Padre Benjamin: «L’Iraq si trova in una situazione disastrosa» Stampa E-mail

Padre Benjamin: «L’Iraq si trova in una situazione disastrosa»

Intervista a cura di Francesco Algisi

 

benjamin_iraqipeople  Jean-Marie Benjamin, francese, in Italia da oltre trent'anni, è stato ordinato sacerdote nel 1991. Già funzionario Onu, è membro della "Société des gens de Lettres for Iraq" e segretario generale della Fondazione Beato Angelico. Nel 1999 è stato regista e autore del film per la Rai Padre Pio: la notte del profeta. Impegnato dal 1997 nella denuncia della tragica situazione del popolo iracheno, ha realizzato tre documentari: Iraq: Genesi del Tempo (1998), Iraq: viaggio nel regno proibito (1999) e Iraq: il dossier nascosto (2002). È inoltre autore dei volumi Jean Paul II, l'octobre romain (1981, premio Académie Française), Iraq: l'apocalisse (1999) e Obiettivo Iraq (2002).

  Padre Benjamin, dopo sette anni di occupazione americana, in che condizioni si trova l’Iraq?

  Si trova purtroppo in una situazione disastrosa dovuta a una guerra ingiusta e ingiustificata. Il mio pensiero va, prima di tutto, alle vittime irachene, delle quali non si parla quasi mai (un giorno, per esempio, c’è stato un attentato a Karbala con 170 morti e più di 500 feriti: l’inviato del Tg1 ha citato rapidamente il fatto, soffermandosi poi a lungo sulla notizia dell’apertura a Baghdad di una banca per sole donne). Nemmeno Obama che, in qualità di presidente del Paese occupante, qualcosa avrebbe dovuto dire (visto che parla sempre di diritti dell’uomo, democrazia, libertà, etc.), ha espresso parole di pietà per i morti iracheni. In Iraq, il numero delle vittime - non certo pari a 45.000, come ha sempre sostenuto il comando americano – ha superato il milione. The lancet, una nota rivista inglese di informazione medica, molto seria e seguita peraltro, ha stimato, grazie al lavoro di vari istituti d’inchiesta, una cifra di 660 mila vittime (uomini, donne e bambini). La British Polin Agency ha valutato il numero delle vittime, dal 2003 a oggi, pari a un milione e 150 mila. Penso che, facendo una media tra le varie cifre (comprese quelle dell’Università di Baltimora), si possa parlare di un milione di vittime.

  In questi giorni, il sito internet ‘Wikileaks’ ha pubblicato 400.000 documenti del Pentagono sull’Iraq. Secondo questi documenti il numero dei morti iracheni dall’inizio dell’occupazione non ammonterebbe più a 45.000, bensì a 109.000.

  Il numero è ancora molto lontano dalla verità. Mancano, tra le altre, le vittime di Falluja, sterminate con le armi di distruzioni di massa (armi al fosforo e altre). Alle vittime dell’occupazione, si devono aggiungere un milione 600mila morti provocati dall’embargo (quest’ultimo dato emerge dai rapporti ufficiali dell’Onu, dell’Unicef e di tutte le agenzie delle Nazioni Unite che hanno operato in Iraq dal 1991, cioè dall’inizio dell’embargo, fino all’invasione americana del marzo 2003,). Dal 1991 a oggi le vittime irachene sono più di due milioni e mezzo: un vero e proprio genocidio! 448 accademici, docenti universitari, i più eminenti scienziati, alcuni con conoscenze in ambito nucleare (l’elenco è pubblico e può essere consultato tramite internet), sono stati uccisi all’uscita dell’università o delle proprie abitazioni dagli squadroni della morte (i paramilitari del ministero dell’Interno iracheno), perché durante le lezioni avevano criticato l’occupazione americana o il governo fantoccio e avevano denunciato la radioattività dell’uranio impoverito. Il Paese è stato privato di queste intelligenze. Poi, oltre alle vittime c’è un Paese distrutto, in preda al caos; c’è il dramma dei cristiani, che fuggono dall’Iraq; c’è il problema della contaminazione radioattiva; c’è una corruzione dilagante. Questo è il primo triste bilancio della guerra all’Iraq.

  L’Iraq occupato dagli americani, insomma, è un Paese dove si parla molto di democrazia e si chiede alla gente di andare a votare. Nello stesso tempo, si mandano gli squadroni della morte a eliminare tutti coloro che non sono d’accordo con la politica del governo o degli occupanti…

  Gli americani, in tutti questi anni, hanno pensato soprattutto a proteggersi, mentre il governo fantoccio iracheno è riuscito a controllare soltanto una parte di Baghdad: il resto del Paese è rimasto completamente privo di controllo militare, sociale, politico. I signori Bush e Blair, dopo aver raccontato un numero infinito di bugie sulle armi di distruzione di massa e aver massacrato la povera gente irachena, vivono tranquilli e indisturbati. Nessuno ha attivato una procedura per incriminare questi criminali e portarli davanti a un tribunale internazionale. Ci sto provando io, nel mio piccolo, d’intesa con gli avvocati di Tareq Aziz: stiamo cercando di sensibilizzare un giudice che possa fare appello alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja (o a un’altra Corte) per processare quei Capi di Stato e di governo che si sono messi sulla coscienza la morte di milioni di iracheni e di 4420 militari americani, poveri ragazzi per la maggior parte di età compresa tra i 19 e i 24 anni, che sono andati a farsi ammazzare in Iraq.

  Sono reali le cifre dei caduti americani?

  Solo per quanto riguarda i militari provvisti della cittadinanza americana. Non sono stati contati i militari con cittadinanze straniere, i quali sono stati arruolati con la promessa di ottenere la “carta verde” (il permesso di soggiorno) o la cittadinanza al ritorno dall’Iraq.

  Poi non sono stati considerati i militari morti negli ospedali militari (in Germania, per es.) in seguito alle ferite riportate in Iraq. Non si conosce nemmeno il numero dei mutilati oltre che dei caduti fra i cosiddetti “contractors”.

  Si continua a ingannare l’opinione pubblica, non parlando mai delle vittime della guerra e dell’occupazione. Questa manipolazione delle coscienze è assolutamente inaccettabile.

  Washington ha proclamato il ritiro delle proprie truppe dall’Iraq. Fin da prima dell’invasione del 2003, tuttavia, gli Usa avevano l’obiettivo di insediarsi sul territorio iracheno mediante basi militari permanenti.

  Questo era nei piani già da prima dell’11 settembre. Cercavano un pretesto per scatenare la guerra contro l’Iraq per ragioni soprattutto strategiche. Mentre cercavano sul territorio iracheno le armi di distruzione di massa, che non esistevano, l’Iran costruiva le centrali atomiche. È ovvio, quindi, che manterranno sempre una presenza militare (almeno 50.000 uomini) in Iraq. Anche perché la regione è in fermento.

  Nella Turchia “alleata”, ultimamente lo scenario è cambiato…

  Alla base del problema turco ci sono i curdi del Pkk. Ma soprattutto c’è Israele, che ha costruito basi militari aeree nel Kurdistan iracheno per poter avere facilità di intervento contro l’Iran. Gli israeliani appoggiano e finanziano i curdi (anche perché sono interessati al petrolio iracheno). Questo fatto ha molto irritato il governo di Ankara, che si vede messo in difficoltà sul piano strategico. Gli americani, con tutti i loro esperti, si sono rivelati veramente ingenui: con l’occupazione dell’Iraq, hanno consegnato di fatto il Paese nelle mani degli sciiti, ottenendo così un effetto-boomerang. Hanno fatto, insomma, un grande regalo a Teheran e agli Hezbollah (Moqtada al Sadr è praticamente in permanenza in Libano, ospite dello sceicco Nasrallah). Si è creato un nuovo triangolo Teheran-Bagdad-Beirut. Se si aggiunge che la Turchia sta decisamente modificando le proprie relazioni con Israele e con tutta l’area (compresi la Siria, l’Iraq e l’Iran), si può notare il nuovo scenario geopolitico e militare creatosi nella regione.

  Più di un esponente della resistenza irachena e lo stesso Tareq Aziz, nella recente intervista rilasciata al Guardian, hanno accusato Teheran di aver collaborato con l’occupante americano nella devastazione del Paese e di essersi accaparrati  una fetta di potere all’interno della nuova situazione creatasi in Iraq con l’occupazione. Gli americani, inoltre, da anni tengono alta la tensione sull’atomica iraniana senza aver adottato alcuna iniziativa concreta. Ricordiamo, invece, ciò che accadde in Iraq nel 1981, allorché gli israeliani distrussero il reattore nucleare di Osirak. Al di là dei venti di “guerra”, dicono i resistenti iracheni, l’Iran e gli Stati Uniti si stanno spartendo l’Iraq sulla pelle degli iracheni…

  Sulla pelle degli iracheni, da almeno vent’anni, si è fatto di tutto sia da parte americana sia da parte degli altri Paesi (compresi gli europei). Nell’intervista al Guardian, Tareq Aziz ha puntato il dito contro l’Iran, perché è una persona intelligente e conosce bene la situazione: egli sa perfettamente che il grosso problema degli americani, dell’Europa e dell’Occidente attualmente è rappresentato da Teheran. Il senso del suo discorso è questo: avete rovesciato il governo laico del Partito Ba’ath, che era il solo a combattere l’estremismo islamico; adesso il vostro problema è costituito dagli ayatollah. Aziz ha posto l’attenzione su una questione di scottante attualità. La risposta non si è fatta attendere: Tareq Aziz è stato condannato a morte. Certo, nell’81 gli israeliani bombardarono e distrussero il reattore di Osirak: ma l’Iran di oggi non è paragonabile all’Iran del 1981. Gli americani non hanno nessuna voglia di attaccare Teheran e stanno cercando in ogni modo di impedire a Israele di bombardare la centrale, perché la reazione iraniana sarebbe tremenda. Teheran ha mandato in orbita un satellite militare. Le acque iraniane sono disseminate di mine. Dal suo ufficio il Presidente iraniano può premere un bottone e tramite il satellite è in grado di far saltare migliaia di bombe poste nel Golfo persico. Quando le navi vanno a caricare il petrolio, possono transitare nelle acque internazionali; quando sono cariche, invece, non possono più passare nelle acque internazionali, perché queste non sono abbastanza profonde, e devono transitare nelle acque iraniane. Oggi l’Iran le lascia passare; ma se fosse attaccato, potrebbe porre per mesi, o forse anni, tutto l’Occidente in gravi difficoltà economiche (con la crisi attuale sarebbe uno scenario terrificante).

   Se attaccati, gli iraniani non esiterebbero giustamente a difendersi…

  Pensiamo ai tremila missili puntati verso Israele o alle armi pesanti in dotazione agli Hezbollah. Attaccare l’Iran adesso non sarebbe come attaccare l’Iraq di Saddam Hussein, che non era in grado di far decollare un solo aereo. Blair diceva che gli iracheni avrebbero potuto bombardare Londra in 45 minuti. E come avrebbero fatto? Prima di tutto, avrebbero dovuto possedere le bombe. E poi come le avrebbe scagliate su Londra? Le avrebbe portate Saddam Hussein in bicicletta? Gli iracheni non possedevano nemmeno un aereo. Gli Usa hanno attaccato l’Iraq macchiandosi di un crimine talmente orrendo che non ci sono nemmeno le parole per definirlo. Hanno bombardato e massacrato un popolo che si trovava in agonia dalla Guerra del Golfo, la quale aveva già distrutto il Paese. Per non parlare dell’embargo totale durato tredici anni. Anziché attaccarlo militarmente, avrebbero dovuto aiutare l’Iraq a ricostruirsi (come fecero con l’Italia dopo la Seconda guerra mondiale).

aziz_papa  Nel 2003, lei organizzò l’incontro di Tareq Aziz con Giovanni Paolo II…

  Il 13 gennaio 2003 mandai via fax una lettera a Mons. Tauran, ministro degli affari esteri del Vaticano, proponendogli, alla luce della situazione, di sollecitare la disponibilità del Santo Padre a ricevere in udienza privata Tareq Aziz. Due giorni dopo, sempre tramite fax, la Segreteria di Stato vaticana mi mandava la risposta affermativa. Partii subito per Baghdad: poiché non c’era un volo diretto per l’Iraq, andai in aereo ad Amman, e da lì in auto per mille km fino alla capitale irachena. Trovai Tareq Aziz molto sorpreso: “È sicuro che il Santo Padre mi riceverà?”, mi chiese. “Certo, diversamente non avrei fatto il viaggio”. “Allora informerò il Raìs ed entro 48 ore comunicheremo alla nostra ambasciata presso la Santa Sede tutti i dettagli della visita. Consegnerò al Santo Padre una lettera personale del Raìs”. Così organizzammo la visita di Tareq Aziz del 12 febbraio 2003. Prima del suo arrivo, sia Porta a porta sia Ballarò mi contattarono per avere come ospite in diretta il vice-primo ministro iracheno. Aziz scelse di partecipare a Porta a porta. La mattina del 12 febbraio, mentre aspettavo in aeroporto il suo arrivo, mi chiamò il produttore di Porta a porta, dicendomi: “Ci dispiace tanto, ma Tareq Aziz non potrà partecipare alla trasmissione”. “Perché? – domandai perplesso - Avete cambiato idea?”. “Beh, guardi, non faccia uno scandalo perché non serve. Aziz non potrà essere presente su istruzione dell’azienda. Però, se vuole, può venire lei al suo posto”. Protestai perché si vietava agli italiani di conoscere la posizione dell’Iraq su una vicenda di grande attualità e importanza. Allora chiamai le reti francesi (Antenne 2, ecc.) e facemmo la diretta da Roma con loro. Andai io a Porta a porta e ricevetti l’accusa da parte di Carlo Rossella, direttore di Panorama, di fare propaganda a favore del governo iracheno e di essere antiamericano e pro-Saddam. In seguito, fui invitato come ospite in una trasmissione su Rai2 intitolata 12° round, dove sarei stato intervistato da quattro giornalisti. Partii da Assisi. Giunto sulla Nomentana, mi chiamò il produttore per dirmi: “Padre, mi dispiace ma non possiamo registrare la trasmissione… su istruzione dell’azienda”. Vietato dare spazio a Padre Benjamin! Dicevo così tante verità che non sapevano come rispondermi salvo accusarmi di essere pro-Saddam e antiamericano. Insomma, la mia presenza in televisione era del tutto inutile.

  Dunque, Tareq Aziz venne in Italia nel febbraio 2003, un mese prima dell’inizio dell’attacco angloamericano contro l’Iraq…

  Sì. Il 14 febbraio andammo in Vaticano. Tareq Aziz era accompagnato dalla delegazione irachena e da me. Arrivati davanti alla biblioteca della Santa Sede, dopo aver parlato con il capo del protocollo, un tizio si avvicinò dicendomi: “Padre, lei non può entrare!”. “Come non posso entrare! – ribattei io -. Sono un sacerdote, ho organizzato tutto, sono pure andato a Baghdad; ho invitato a spese mie Tareq Aziz”. “Abbiamo istruzioni precise: lei non può entrare”. “Mi conceda almeno di salutare, in qualità di sacerdote, il Santo Padre”. “Un’altra volta”. E così mi ritrovai in una bellissima stanza (di punizione) ad aspettare, mentre gli altri entrarono in udienza. Fu grande la mia delusione: ne parlai anche con mons. Diego Bona, il Vescovo che mi ordinò sacerdote il 26 ottobre 1991.  Aziz si infuriò tanto che volle annullare la conferenza alla sala stampa estera. Impiegai un po’ a farlo desistere da questa decisione, che avrebbe fatto il gioco di chi già gli aveva impedito di partecipare a Porta a porta. Dopo l’incontro con Giovanni Paolo II, andammo a cena in un ristorante in Piazza Navona (c’erano anche alcuni esponenti politici, tra cui Pierluigi Castagnetti, e qualche docente universitario: in tutto una ventina di persone). Ordinammo la pasta alla carbonara, che a Tareq Aziz piace molto. Ricordo che egli non riusciva ad arrotolare gli spaghetti intorno alla forchetta. Allora mostrai al Ministro il modo “corretto” per farlo. Tutti mi guardarono esterrefatti: stavo “insegnando” a Tareq Aziz a mangiare gli spaghetti! Egli mi disse: “La prossima volta che viene a Baghdad, la invito a casa e faccio cucinare la pasta alla carbonara”. Risposi: “Grazie, molto volentieri. Ma, se permette, Signor Ministro, la cucinerò io. La so cucinare bene la carbonara”. Per colpa degli americani, sto ancora aspettando di mangiare la carbonara con Tareq Aziz a Baghdad.

  Chi le impedì di prendere parte all’udienza con Giovanni Paolo II?

  Ho fatto una piccola “inchiesta”. Quand’ero giovane sacerdote, fui per quattro anni (dal 1991 al 1994) assistente del Card. Agostino Casaroli, ex Segretario di Stato, nei suoi viaggi all’estero. Dunque, ho maturato un po’ di esperienza su come funzionano queste cose. Gli americani e il governo Berlusconi erano riusciti a fare una tale pressione sulla Segreteria di Stato vaticana da impedirmi di apparire sulla stampa come promotore e organizzatore della visita di Tareq Aziz in Italia. È un fatto veramente meschino, che dimostra il clima che si respirava in quei giorni. Conservo una foto della visita di Tareq Aziz alla tomba di San Francesco: vi sono ritratti il padre guardiano superiore del convento, Tareq Aziz, Mons. Capucci e il sottoscritto. Quella foto venne pubblicata dal quotidiano La stampa, senza di me però, che mi trovavo al centro. Insomma, la ritoccarono facendomi scomparire.

  Però lasciarono Mons. Capucci…

  Evidentemente io ero troppo brutto per mostrare la mia faccia.

  Il Vaticano, quindi, avrebbe ceduto alle pressioni degli americani…

  Alcuni prelati sono indubbiamente sensibili alle politiche degli Stati Uniti… A me non interessa di non aver potuto incontrare il Papa in quella circostanza. Ciò che mi fa arrabbiare è che stanno facendo di tutto (premendo persino sul Papa) per impedire che sia conosciuta la verità sull’Iraq. I cristiani iracheni sono rimasti sorpresi quando hanno visto Benedetto XVI alla Casa Bianca con Bush a festeggiare il compleanno del Pontefice, mentre in Iraq venivano sgozzati suore e preti (fatti che non erano mai accaduti in precedenza, quando governava Saddam Hussein). Tornando alla visita di Tareq Aziz, ricordo che in quei giorni ricevetti telefonate sul mio cellulare da parte di parlamentari di Forza Italia, i quali mi dicevano: “Padre, si vergogni! Lei è dalla parte dei terroristi”. A queste accuse venivano aggiunti anche insulti e minacce. A un certo punto alcuni servizi di sicurezza, tra cui quelli giordani, mi consigliarono di stare in guardia perché rischiavo di rimanere vittima di un attentato. Poi tutto è passato, grazie a Dio. Insomma, in quei mesi del 2003, mentre si stava preparando l’invasione dell’Iraq per interessi strategici, militari, economici, petroliferi, c’era un prete che da anni rompeva le scatole con l’uranio impoverito, l’embargo, etc. e invitava pure Tareq Aziz in Italia! Per difendere il popolo iracheno ho speso quarant’anni di risparmi, tutto ciò che avevo: mi hanno aiutato solo il signor Giampiero Panzolini di Terni e la signora Enrica Pinetti di Milano (che ha finanziato la realizzazione della versione inglese del mio ultimo film). Tutti i viaggi e le conferenze li ho fatti gratis.

  Padre Benjamin, lei è stato accusato anche di aver preteso soldi dai giornalisti cui faceva ottenere il visto per recarsi in Iraq…

  I giornalisti italiani, che volevano andare in Iraq e non ottenevano il visto, chiedevano il mio aiuto. In genere, gli iracheni erano piuttosto diffidenti nei confronti dei giornalisti (soprattutto americani ed europei), perché erano a conoscenza delle numerose falsità che riferiva la stampa internazionale sul conto dell’Iraq. Mi dovevo “battere” per far ottenere i visti ai giornalisti italiani. Ma alla fine la mia mediazione aveva successo. Un giorno, però, venni a sapere da un amico giornalista che alcuni suoi colleghi avevano sparso la voce che io chiedevo soldi in cambio dei visti. Anche questa è una cosa incredibile! È una delle accuse più infamanti che mi siano state rivolte.

  Si è detto anche che lei avrebbe ricevuto delle allocazioni di petrolio nell’ambito del programma oil for food

  Ricevetti un’allocazione di 1.500.000 barili di petrolio. “Considerando il prezzo della benzina, è una bella cifra”, pensai. Tareq Aziz mi spiegò che la faccenda era assolutamente legale: il governo iracheno aveva il diritto di dare allocazioni a chi voleva; gli acquirenti, infatti, pagavano il petrolio iracheno sul conto dell’Iraq all’Onu; mentre al titolare dell’allocazione spettava una provvigione di alcuni centesimi di dollari, come avviene normalmente nelle transazioni commerciali. Ringraziai, ma per ragioni etiche non potei accettare quell’allocazione: volevo continuare a dire di aver fatto tutto con i miei mezzi senza essere sponsorizzato da nessuno. Dopo aver invaso e occupato l’Iraq, gli americani hanno pubblicato l’elenco dei beneficiari delle allocazioni. Tra gli altri, c’era anche Roberto Formigoni, il quale mi chiamò in preda al panico invitandomi a colazione al Grand Hotel di Roma. Cercai di tranquillizzarlo, rassicurandolo sull’assoluta legalità della questione. Ribadii la mia posizione anche a due ispettori dell’Onu che incontrai a Ginevra in presenza del mio avvocato. Funzionava così: il beneficiario di un’allocazione di petrolio la proponeva a una compagnia petrolifera; questa, se interessata, informava l’Onu e il Ministero del petrolio iracheno; versava quindi l’intera somma del petrolio sul conto dell’Iraq presso l’Onu; una volta ricevuto l’accredito, l’Onu autorizzava il Ministero a consegnare il petrolio; alla fine di tutta l’operazione, il broker riceveva una provvigione. Insomma, l’Iraq veniva pagato per il petrolio venduto e non doveva nemmeno destinare una commissione agli intermediari. Dov’era dunque lo scandalo? I due ispettori dell’Onu mi dissero che per Washington la faccenda era viziata sotto il profilo “morale”. Proprio loro parlano di morale. Un fatto allucinante! In seguito venne  pubblicato il rapporto dell’Onu che – alla pagina 111 - confermava, sulla base della documentazione rinvenuta presso il Ministero del petrolio a Baghdad, che Padre Benjamin aveva sì ricevuto un’allocazione di 5.500.000 barili, ma l’aveva rifiutata mediante una lettera inviata a Tareq Aziz e al Ministero del petrolio. Quindi, l’unico stupido, imbecille tra tutte quelle centinaia di persone che avevano ricevuto le allocazioni fui proprio io. E alla fine mi sono detto: “Adesso me li hanno fregati gli americani i “miei” barili; avrei fatto meglio a prenderli…”. Fu tutta una macchinazione propagandistica inutile, con la quale si cercava di insinuare che le persone, che avevano aiutato il popolo iracheno e si erano opposte all’embargo e alla guerra, fossero corrotte.

  Si è detto anche che lei avrebbe fatto parte di un’organizzazione islamica…

  Nel 2004, mentre mi trovavo a Damasco, mi chiamò una radio privata italiana chiedendomi se avessi letto l’articolo di Magdi Allam sul Corriere della sera: il noto giornalista vi raccontava che, secondo fonti attendibili, il sottoscritto avrebbe fatto parte di un’organizzazione eversiva islamica cooperante con la Resistenza irachena. Non ne sapevo nulla. Tornato in Italia, chiamai il mio avvocato e lo esortai a mandare subito una lettera a Magdi Allam e al direttore del Corriere con la richiesta di pubblicare la smentita: “Sono un sacerdote cattolico apostolico romano e, pur avendo un buon rapporto con il mondo musulmano, non faccio parte di alcuna organizzazione islamica”. Nessuno mi rispose. Finché ho potuto, ho cercato di porgere l’altra guancia. A forza di ricevere sberle, però, mi facevano male entrambe le guance. Quindi, mi sono un po’ stancato. A quel punto, decisi di procedere legalmente contro gli autori di quella diffamazione. La giustizia italiana ha impiegato due anni per darmi ragione: il Tribunale di Milano, infatti, ha condannato il Corriere e Magdi Allam al risarcimento dei danni nei miei confronti e alla pubblicazione della sentenza sulle pagine del quotidiano milanese (a quest’ultimo punto rinunciai, perché non volli infierire eccessivamente sui miei calunniatori). Non fecero appello e pagarono. Devo riconoscere che non mi sarei mai aspettato di ricevere un aiuto dal quotidiano di via Solferino per il mio lavoro sull’Iraq. Negli anni ’80, Magdi Allam lavorava come traduttore presso l’Ambasciata irachena a Roma. Fin da allora, collaborava con il Sismi, i servizi italiani: li informava su quello che traduceva e su ciò che accadeva all’interno dell’ambasciata. Di questo gli iracheni erano consapevoli e infatti gli facevano tradurre cose di scarsa importanza. Quando volevano far sapere qualcosa al governo italiano, davano da tradurre ad Allam un documento: lui provvedeva immediatamente a informare i suoi “padroni”. Ha detto e scritto tantissime bugie. Recentemente è diventato cristiano: sono contento. Lo scandalo è che gli assegnano una scorta di sette uomini, pagati dal contribuente italiano, perché sostiene di essere minacciato. Ma quali minacce! Quando si è diffusa la notizia della sua conversione al Cristianesimo, alcuni amici musulmani hanno brindato con lo champagne: secondo loro, egli non era degno di essere musulmano.

  Che notizie ha di Tareq Aziz?

  Prima di essere “consegnato” agli iracheni, egli trascorreva le proprie giornate rinchiuso in una cella di tre metri quadrati, sprovvista di aria condizionata nei periodi in cui la temperatura raggiungeva 50 gradi all’ombra. Ha avuto due ictus, tre problemi cardiaci; ha perso trenta chili. Adesso ha la possibilità di parlare una volta alla settimana con il figlio, che risiede ad Amman, e ogni tanto con sua moglie, Violette, che vive nello Yemen. Naturalmente tutte le loro conversazioni vengono registrate. Sta male. Attualmente è detenuto in una cella più grande con l’aria condizionata e un piccolo giardino dove può fare qualche breve passeggiata. Penso che l’abbiano messo in una prigione di “tre stelle” in occasione della visita di un giornalista occidentale (l’inviato del Guardian) per far credere che sia trattato bene. Rispetto a prima, tuttavia, la situazione sostanziale non è cambiata. Secondo quanto ha dichiarato più o meno discretamente il suo avvocato “ufficiale” (adesso non ha più un legale…), Badie Aref Izzat, che attualmente si trova in Giordania, Allawi sarebbe favorevole alla liberazione di Tareq Aziz, mentre Al Maliki è assolutamente contrario. Gli americani non hanno voluto prendere l’iniziativa di liberarlo, perché sarebbe stato come ammettere di fronte al mondo intero che, sebbene il processo venga condotto dagli iracheni, a decidere sono in realtà gli Stati Uniti. Si stava studiando un’alternativa alla detenzione, visto anche lo stato di salute di Aziz, ma poi è arrivata la decisione dell’Alta Corte di Giustizia di Baghdad (Giustizia più “corta” che “alta”, in realtà…), che ha sancito la condanna a morte di Tareq Aziz. Ovviamente ci sono state pressioni dall’alto, pressioni sciite, probabilmente in seguito alle dichiarazioni rilasciate da Aziz al quotidiano inglese The Guardian sull’influenza iraniana in Iraq (e dopo le “rivelazioni” contenute nei documenti sull’Iraq pubblicati da ‘Wikileaks’).

  Perché Tareq Aziz non riceve più l’assistenza legale?

  Il suo avvocato, Badie Arief Izzat, è stato “indotto” dalle autorità irachene a fuggire in Giordania. Nel frattempo, il governo-fantoccio iracheno lo ha privato del passaporto: così non può far ritorno in Iraq né viaggiare all’estero. Riesce a monitorare la situazione di Aziz, stando in contatto tramite internet con le due o tre persone che tengono ancora aperto il suo ufficio a Baghdad. In precedenza, egli aveva subito il rapimento di due figli, per la cui liberazione ha dovuto pagare una somma altissima. È scampato a due attentati (il primo nel 2005, l’altro nel 2007), dopo aver denunciato le vessazioni inflittegli dagli americani durante i colloqui con il suo assistito (pare che durante tali incontri due uomini della Cia fossero presenti e registrassero tutto ciò che l’avvocato e Aziz si dicevano).

  Di che cosa è accusato Tareq Aziz?

  L’unico capo di imputazione contro di lui è formulato sulla base di una denuncia del governo del Kuwait, secondo cui anche Aziz sarebbe responsabile dello scoppio della Guerra del Golfo. Un’accusa completamente falsa. Il Kuwait non vuole ritirare questa denuncia. Aziz è anche accusato di essersi appropriato dei fondi pubblici. Insomma, un vice-primo ministro di un Paese membro dell’Onu è in prigione da sette anni, senza alcuna tutela legale, perché avrebbe stornato dei fondi da non so dove. Di questo passo in Italia si dovrebbe incarcerare metà del Parlamento per sette anni… L’accusa di peculato rivolta a Tareq Aziz, comunque, mi sembra assurda.

  Perché, secondo lei, Tareq Aziz non ha alcuna responsabilità nello scoppio della Guerra del Golfo?

  Perché l’invasione del Kuwait fu decisa da Saddam Hussein. Taha Yassin Ramadan, ex vice-presidente della Repubblica dell’Iraq, mi rivelò, in via del tutto confidenziale, che nel 1990 Tareq Aziz aveva suggerito a Saddam Hussein di non invadere il Kuwait e di lasciare le truppe lungo il confine, perché si stava preparando una trappola per scatenare una guerra che avrebbe distrutto l’Iraq. Furono i figli di Saddam Hussein a spingere il Raìs verso l’invasione del piccolo emirato: secondo loro, il presidente iracheno sarebbe apparso debole di fronte al popolo, se non avesse compiuto quel passo. Aziz aveva scritto alla Lega araba una lettera datata 15 luglio 1990 per denunciare la sottrazione di petrolio iracheno da parte dei kuwaitiani e altri fatti incresciosi. La Lega araba rispose di non poter mediare tra due Paesi arabi. L’Onu, invece, disse che avrebbe istituito una commissione per accertare la veridicità delle accuse irachene. Conclusione: Tareq Aziz è in prigione da sette anni perché si arrese nell’aprile 2003. E gli dispiace molto di essersi consegnato agli americani. Posso raccontarle un fatto di cui sono stato personalmente testimone?

  Dica…

  Nel novembre del 2002, tre mesi prima della visita di Tareq Aziz in Italia, ebbi un incontro a Parigi con il numero due dei servizi di sicurezza francesi. Egli – convinto che la guerra che gli americani stavano per scatenare contro l’Iraq fosse del tutto ingiustificata e basata su accuse infondate - mi affidò l’incarico di consegnare ad Aziz un foglio su cui erano scritte cinque domande, cui il vice-primo ministro avrebbe dovuto fornire una risposta. Sulle prime esitai: non ero uno 007, ma un semplice sacerdote che aveva a cuore il destino della popolazione irachena. Poi, però, mi convinsi e mi feci latore di quelle cinque domande alle quali Tareq Aziz rispose con dovizia di documentazione. Quando poi Aziz giunse a Roma per incontrare il Papa, i servizi di sicurezza francesi mi contattarono per offrire asilo politico al vice-primo ministro iracheno (naturalmente Jacques Chirac e Dominique de Villepin erano informati di questa iniziativa: gli uomini dei servizi, del resto, non avrebbero potuto prendere unilateralmente una decisione così importante). Il 14 febbraio Aziz venne in visita ad Assisi. Dopo il pranzo con i frati, ci appartammo e gli dissi: “Signor Ministro, il governo francese le offre asilo politico”. Attese qualche secondo e poi mi rispose: “Ringrazio il presidente Chirac e il governo francese. Non posso però lasciare il mio popolo sotto le bombe. Io devo essere al fianco dei miei Connazionali e condividere la loro sorte. Per questo non posso accettare la proposta di asilo, anche se apprezzo molto questo gesto”. A quel punto informai i francesi. Questa è la verità.

  Perché nell’aprile 2003 Tareq Aziz si consegnò agli americani?

  È una domanda cui non posso rispondere. Solo Tareq Aziz potrebbe farlo. Stando a quanto mi hanno riferito i suoi familiari, gli americani gli fecero sapere – tramite la Chiesa caldea – di essere disposti a discutere le condizioni della sua resa e garantivano il trasferimento all’estero dei suoi familiari. Il figlio mi ha detto che Aziz aveva accettato di arrendersi per poter salvare la sua famiglia.

  Nell’intervista al Guardian, Tareq Aziz ha espresso rammarico per quella decisione e ha lasciato intendere che, se potesse tornare indietro, non la rifarebbe…

  Gli americani gli avevano detto che contro la sua persona non c’era alcuna accusa particolare. D’altra parte, egli all’interno della dirigenza irachena era un uomo molto moderato, dotato di notevole spessore culturale. Era l’unico vice-primo ministro cristiano nel mondo arabo: questo accadeva soltanto nel governo laico di Saddam Hussein (un fatto impensabile, per esempio, in Arabia Saudita…). Gli Usa, insomma, gli dissero che lo avrebbero tenuto prigioniero solo per tre o quattro mesi e poi lo avrebbero liberato (come fecero con altri ministri).

  A quando risale il suo ultimo incontro con Tareq Aziz?

  Al marzo 2003, pochi giorni prima dell’attacco anglo-americano. In tale circostanza, gli chiesi se fosse convinto che gli americani avrebbero invaso il Paese. Egli mi rispose: “Io sì. Il Raìs, invece, pensa che bombarderanno com’è nella loro abitudine, distruggeranno e faranno altre vittime innocenti. Però non è totalmente convinto che oseranno invadere. Abbiamo comunque promosso la mobilitazione di cinque milioni di volontari e abbiamo consegnato le armi a tutto il popolo”. Effettivamente avevano distribuito le armi alla popolazione fin dai mesi precedenti. Ricordo, infatti, che nel novembre del 2002, quando ebbe luogo il referendum per la rielezione di Saddam Hussein, all’Hotel Rashid di Baghdad trovai alcuni giornalisti italiani (tra cui Lilli Gruber, Giovanna Botteri e altri). Li invitai a uscire nelle strade perché si rendessero conto che la popolazione stava realmente festeggiando per il referendum. Essi preferirono restare in albergo perché, mi dissero, “può essere pericoloso, sono tutti armati”. Allora, insieme con un amico iracheno, presi un quadro di Saddam e uscii tra la gente in festa. Con la telecamera ripresi per circa un’ora: ricordo che intonarono un canto in arabo in mio onore, che “celebrava” la violazione dell’embargo aereo da me compiuta il 3 aprile 2000 insieme con Vittorio Sgarbi e Nicola Grauso. Erano tutti armati di kalashnikov e sparavano in alto. In quel momento pensai: Saddam non teme che la popolazione gli si rivolti contro, altrimenti non l’avrebbe armata; evidentemente non dev’essere così odiato come sostiene la propaganda americana.

  Quindi, la resistenza non è stata improvvisata…

  Tareq Aziz mi disse che erano stati organizzati 1200 centri di comando della resistenza. “Ci bombarderanno e distruggeranno il nostro Paese: non possiamo fare niente contro la superpotenza. Però, quando entreranno in Iraq, non riusciranno a sottomerci”. Effettivamente venne organizzata una resistenza che tuttora è guidata dal vice-presidente iracheno Ibrahim Izzat al-Douri e da due generali della Guardia repubblicana. Essi hanno ricostituito il Partito Ba’ath clandestino e ridato vita al Consiglio del comando della rivoluzione; dirigono la resistenza in Iraq, ma con collegamenti in vari altri Paesi arabi. Nel 2004 incontrai a Damasco i capi delle 31 tribù irachene più importanti,  che rappresentavano più di sette milioni di iracheni. Il capo-delegazione mi disse che “fino a quando un solo militare straniero occuperà il nostro Paese, noi saremo in guerra. Devono andarsene fino all’ultimo: per ottenere questo si batteranno anche i nostri figli, i nipoti, ecc.”. E questo me lo disse molto seriamente: si vedeva che non scherzava. La realtà ha poi confermato le parole di Tareq Aziz, dei capi-tribù e di altri esponenti del Partito Ba’ath. Ci sono numerosi gruppi nella resistenza. Attualmente sembrano un po’ meno coordinati, perché ogni gruppo tende ad andare per conto suo. Poi, bisogna dire che molti degli attentati sono organizzati dai servizi segreti occidentali o israeliani. Due mesi fa, per esempio, è stata fermata a sud di Bassora un’auto piena di esplosivo diretta contro una caserma della polizia: tra gli arrestati, due erano uomini dei servizi segreti inglesi. I commando della morte, di cui parlavo prima, sono organizzati dal ministero dell’Interno per andare ad ammazzare intere famiglie; sono dotati di grossi GMG e armati fino ai denti. Di Abu Ghraib si è parlato solo perché qualcuno ha fatto delle foto: io denunciavo da più di un anno le torture cui venivano sottoposti i prigionieri, ma nessuno mi prestava ascolto, perché “padre Benjamin è antiamericano”.

  Diceva che la resistenza è ancora guidata da Izzat Ibrahim…

  Sì. Nel 2004, gli americani dissero di averlo preso. Gli esami del DNA hanno sempre smentito le notizie della sua morte. Sicuramente nella clandestinità sarà seguito e curato, perché ricordo che era affetto da diabete e doveva sottoporsi a dialisi. Mangiava solo pollo e temeva di essere avvelenato.

  Ebbe modo di conoscerlo personalmente?

  Lo incontrai una volta. A me, però, interessava restare in contatto solo con Tareq Aziz, perché desideravo viaggiare senza problemi per il Paese. Per poterlo fare, mi servivano delle autorizzazioni. Una volta, andai a Bassora con il mio cameraman Francesco Bistocchi, un cameraman iracheno e altre persone – eravamo in sette o otto. Ci arrestarono perché avevamo ripreso delle postazioni di difesa, e ci portarono in un comando della polizia. Invitai il comandante della polizia a chiamare un numero di telefono, che mi avevano dato all’ufficio di Aziz per i casi di necessità. A un certo punto, vidi il comandante mettersi sull’attenti facendo il saluto militare. Ci liberarono subito con tante scuse. Dunque, io volevo avere la possibilità di riprendere, fare interviste nel sud tra gli sciiti, nel nord tra i curdi, dappertutto. Così oggi possiedo oltre duecento ore di filmati sull’Iraq che spero di poter utilizzare: sto lavorando a un film che fa il bilancio di vent’anni (1991-2011) di guerre contro l’Iraq, a partire dalla Guerra del Golfo. Possiedo, inoltre, la registrazione di un’intervista esclusiva con Tareq Aziz, che non ho mai pubblicato integralmente per diversi motivi. Sto lavorando al montaggio di questo importante documento.

  Lei realizzò anche un documentario sull’uranio impoverito utilizzato dagli americani nei bombardamenti sull’Iraq.

  Tutte le reti televisive (dalla Rai alla tv canadese, ecc.), cui ho proposto di trasmetterlo, si sono rifiutate, definendolo “propaganda a favore di Saddam Hussein”. Al Senato francese, invece, lo proiettarono lo scorso anno, in occasione di un dibattito – a cui partecipai - organizzato da Kouchner e dal Wwf sull’inquinamento provocato dai bombardamenti. Ricordo che, alla fine del 2002 (la macchina della disinformazione mediatica sulle armi di Saddam era in piena attività), mi chiamò il primo segretario dell’ambasciata di Francia, invitandomi a bere un aperitivo a Piazza Farnese. “Padre – mi disse -, noi e i nostri servizi di informazione siamo un po’ preoccupati, perché lei, in seguito alle denunce sulle armi all’uranio impoverito, potrebbe essere nel mirino della lobby degli armamenti. La Francia è tra i Paesi che dispongono di armi all’uranio impoverito, anche se non le ha mai utilizzate”. (In realtà, le avevano sperimentate nel Ciad, almeno all’inizio.) Poi il mio interlocutore aggiunse: “Sappiamo che il suo telefono è sotto controllo da parte della Cia e del Mossad in Italia”. Fantastico! In quel periodo, pubblicavo libri, tenevo conferenze, realizzavo documentari per far conoscere alla gente la verità sul dramma iracheno. Ma pochissimi mi ascoltavano. Finalmente potevo avere la certezza di essere ascoltato da qualcuno, sia pure al telefono. Sull’uranio impoverito, il ministro iracheno della Sanità, dottor Mubarak, che aveva conseguito due master nelle università americane, agevolò le mie ricerche relative alle contaminazioni. Scoprii che, in dieci anni, i casi di leucemia erano aumentati del 400 per cento. Senza contare poi i bambini nati con malformazioni. Il problema dell’uranio impoverito è terribile. Avevo organizzato con l’Enea un incontro tra il prof. Martinelli, l’equipe degli scienziati nucleari italiani (ce n’erano anche uno svizzero e uno francese) e quelli iracheni per condurre delle serie indagini scientifiche sul grado di radioattività nel sud dell’Iraq. Feci tre viaggi a Baghdad solo per questo. Gli scienziati italiani posero come unica condizione quella di fare le analisi in Italia, perché non potevano portare le loro macchine sofisticate a Baghdad. Gli iracheni non si fidarono al cento per cento perché temevano che potessero falsificare i risultati. Allora raggiungemmo l’accordo che due scienziati e un altro professore sarebbero venuti a Bologna da Baghdad e avrebbero condotto gli esami insieme con gli scienziati italiani. Tutto era pronto per l’autunno del 2002. Quando il governo Berlusconi venne a conoscenza dell’iniziativa, la bloccò. E non se ne fece più nulla.

  La resistenza irachena è ancora oggi molto attiva? Ormai non filtrano più molte notizie dall’Iraq…

  Tre giorni fa è saltato un mezzo blindato americano nel sud dell’Iraq, provocando la morte di due soldati. L’attentato è stato rivendicato dalla Jihad islamica del sud. Ogni settimana vengono effettuati decine di attentati (mediamente da trenta a quarantacinque). È difficile stabilire con certezza se siano attentati di origine criminale (l’occupazione ha messo il Paese in uno stato di guerra civile), di al-Qaeda (qualche gruppo è ancora operativo, anche se questa organizzazione non potrà mai radicarsi in Iraq) o della resistenza. Comunque, gli attacchi ai mezzi e ai soldati americani sono compiuti al 99 per cento dai vari gruppi della resistenza. La resistenza ha dovuto risolvere il problema della comunicazione fra i vari gruppi, perché gli americani sono dotati di strumenti assai sofisticati e riescono a individuare con estrema rapidità la provenienza, il contenuto e la destinazione di un messaggio. All’inizio (non so se lo facciano ancora) gli uomini della resistenza irachena utilizzavano i falchi nel deserto (falchi addestrati, simili ai nostri piccioni nel Medioevo), cioè mezzi alternativi alla comunicazione elettronica tramite telefono o internet (questo può forse apparire un dettaglio folcloristico). Gli americani ancora oggi bloccano internet in alcune zone del Paese per impedire le comunicazioni telematiche. La resistenza, insomma, è sempre attiva, ma attualmente sta ridefinendo le proprie tattiche di combattimento, perché la situazione sul terreno - con 100.000 militari nemici in meno, che non si vedono più nelle strade – è profondamente mutata. Sta cercando di capire la nuova strategia americana. Sarebbe comunque più corretto parlare di “resistenze” (al plurale…), perché ci sono diversi organizzazioni che lottano per la liberazione dell’Iraq: oltre al Partito Ba’ath di Al Duri, ci sono gli sciiti di Moqtada al Sard, le tribù, i gruppi curdi, e anche organizzazioni straniere. I patrioti iracheni devono sempre fare i conti con i mercenari delle organizzazioni paramilitari americane che sparano sulle macchine per divertirsi (basta vedere i video su internet).

  Si registrano anche contatti fra gli americani, da un lato, e i sunniti e gli esponenti del Partito Ba’ath, dall’altro.

  La resistenza ha rifiutato le proposte avanzate dagli occupanti, ponendo cinque condizioni (tra cui, al primo posto, la richiesta che tutti i militari stranieri lascino l’Iraq, potendo restare solo le forze di cooperazione economiche, sociali, educative, industriali, anche di polizia ma unicamente con fini di addestramento). Naturalmente le condizioni poste dalla resistenza non sono state accettate dagli americani.

  Pare che gli Usa stiano cercando il modo per coinvolgere i sunniti nella guida del Paese…

  Un iracheno non si può comprare. A Falluja (dove c’era una forte resistenza, tanto che hanno dovuto utilizzare le armi al fosforo per indebolirla, sterminando 25mila persone) è stato siglato un accordo per dare vita a una milizia anti-alQaeda, cui hanno dato le armi (l’ingenuità degli americani è veramente allucinante). Dopo tre mesi, di al-Qaeda non c’era più nemmeno l’ombra, mentre le armi nel frattempo erano passate ai gruppi della resistenza. Tutti i ministeri del governo-fantoccio iracheno sono infiltrati da ex-ba’athisti e dagli uomini di Moqtada al-Sadr. D’altra parte, un’organizzazione provvista di pochissimi e rudimentali mezzi di comunicazione come potrebbe conoscere il momento preciso del passaggio di un convoglio americano per farlo saltare? Insomma, la situazione è molto complicata.

  Dove si trovano attualmente i familiari di Saddam Hussein?

  Diciannove membri della famiglia di Saddam Hussein (tra cui le due mogli, con l’eccezione dell’ultima delle figlie, che è ricercata) sono attualmente ospiti del Qatar: vivono in grande ville, ricevono mensilmente importanti “compensi” in denaro (curiosamente alla seconda moglie spetta meno rispetto alla prima), dispongono di automobili con autisti, mandano i figli nelle migliori scuole del Paese: il tutto è a carico dell’emiro del Qatar. Sono cioè ospiti di un emirato, in cui ci sono le basi americane e la rete televisiva al-Jazeera (che talvolta trasmette dei reportage abbastanza critici riguardo alla presenza americana nella regione). Questa vicenda fa parte della strategia araba generale. Anche l’ex ministro degli Esteri, Naji Sabri Al-Adhiti, vive in Qatar.

  Dicevano che si fosse rifugiato in Austria…

naji_sabri  È vero, per un po’ si rifugiò a Vienna. Poi, si è trasferito in Qatar, togliendo dall’imbarazzo il governo austriaco. Egli fu il segretario di Tareq Aziz per undici anni, poi ricoprì il ruolo di ambasciatore a Vienna, e successivamente, fino all’attacco americano del 2003, quello di ministro degli Affari esteri. Oggi insegna all’università di Doha ed è membro di una fondazione. Ebbi modo di incontrarlo nel 2004, in occasione di una conferenza sui “Media televisivi ed informazione” promossa da al-Jazeera, cui parteciparono circa duecento rappresentanti di emittenti internazionali. C’erano pure quelli della Fox, i quali abbandonarono la sala in segno di protesta durante il mio intervento.

  Che cosa le disse Naji Sabri in quella circostanza?

  Pranzammo insieme. Mi raccontò le proprie vicissitudini in maniera molto discreta, perché aveva paura. Tanti iracheni, che hanno perso la famiglia, si sono rifugiati all’estero: secondo un detto iracheno, se uno straniero ammazza tuo figlio, tu hai il dovere di vendicarlo per sette generazioni; dunque, con un milione di morti dev’esserci gente piuttosto arrabbiata. Anche l’ex ambasciatore presso la Santa Sede, Dr. Al-Zahawi - prima era all’Unesco - attualmente si trova in Giordania e fa parte di una fondazione. L’ex ministro dell’informazione è ospite di Gheddafi, il quale aiuta economicamente diversi ex membri del governo di Saddam Hussein. Un paio d’anni fa, il figlio di Tareq Aziz – il quale nel frattempo ha ottenuto la cittadinanza giordana - mi disse che il Qatar gli aveva negato l’ospitalità in quanto cristiano. Altrove invece c’è maggiore tolleranza nei confronti dei cristiani. Per esempio, io ho parlato diverse volte nella moschea di Damasco. Ricordo che un venerdì, in diretta televisiva sulla principale rete siriana, presi la parola, vestito con il clergyman, davanti a numerosi musulmani in preghiera. Parlai in francese (tradotto in arabo): tutti gli sceicchi e gli imam della moschea mi ascoltarono con grande rispetto e mi salutarono. I musulmani sanno che possiamo affrontare e risolvere i nostri problemi soltanto con l’amore e il rispetto reciproci. Quell’incontro fu molto più importante ed efficace di un convegno con degli esperti che si riuniscono in un albergo a cinque stelle e che poi nessuno sente parlare. Io seguo un altro metodo: preferisco andare a parlare ai musulmani nelle loro moschee. “Sapete quante volte si parla della Vergine Maria nel Vangelo? Undici. E nel Corano? Trentanove”: in genere comincio in questo modo, mostrando i numerosi legami sussistenti tra le due religioni. E ravviso meraviglia sul volto dei miei interlocutori, che per una volta non si sentono definire terroristi da un occidentale, ma al contrario affini sul piano religioso e storico. All’Occidente interessa soltanto spaventare la gente e mantenere l’allarme sulla presunta minaccia terroristica. Tutto ciò per giustificare i morti americani, italiani, etc. in Afghanistan, in Iraq e altrove.

  Sul sito del Guardian, è stata pubblicata una foto di Tareq Aziz con un copricapo islamico. Che cosa significa?

  Penso di sapere perché Tareq Aziz si sia fatto fotografare con quel copricapo, ma preferisco non dirlo. Tariq-Aziz-guardianPresumo che abbia voluto lanciare un messaggio. Naturalmente non si è convertito all’Islam. È anche possibile che sia stato obbligato a indossarlo. Le chiese cristiane in Iraq sono piene di musulmani, soprattutto donne, che vanno ad appendere dei pezzettini di tessuto verde davanti alla statua della Madonna. I musulmani non possono raffigurare un santo o un profeta: tuttavia, si recano nelle chiese per devozione alla Vergine Maria o al Cristo Risorto (essi credono che Gesù Cristo era il Messia ed è risorto). In Iraq, questa devozione era diffusa: ho delle foto in cui si vedono chiese cristiane accanto a moschee in Iraq. Molti cristiani iracheni, al termine della Messa, si recavano in una moschea a recitare una preghiera. Sul piano della convivenza fra musulmani e cristiani, l’Iraq di Saddam Hussein era una realtà unica. A Baghdad, dove nel 1150 alcuni sacerdoti siciliani tradussero per la prima volta il Corano in latino e il Vangelo in arabo presso la Mustansiriya (la più antica università di Baghdad), fu attivo, fino all’invasione americana del 2003, il primo centro di dialogo tra cristiani e musulmani. La Costituzione irachena all’epoca di Saddam Hussein garantiva gli stessi diritti ai musulmani e ai cristiani. Negli anni Ottanta, Baghdad era considerata la città con il tenore di vita più elevato al mondo (attualmente è Vienna). L’Iraq era un Paese avanzato anche economicamente: servivano tre dollari per comprare un dinaro iracheno (la moneta irachena, insomma, era tre volte più forte del dollaro!). Oggi, in seguito all’invasione americana, 450mila cristiani sono fuggiti dall’Iraq. Il seminario di Baghdad è chiuso. Non c’è più alcun ministro cristiano nel governo iracheno. Non solo hanno devastato i musei, la cultura, le infrastrutture, la mentalità, un Paese intero, ma hanno pure compromesso nove secoli di dialogo.

benjamin_obiettivo  Nel libro Obiettivo Iraq, pubblicato nel 2002 dagli Editori Riuniti, lei riportò un documento tratto dagli archivi americani sulla strage dei curdi di Halabja, in cui si diceva che il gas letale non era di provenienza irachena e la responsabilità di quell’eccidio non poteva, pertanto, essere attribuita all’Iraq.

  Nel 1989, l’Istituto strategico del U.S. Army War College della Pennsylvania fece un’inchiesta, per conto del Congresso americano, sulla strage dei curdi di Halabja (cinquemila curdi ammazzati coi gas). Della commissione incaricata facevano parte, tra gli altri, il ten. col. Douglas V. Johnson  e Stephen C. Pelletiere. Ne nacque un documento, in cui si legge (a pag. 53): “dalle nostre ricerche in laboratorio sui tessuti umani delle vittime di Halabja risulta che molte sostanze chimiche non appartengono alle armi chimiche irachene”. Gli americani sapevano benissimo quali fossero le armi chimiche irachene perché le avevano vendute loro all’Iraq (Rumsfeld nel 1983 andava a stringere la mano a Saddam Hussein). Sapevano tutto. E sapevano anche che nel 1993 la commissione dell’Unscom aveva distrutto tutte quelle armi. Cercai di procurarmi quel documento di 97 pagine, ma me lo negarono avanzando motivi legati “alla sicurezza degli Stati Uniti”. Allora tramite un collaboratore del Washington Post riuscii a farmene mandare una copia a Roma al costo di 75 dollari. Dopo tre settimane, mi venne recapitato un plico sigillato e legato con dello spago. Vedendolo, la mia segretaria mi chiese: “non è che saltiamo in aria quando lo apre?”. Dopo averlo aperto, scoprii con grande sorpresa che il documento era stato tagliato in otto parti, come una torta. Ricomporlo sarebbe stato un lavoro da certosino. Contattai il mittente tramite mail: “ho ricevuto, grazie. Potreste mandarmene un’altra copia possibilmente non a fette?”. Gli feci anche una foto… In seguito, me ne mandarono una copia integra. Hanno processato Saddam Hussein per l’uccisione di 148 estremisti sciiti che avevano compiuto un attentato contro di lui. Se degli estremisti musulmani avessero fatto un attentato a Bush, quest’ultimo sarebbe forse andato a ringraziarli? Saddam Hussein è stato condannato e impiccato perché fece arrestare e giustiziare quegli attentatori sciiti. Non lo hanno processato, invece, per la strage di Halabja. Ciò non mi ha meravigliato più di tanto. Le armi di distruzione di massa non esistevano; dunque, dovevano accusare di qualche crimine il presidente iracheno. Alì Hassan al-Majid, detto “il chimico” dalla propaganda anti-irachena, è stato processato e impiccato, ma dal dibattimento non è trapelato alcunché. I suoi avvocati avevano in mano il documento dell’U.S. War College della Pennsylvania. Questo documento tornerebbe utile adesso: potrebbero sfruttarlo propagandisticamente contro il Paese nei cui confronti si stanno accanendo e del quale hanno paura, cioè l’Iran. Ma non possono farlo, perché manifesterebbero l’ennesima contraddizione sulla faccenda irachena.

  C’è chi sostiene, però, che quel documento sarebbe un falso confezionato negli anni del conflitto Iraq-Iran per assolvere gli iracheni da ogni responsabilità in quella strage…

  È possibile che abbiano manipolato anche quel rapporto, se ciò conveniva loro strategicamente.  Hanno manipolato (e continuano a manipolare) rapporti, documenti, l’Onu, gli ispettori; sono stati capaci di mentire al mondo intero nel corso di 737 interventi pubblici (tale è il numero degli interventi pubblici di Bush e Rumsfeld sulla questione irachena). Quindi, possono mentire su tutto. Io non prendo le parole del Pentagono e della Cia come Vangelo. Non esprimo un giudizio sulla veridicità del documento; mi limito a dire che esso esiste ed è stato pubblicato. Non ne sono io l’autore, ma un Istituto di studi strategici. Questo documento è firmato da diverse personalità dei vertici militari americani, da esperti e studiosi: mi sembra impossibile produrre un documento falso con tanti nomi di personalità note. Venne presentato al Congresso, è depositato presso una Corte americana e non è più disponibile per la consultazione pubblica. Hanno processato Saddam Hussein senza tirar fuori l’argomento né quel documento.

  Anche una relazione della DIA (Defense Intelligence Agency) segnalò la presenza, sui corpi delle vittime di Halabja, del cloruro di cianuro, un agente del sangue mai utilizzato in precedenza in Iraq. Lo stesso Tareq Aziz, dopo essersi consegnato agli americani nel marzo 2003, ribadì più volte che gli iraniani avevano utilizzato armi chimiche durante la strage citata.

  In un’intervista al Time del 2003, il già citato Pelletiere citò il documento del U.S. Army War College della Pennsylvania, ammettendo di aver preso parte personalmente all’elaborazione dello stesso; aggiunse anche che non si poteva imputare l’intera responsabilità della strage di Halabja all’Iraq.

26 ottobre 2010

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