondo questa visione organicista e spesso darwiniana della comunità politica, la posizione geografica assume un rilievo assoluto nel determinare – in maniera univoca – la politica estera di uno Stato. Siffatta concezione esula da ogni componente di tipo volontaristico o da valutazioni etiche nell'elaborazione della politica estera.

  Come dovrebbe concretamente esercitarsi l'"influenza decisiva" dell'egemonia americana nel mondo (pag.311) auspicata da Brzezinski?

  Nell'accezione brzezinskiana l'influenza decisiva contrasta con il controllo diretto, tipico dei grandi imperi del passato. Affinché si crei, nel lungo periodo, un sistema di alleanze internazionali basato su un'effettiva condivisione di responsabilità politiche, gli Stati Uniti dovrebbero salvaguardare il pluralismo geopolitico dell'Eurasia esistente sulla cartina geografica. Da qui la necessità di attuare manovre e contromanovre per sventare la composizione di coalizioni ostili che potrebbero tentare di rimettere in discussione il primato americano, per non parlare dell'eventualità che un qualche singolo Stato possa riuscire in questo intento. In siffatta congettura è evidente l'influenza di Mackinder e del pensiero realista: l'unica possibilità per la potenza marittima di perpetuare il controllo sulla massa eurasiatica – quindi il dominio mondiale – è l'applicazione dell'eterno principio del divide et impera nella sua coniugazione realista dell'equilibrio di potenza nel continente eurasiatico.

  Come può essere definita la "democrazia egemonica" (pag.312), "sintagma coniato dallo stesso Brzezinski, dalla valenza quasi ossimorica"?

  Per utilizzare il frasario dello stesso autore, il sintagma "democrazia egemonica" delineerebbe una sorta di comunità mondiale di interessi comuni dove gli Stati Uniti eserciterebbero un controllo indiretto, a condizione che le amministrazioni a stelle e strisce riescano a far comprendere l'interrelazione tra la sicurezza nazionale americana e quella mondiale. Secondo Brzezinski, un simile sistema consentirebbe agli USA di perpetuare il loro ruolo di "catalizzatore della comunità mondiale", magari trasformando gradualmente il loro potere dominante in "un'egemonia cooptativa, all'interno della quale la leadership sia esercitata più attraverso convinzioni condivise con alleati duraturi che facendo ricorso a un dominio autoritario", e incoraggiando un sistema di sicurezza transcontinentale tra i maggiori attori geostrategici.

  Brzezinski – si legge a pag.306 – "può essere ritenuto l'allievo principale e il più fedele continuatore delle tesi" di Nicholas J. Spykman. Nella teoria geopolitica brzezinskiana, tuttavia, sono presenti anche tracce del pensiero di Mackinder. Come si fondono le due tesi in Brzezinski?

  Brzezinski parte dalla concezione di Mackinder in merito all'antagonismo tra potenze marittime e terrestri per ribaltarlo secondo l'analisi effettuata da Spykman. Quest'ultimo aveva concepito l'importanza di sommare – all'orientamento analitico e conoscitivo della geopolitica – l'aspetto prescrittivo utile alla formulazione di una politica estera di ampio respiro, contribuendo così al passaggio concettuale della politica estera americana dall'isolazionismo all'internazionalismo. Brzezinski mantiene concettualmente il ribaltamento operato da Spykman rispetto all'impianto mackinderiano (centralità del Rimland invece che dell'Heartland): l'obiettivo di chi teme l'egemonia continentale (gli Stati Uniti) è evitare l'unificazione della massa eurasiatica, visto che l'emisfero occidentale non potrebbe resistere alle pressioni esercitate dal blocco orientale qualora quest'ultimo fosse egemonizzato da una singola potenza (la Germania nazista nel caso di Spykman, la Russia sovietica per Brzezinski).

  Henry Kissinger ha scritto recentemente che, in Iran, "Per ironia della storia, l'ascesa al potere degli ayatollah fu propiziata nelle ultime fasi dalla dissociazione dell'America dal regime precedente, nell'erronea convinzione che il mutamento incombente avrebbe accelerato l'avvento della democrazia e rafforzato i legami tra Stati Uniti e Iran" (cfr. Ordine mondiale, Mondadori, 2015, pag.158). Vi si può leggere tra le righe una critica a Brzezinski, che nel 1979, in qualità di consigliere per la Sicurezza nazionale di Carter, teorizzò il sostegno all'Islam in funzione antisovietica? Potrebbe essere stato Brzezinski a favorire la "dissociazione dell'America dal regime" dello Scià in Iran?

  Nel dicembre 1978 Brzezinski, Consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Carter, intravedeva "un arco di crisi" che si estende dalle coste dell'Oceano Indiano, suscettibile di provocare un caos politico potenzialmente ostile agli interessi americani nella regione. Un funzionario del Dipartimento di Stato, Henry Precht, riporta come fosse di Brzezinski l'idea di impiegare, all'interno del suddetto arco di crisi, le forze islamiste in funzione anti-sovietica. Una simile idea riecheggiava la proposta di Bernard Lewis, studioso britannico di Islam e coniatore del sintagma "scontro di civiltà", di balcanizzare l'intero Vicino Oriente islamico secondo linee tribali e religiose allo scopo di fomentare il caos lungo un arco di crisi che avrebbe dovuto destabilizzare le regioni sovietiche a maggioranza islamica. I disordini sociali riguardavano anche l'Iran dello Scià, riportato sul trono dal colpo di stato orchestrato dalla CIA nel 1953. Nel novembre 1978 Carter aveva nominato George Ball a capo di una task force speciale della Casa Bianca sull'Iran, sotto la supervisione di Brzezinski. Ball suggeriva alla Casa Bianca di ritirare il sostegno allo Scià e appoggiare l'opposizione islamista capeggiata dall'ayatollah Khomeini. È anche noto come, dopo la presa del potere da parte di Khomeini, Brzezinski avesse tentato di riportare il nuovo governo iraniano sotto l'influenza statunitense ma i suoi sforzi sarebbero stati resi vani dalla crisi degli ostaggi nel novembre 1979.
 
  A proposito della vicenda degli ostaggi, Alberto Negri, sul Sole-24 Ore del 21 giugno 2015, ha riportato la testimonianza di Ibrahim Yazdi, allora ministro degli Esteri iraniano, secondo cui Khomeini, "quando seppe che un gruppo di studenti aveva occupata l'ambasciata Usa", reagì esclamando: "Dategli un calcione e mandateli a casa". "Tutto poteva finire lì – continua Negri – ma l'ayatollah che aveva innescato la rivoluzione contro lo Shah, vide in tv una folla enorme e si accorse che avrebbe potuto sfruttare questa mobilitazione per rafforzare il suo potere"...

  Come avviene in qualunque transizione politica, ad un certo punto le forze meglio organizzate sul terreno (non necessariamente eterodirette) prevalgono su altre forze – meno organizzate – che hanno contribuito a innescare il mutamento. L'Egitto post-Mubarak riassume perfettamente questo paradigma. Nel caso iraniano vi sono ancora alcuni punti poco chiari. Peraltro la rivolta contro lo Scià coinvolse inizialmente gruppi di diversa estrazione politico-culturale.

  Come si pone Brzezinski nei confronti dell'Iran attuale?

  Brzezinski è da sempre sostenitore del mantenimento di buoni rapporti con l'Iran. Da realista, egli è conscio dell'importanza strategica di Tehran come potenziale competitore della Russia nello spazio iranofono centrasiatico e nel mercato energetico europeo. Di conseguenza, egli si colloca tra la schiera di coloro i quali auspicano il raggiungimento di un accordo con lo Stato persiano sulla questione nucleare, prodromico di un pieno reinserimento iraniano nel sistema internazionale nonché del riconoscimento del suo status di potenza regionale. Brzezinski è altresì noto per le sue critiche in merito all'influenza delle lobby ebraiche, soprattutto quelle conservatrici, sui circoli della politica estera americana, portatrici – secondo la sua ottica – di interessi divergenti da quelli statunitensi.

  Qual è l'influenza esercitata da Brzezinski sulla politica estera di Barack Obama?

  A prescindere da incarichi istituzionali, l'ascendenza di Brzezinski sulla politica estera di Obama è riscontrabile in almeno due quadranti: l'accordo con l'Iran e la crisi ucraina. Come anticipato in precedenza, Brzezinski è uno dei maggiori fautori del "reinserimento" iraniano nel sistema internazionale. Riguardo la seconda questione, già nel suo The Grand Chessboard lo stratega di origini polacche riteneva l'Ucraina "un cardine geopolitico" che, qualora sfuggisse al controllo di Mosca, sancirebbe la perdita russa di ogni aspirazione a un rinnovato ruolo da potenza globale e imperiale. Il suo appoggio ai manifestanti ucraini filo-occidentali, unitamente alla proposta di armare Kiev e i Paesi baltici in funzione anti-russa, raffigurano esemplarmente come Brzezinski traduca sempre l'esegesi analitico-descrittiva con la prassi politica, elemento che ha caratterizzato tutta la sua esperienza da studioso e da politico.

 

27 giugno 2015

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