La resistenza tricolore. Intervista con Arrigo Petacco Stampa E-mail

La resistenza tricolore. Intervista con Arrigo Petacco

a cura di Francesco Algisi

petacco_resistenza  Arrigo Petacco (Castelnuovo Magra, La Spezia 1929), vive a Portovenere. Giornalista, inviato speciale, è stato direttore de «La Nazione» e di «Storia illustrata», ha sceneggiato alcuni film e realizzato numerosi programmi televisivi di successo. Nei suoi libri affronta i grandi misteri della storia, ribaltando spesso verità giudicate incontestabili. Fra gli altri ricordiamo, pubblicati da Mondadori: Dear Benito, caro Winston, I ragazzi del '44, La regina del Sud, Il Prefetto di ferro, La Signora della Vandea, La nostra guerra 1940-1945, Il comunista in camicia nera, L'archivio segreto di Mussolini, Regina, Il Superfascista, L'armata scomparsa, L'esodo, L'anarchico che venne dall'America, L'amante dell'imperatore, Joe Petrosino, L'armata nel deserto, Ammazzate quel fascista!, Il Cristo dell'Amiata, Faccetta Nera, L'uomo della Provvidenza, La Croce e la Mezzaluna, ¡Viva la muerte!, L'ultima crociata, La strana guerra e Il Regno del Nord.

  Insieme con Giancarlo Mazzucca, ha recentemente dato alle stampe La resistenza tricolore. La storia ignorata dei partigiani con le stellette (Mondadori, pagg.180, Euro 19,00), un volume in cui racconta la storia dei militari italiani che, dopo l’8 settembre 1943, restarono fedeli al re e combatterono contro i tedeschi al fianco degli anglo-americani.

  Quale fu il contributo offerto dalla “resistenza tricolore” alla vittoria degli alleati in Italia?

  Fu un contributo modesto, limitatissimo, come storicamente dimostrato. La guerra, d’altra parte, l’hanno vinta gli Alleati, non la resistenza. La resistenza ha dato una mano senza dubbio agli anglo-americani: e di questo gli Alleati le sono stati grati. Ha consentito all’Italia di riacquistare un po’ di onore perduto. Ma, ripeto, la guerra l’hanno vinta gli Alleati: questa è la cosa importante che spesso si dimentica.

  La provincia di Salerno, in occasione del 25 aprile scorso, ha pubblicato un manifesto per rendere omaggio ai “liberatori” anglo-americani, ignorando completamente il supposto ruolo svolto dai partigiani nella "guerra di liberazione”…

  Non so nulla di questo manifesto. Che cosa c’entra Salerno con la resistenza? Salerno è stata liberata dagli americani l’8 settembre del ‘43. Quindi, a Salerno non hanno partecipato alla resistenza. Non ho capito cosa possono dire. A Salerno sono sbarcati gli Alleati, hanno conquistato l’Italia del Sud senza l’aiuto della resistenza: su questo non c’è dubbio. La resistenza l’hanno incontrata dopo, quando hanno superato Montecassino e sono arrivati verso il nord. Nel ’44, la resistenza italiana, che era in montagna, ha collaborato con sabotaggi, etc.. Ma è stato, comunque, un aiuto marginale. Gli anglo-americani avrebbero vinto ugualmente la guerra senza di noi.

  Leggendo il suo libro, si evince che nella “resistenza tricolore” l’aspetto ideologico -  l’antifascismo - ebbe un ruolo trascurabile...

  Penso di sì. Intanto, cerchiamo di metterci d’accordo sul significato dell’espressione “resistenza tricolore“. All’interno della resistenza c’erano diverse correnti riconducibili ai vari partiti antifascisti. Il movimento comunista era numericamente più importante degli altri. Io chiamo “partigiani con le stellette” i soldati con la divisa dell’esercito italiano, con la bandiera italiana, che hanno combattuto con gli Alleati: si chiamavano Corpo di liberazione nazionale. Era un esercito nazionale italiano affiancato agli anglo-americani e prese parte alla campagna d’Italia. Li chiamo partigiani perché anch’essi combatterono contro i tedeschi; li definisco “resistenza tricolore” per distinguerli dalle bande comuniste che, in realtà, facevano la resistenza con il proposito di costruire in Italia una repubblica comunista.

  Dunque, per questi “partigiani con le stellette” determinante fu il giuramento prestato al re…

  Senza dubbio. Per lo meno, una difesa dell’onore e dei principi nazionali dell’Italia. Tanto è vero che portavano il tricolore e non il fazzoletto rosso al collo.

  Nel libro, non vengono menzionati quegli ufficiali che - come il generale Gioacchino Solinas -  difesero Roma contro i tedeschi nei giorni intorno all’8 settembre ‘43 e successivamente aderirono alla Repubblica Sociale Italiana.

  Purtroppo, l’8 settembre - quando di colpo, nel giro di 24 ore, ai soldati italiani venne detto che i nemici del giorno prima erano diventati alleati - per molti soldati fu un momento difficile, di grande confusione e di totale anarchia. Molti scelsero di andare al Nord soltanto perché ritenevano che fosse più giusto continuare a combattere al fianco dei tedeschi. Dopo cinquant’anni, è comodo giudicare chi fece bene e chi no. Ma, allora, era difficile fare una scelta. Molti hanno scelto Mussolini per una questione ideale. Erano ragazzi di 20 anni, che dovettero decidere sulla loro pelle: una scelta di cui,  negli anni successivi, hanno dovuto pagare il conto.

  Parlando della fuga del re e di Badoglio a Brindisi, a pagina 12 scrive che essa “fu saggia e forse anche eroica”. Più avanti, a pagine 84, dice però che fu una fuga “ignominiosa”…

  In realtà, fu una fuga ignominiosa perché quelli scapparono da Roma senza lasciare ordini ai loro soldati. Però, per analizzare queste vicende storiche bisogna rimettersi nel momento in cui sono accadute. Giudicare molti anni dopo è difficile. In quel momento, sono sicuro che il sovrano scappava e si vergognava di scappare; sperava di poter conservare a Brindisi la legalità e la legittimità del suo Stato: però nessuno glielo riconobbe. Io non penso che il re sia scappato perché era un vigliacco. Scappò da Roma perché sapeva che i tedeschi l’avrebbero arrestato e, forse, sperava di fare qualcosa di buono. È difficile entrare in quel momento lì e capire i sentimenti che animavano questi uomini in fuga dai tedeschi. È difficile…

  Non si capisce come una decisione possa essere, nello stesso tempo, “saggia”, “eroica” e “ignominiosa”…

  È un’osservazione giusta. Io dico, da un lato, che fu ignominiosa, perché scapparono vigliaccamente alle 5 del mattino abbandonando i loro soldati. Dall’altro lato, però, non credo che fuggissero solo per semplice vigliaccheria e per salvare la pelle. Scapparono perché speravano forse che, raggiungendo una zona libera, avrebbero potuto ricostituire un governo, come tra l’altro fecero.

  Riguardo all’eccidio di Cefalonia, lei ricorda che soltanto nel 1980 venne commemorato per la prima volta dal presidente della Repubblica Pertini…

  Finita la guerra in Italia, praticamente tutti partigiani non comunisti tornarono a casa e cercarono di ricostruirsi una vita. Il Partito comunista s’impadronì psicologicamente della resistenza, la trasformò in una resistenza tutta comunista (e non era vero) e da quel momento lì la storiografia italiana (di parte) valorizzò e ingigantì la partecipazione comunista alla resistenza e dimenticò tutti gli altri: per esempio Cefalonia, dove 9-10.000 soldati italiani combatterono contro i tedeschi e morirono [Massimo Filippini, figlio di uno dei comandanti caduti a Cefalonia, ha calcolato che i militari italiani morti in combattimento o per fucilazione furono 1647, ndr]. La più grande battaglia della resistenza italiana fu combattuta a Cefalonia: in nessun altro posto ci fu una battaglia così cruenta tra soldati italiani e tedeschi. Quei soldati furono massacrati dai tedeschi: di loro non si parlò, perché, non essendo comunisti, non potevano essere eroicizzati. Solo tanti anni dopo, grazie a Pertini e a Ciampi in particolare, quei ragazzi sono stati ricordati: hanno meritato molto di più loro di tanti partigiani che hanno combattuto nelle boscaglie del Nord. La rivalutazione è avvenuta tanti anni dopo, quando, caduto il muro, crollato il partito comunista, l’egemonia comunista sulla cultura finalmente è stata debellata. Giampaolo Pansa, trent’anni fa, non avrebbe scritto quel libro [Il sangue dei vinti, ndr]: non glielo avrebbero fatto scrivere, chiaro? Perché i comunisti, in qualche maniera, dominavano ancora la cultura italiana. In seguito, ha potuto scriverlo. E così è capito anche a me.

  Tornando all’eccidio di Cefalonia, non fu un po’ strano il comportamento del generale Gandin? La sua indecisione, la scelta di indire un referendum tra le truppe…

  Il generale Gandin, un uomo ammirevole, era un vecchio soldato addirittura decorato con la Croce di ferro tedesca. Aveva fatto il suo dovere di soldato fino a quel momento lì. A un certo punto, a lui che parlava il tedesco, venne detto che dal giorno dopo i tedeschi sarebbero stati i nostri nemici. Aveva la responsabilità di 11.000 uomini e cercò, in qualche modo, di trovare un accordo, un accomodamento, con i tedeschi. E per un po’ cercò di tenerseli buoni. Non voleva certo morire quest’uomo. Poi, quando i tedeschi mostrarono il loro volto feroce, chiese ai suoi soldati: “che cosa facciamo?”. E, per la prima volta nella storia dell’esercito italiano, promosse un referendum: i soldati, in maggioranza, scelsero di resistere e resistettero. Morirono tutti. Se si fossero arresi,  sarebbero stati deportati tutti in Germania e magari sarebbero morti di fame, ma non in combattimento.

  Brindisi, comunque, non mandò i rinforzi richiesti…

  Non dimentichiamo che gli anglo-americani conquistarono il nostro Paese. A Brindisi, c’era un piccolo governo italiano fuggiasco che voleva dare giustamente una mano ai soldati di Cefalonia. Però  agli anglo-americani non importava nulla dei nostri soldati e, quando alcune navi italiane partirono per aiutare i nostri soldati a Cefalonia, i generali britannici si indignarono e le fermarono: ormai comandavano loro. Fu una mascalzonata, lo so, ma era la guerra L’Italia si era arresa senza condizioni: questo è il punto che si dimentica. In quel momento, gli Alleati comandavano: il governo di Badoglio non poteva permettersi di prendere delle decisioni senza l’autorizzazione degli anglo-americani.

  Degna di nota è la figura dell’ammiraglio Carlo Bergamini…

  Sì. Comandante di una flotta, va a Roma l’8 settembre e nessuno gli dice niente. Quando torna a casa, scopre che l’Italia ha firmato l’armistizio con gli Alleati. Gli viene ordinato di consegnare le navi agli inglesi. E quest’uomo, nel giro di poche ore, ha dovuto prendere delle decisioni tremende. I suoi ufficiali proposero l’autoaffondamento, come si fece in altre occasioni. Non sappiamo che cosa avvenne sulla corazzata Roma, perché purtroppo morirono tutti. Ci fu chi voleva andare in Spagna, chi voleva affondare le navi, chi voleva combattere: fu un momento di grande confusione. Ci si deve mettere nei panni di un ammiraglio che fino al giorno prima aveva combattuto al fianco dei tedeschi e dopo riceve l’ordine di andare con la sua squadra a consegnarsi agli Alleati: era una cosa disonorevole. Tutto ciò fu un dramma umano per tutti quegli ufficiali..

  Lei scrive che Bergamini avrebbe preferito portare le navi in porti neutrali…

  È una mia supposizione, perché Bergamini è morto senza rivelare il suo ultimo pensiero.

  Quindi, presume che la sua intenzione fosse quella…

  Prima di partire pensavano di portare le navi alle Baleari, perché la Spagna era neutrale. Poi, arrivarono i primi aerei tedeschi: Bergamini ordinò di non sparare, perché aveva ricevuto l’ordine dal governo di reagire solo in caso di attacco. Quando i tedeschi attaccarono, egli rispose. Ma ormai era troppo tardi.

  Un capitolo del libro è dedicato gli internati militari italiani nei campi di lavoro tedesco. Il governo fascista repubblicano e lo stesso Mussolini si preoccuparono della loro sorte…

  È vero. Mussolini era umanamente tormentato da questi suoi 600.000 soldati finiti nei campi di concentramento. In fondo, se ne sentiva un po’ responsabile. Egli avrebbe voluto che aderissero alla Repubblica Sociale. Però quelli rifiutarono e quindi furono dei resistenti coraggiosi: nei campi di concentramento, su 600.000 prigionieri solo 10 000 aderirono alla RSI; gli altri rimasero a marcire nei lager. Quindi, da questo punto di vista, il Duce era rimasto deluso; ma, da un altro, cercò comunque di aiutarli e pretese da Hitler un trattamento particolare, ottenendo per loro la qualifica di IMI, internati militari italiani. Essi, a differenza degli inglesi, dei francesi e degli americani, non erano prigionieri di guerra e, dunque, rischiavano di subire il trattamento che i tedeschi riservavano ai russi e ai polacchi, i quali non erano trattati secondo la Convenzione di Ginevra. La qualifica di “internati militari italiani” fu una via di mezzo che permise praticamente agli italiani di avere una sorte diversa di quella che ebbero i polacchi e i russi.

  Lei dice che soltanto 10.000 prigionieri su 600.000 scelsero di aderire alla RSI. Non crede che molti, di fronte alla prospettiva di tornare a combattere (perché l’adesione alla Repubblica Sociale avrebbe comportato questo…), abbiano preferito restare nei campi di lavoro?

  Senza dubbio. Sono d’accordo. Quei soldati ormai sapevano che la guerra era perduta: la volontà di sopravvivere ebbe la sua influenza. Non erano degli eroi, erano degli uomini normali. Tutto sommato, furono dei resistenti che evidentemente scelsero il male minore.

  Come giudica il fatto che il 7 settembre, quando ormai la resa incondizionata era stata firmata, Badoglio confermò all’ambasciatore tedesco che l’Italia avrebbe continuato a combattere al fianco della Germania?

  In questi casi, che cosa si fa? Si dice “guarda che domani ti tradisco”? Erano uomini  normali come tutti. Se uno ha deciso di pugnalare il suo nemico, il giorno prima dovrebbe avvertirlo?

  L’armistizio era stato firmato da diversi giorni…

  È vero. Ma, d’altra parte, dovevano fingere assolutamente fino in fondo. Il nostro fu un tradimento nei confronti dei tedeschi, ma non dimentichiamo che i tedeschi erano pronti a tradire noi. L’estate del 1943 fu la stagione degli inganni. I tedeschi inviarono le divisioni con la scusa di respingere gli anglo-americani che erano sbarcati in Sicilia; in realtà, le mandarono perché si aspettavano da un momento all’altro che noi ci arrendessimo, per essere pronti a fregarci. E gli italiani facevano finta di crederci: era il gioco degli inganni di quell’estate maledetta. Quindi, la parola d’onore non contava più, perché, come ho detto prima, se tu hai deciso di uccidere domani il tuo avversario, il giorno prima mica glielo dici.

28 aprile 2010

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