I neri e i rossi. Intervista con Stefano Fabei Stampa E-mail

I neri e i rossi. Intervista con Stefano Fabei

a cura di Francesco Algisi

 

fabei_neri  Stefano Fabei, nato a Passignano sul Trasimeno nel 1960, laureato in Lettere moderne, insegna a Perugia. Suoi saggi sono apparsi su «Studi Piacentini» e «Treccani Scuola». Collabora a «I sentieri della ricerca», «Eurasia» e «Nuova Storia Contemporanea». Tra le sue opere recenti: I cetnici nella Seconda guerra mondiale (2006), Carmelo Borg Pisani. Eroe o traditore? (2007). Con Mursia ha pubblicato Il fascio, la svastica e la mezzaluna (2002) tradotto in Francia nel 2005, Una vita per la Palestina. Storia del Gran Mufti di Gerusalemme (2003), Mussolini e la resistenza palestinese (2005), La «legione straniera» di Mussolini (2008) e Operazione Barbarossa (2010). Recentemente è giunto in libreria – con la prefazione del Prof. Giuseppe Parlato - il suo nuovo saggio, I neri e i rossi (Mursia, pagg.478, Euro 22,00), un’attenta e approfondita ricostruzione dei tentativi di conciliazione tra fascisti e socialisti durante la Repubblica Sociale Italiana.

  Prof. Fabei, che tipo di socialismo era quello del «Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista» (RNRS)?

  Più che di socialismo si deve parlare di socialismi nel senso che nel Raggruppamento erano presenti diverse sensibilità. C’erano dei sinceri marxisti, degli ex sindacalisti rivoluzionari, dei comunisti libertari, dei nazionalcomunisti: persone che provenivano da ambienti differenti e che avevano obiettivi spesso diversi. Ciò che li accomunava era in parte la speranza che il fascismo potesse realizzare i postulati rivoluzionari del programma del 1919, del sansepolcrismo, in parte, e soprattutto, il desiderio di evitare una guerra civile che avrebbe avuto quale unico esito quello di indebolire ulteriormente il Paese facendone oggetto di conquista e parte della sfera d’influenza delle potenze alleate nemiche dell’Asse.

  Nei progetti dei promotori del RNRS vi era, tra l’altro, l’apertura di una casa editrice che – come si legge a pag. 101 del suo libro – avrebbe dovuto pubblicare opere di Mazzini, Cattaneo, Engels, Lenin e Labriola. Come va interpretata la presenza del padre della Rivoluzione d’ottobre tra gli autori di riferimento di Cione e compagni?

  Con la costituenda casa editrice «Cultura del Popolo» era prevista la pubblicazione di opere repubblicane e socialiste di vari autori. Di Lenin, sulla cui grandezza rivoluzionaria molti «pontisti» non avevano dubbi, si prevedeva la pubblicazione di Che fare?, un’opera il cui titolo costituiva un quesito tipico dei momenti particolarmente difficili sotto il profilo delle decisioni da prendere e delle scelte da compiere. Che fare? – il cui sottotitolo era Problemi scottanti del nostro movimento – costituiva una delle più importanti opere politiche del grande rivoluzionario russo; era stato scritto fra l’autunno del 1901 e il febbraio 1902, e pubblicato per la prima volta a Stoccarda nel marzo dello stesso anno. Lenin vi delineava in modo sistematico la sua teoria dell'organizzazione e la strategia del partito rivoluzionario del proletariato. Non meraviglia pertanto che i «pontisti», molti dei quali erano sinceri rivoluzionari, auspicassero la ristampa di un’opera ritenuta di grande utilità in quel momento.

  Lei scrive (pag.103) che a due riunioni del RNRS partecipò «anche un religioso, di nome Enrico, superiore della comunità dei frati minori titolari del monastero di Sant'Angelo». Come si spiegano la presenza di questo frate e l'adesione al RNRS dei «cattolici del gruppo di Pezzini» di cui parla alle pagg. 200 e 225?

  L’Italia era un Paese cattolico e ciò non poteva essere ignorato dai fautori del «ponte» che guardarono con interesse al gruppo di Pezzini e al cappuccino padre Enrico, che godevano di un certo seguito. Quest’ultimo, superiore della comunità dei frati minori titolari del monastero di Sant’Angelo, riuscì in principio a far aggiungere un riferimento al cattolicesimo nell’articolo 2 dello statuto del RNRS. Nel comma d) di quest’articolo si parlava testualmente di «diritto di esistenza – pur tenendo debito conto della tradizione e della fede cattolica del nostro Popolo – a tutte indistintamente le concezioni filosofiche, politiche, sociali e religiose, con piena libertà di pensiero e di propaganda, quando questa non sia rivolta a combattere e scalzare le basi fondamentali della Nazione».

  Chi erano i «repubblicani tradizionalisti» di Francesco Perri, citati alle pagg. 200 e 225?

  Erano uno dei gruppi che aderirono al RNRS; lo costituivano alcune centinaia di persone dotate di una notevole preparazione dottrinaria politica e sociale, «una vera e propria élite politica», esponenti preziosi perché estranei alla cerchia dei fascisti repubblicani. Alcuni mesi dopo la fine della guerra, Francesco Perri, intervenendo al dibattito in corso sul caso Cione con una lettera del 22 ottobre 1945, ammise di essere stato in contatto sia con il filosofo sia con Biggini, ma negò l’adesione, sua personale, e dei repubblicani mazziniani al RNRS.

  Tra i pontisti «neri», cui è dedicato il capitolo ottavo del volume, si può annoverare anche Franco Colombo, il comandante della Legione autonoma mobile «Ettore Muti»?

  Sì. Il comandante della «Muti» aumentò la sua affidabilità agli occhi dei «pontisti» quando la legione ebbe una parte nell’eliminazione della banda di Pietro Koch. Secondo Vincenzo Costa, il federale di Milano, proprio Colombo sarebbe stato il primo a lanciare l’idea del «ponte» e a prendere iniziative miranti a scongiurare la guerra civile. Colombo era un uomo di cuore e, pur comandando una formazione che dava del filo da torcere ai «fuorilegge», soffriva per il perdurare della lotta fratricida. Fu perciò lui a ordinare al giornalista Gorrieri, capo ufficio stampa della «Muti», di dare inizio alle trattative, e Gorrieri, un «personaggio enigmatico», si dedicò anima e corpo all’impresa, lasciandosi trascinare nei suoi punti oscuri, nei suoi equivoci, tanto da essere considerato dai fascisti un traditore.

  Lei cita (pag.143) un documento della GNR che auspicava «un'alleanza con i socialisti [...] in vista dell'instaurazione di una “repubblica socialista” che avrebbe proclamato, con il consenso sovietico, la sua neutralità nel conflitto». A che cosa allude l’espressione «con il consenso sovietico»?

  All’interno del «ponte» alcuni simpatizzavano per l’Unione Sovietica e contavano che grazie ai contrasti emergenti nel campo alleato, si potesse salvare l’indipendenza dell’Italia e resistere alla pressione anglosassone. Una  repubblica socialista in tale contesto poteva costituire per la Germania il male minore e in quanto tale avrebbe dovuto essere accettato da essa. Se però alla fine del 1943 ci si poteva ancora illudere circa la possibilità di una frattura all’interno delle forze nemiche per le divergenze esistenti tra Stati Uniti e Gran Bretagna da una parte e Unione Sovietica dall’altra, nel dicembre 1944, fallita la controffensiva germanica sul fronte occidentale, la possibilità di illudersi cominciava a venir meno. Cione raccontò come Zocchi e Mussolini, incontrandosi, fraternizzassero sul terreno del più acceso socialismo rivoluzionario, e come rivoluzionario fosse il linguaggio del Duce che pronunciò una requisitoria contro i tedeschi i quali non avevano voluto aderire ai suoi suggerimenti di una pace con l’Unione Sovietica quando erano a Kiev e adesso si mordevano le mani perché le truppe di Stalin erano a Elbing. Tra i «pontisti» diffuse erano le posizioni in accordo con quelle di Mussolini, favorevole a una pace separata con la Russia in nome di un’intesa tra Stati anticapitalisti. Le tesi esposte nella nota Parla Molotov della «Corrispondenza Repubblicana» del 5 febbraio 1945 non lasciano dubbi sull’orientamento mussoliniano che è confermato anche in un colloquio con Silvestri del 13 febbraio: «Se la Germania avesse permesso che fosse chiarito il concetto dell’ordine nuovo, sarebbe stata resa impossibile la guerra tra la Germania e la Russia. Germania, Russia e Italia erano naturalmente destinate ad intendersi per ragioni ideologiche, per affinità di sistemi politici, di mentalità politica. Se si fossero intese a quest’ora avrebbero l’assoluto dominio dell’Europa e potrebbero influenzare la politica mondiale; la loro unione le avrebbe portate al dominio del mondo, avrebbero dato all’Europa e poi al mondo un ordine veramente nuovo. Tutto portava Germania e Russia ad andare d’accordo. La Russia era o no uno stato totalitario come la Germania? C’è o non c’è in Russia una disciplina simile a, e più dura, che quella tedesca? Nessun antagonismo religioso divideva e divide questi due paesi perché se in Russia hanno la religione… del leninismo, in Germania sono anticristiani come in Russia e per i germanici la religione cattolica è superata insieme con il pietismo, con la bontà e con l’umiltà. I germanici hanno la religione del sangue... [che] deriva da un concetto razziale. Tutto li portava ad intendersi. lo ho invano sostenuto questa tesi. Da ciò che vi dico si comprende che io ero ben disposto a fare una nuova rivoluzione dentro la rivoluzione. La socializzazione avrebbe dovuto essere effettuata nel 1939. lo aspettavo un incontro a tre, un incontro che avrebbe probabilmente segnato l’inizio della nuova storia del mondo».

  Nel Memoriale per Nicola, scritto da Corrado Bonfantini nell'ottobre 1944 e citato a pag. 143, veniva caldeggiata la trasformazione della «Muti». Che cosa sarebbe dovuta diventare la «Muti» nei piani del comandante delle Brigate «Matteotti»?

  La trasformazione di questa legione autonoma era uno degli atti intesi alla pacificazione degli animi, insieme all’amnistia politica, allo scioglimento delle polizie speciali, e al rimaneggiamento ministeriale. Si auspicava un accordo per una rivoluzione popolare nazionale che, spazzando via le forze reazionarie e conservatrici, instaurasse la Repubblica Socialista attraverso a un governo nuovo, capace di proclamare la propria neutralità nel conflitto, magari avvicinandosi a un’Unione Sovietica che nel frattempo si sarebbe affacciata sull’Adriatico.

  Come giudica l'atteggiamento tenuto nel dopoguerra da Bonfantini, il quale cercò di minimizzare, per non dire negare, la propria partecipazione alla politica «pontista»?

  Il comandante delle formazioni «Matteotti», il quale nel periodo successivo al 25 aprile era riuscito a salvare la vita di parecchi fascisti, in realtà non aveva avuto prima il potere necessario per impegnare il Partito socialista, e dopo, impaurito dal timore delle possibili reazioni dei suoi compagni intransigenti, Lelio Basso e soprattutto Sandro Pertini, per i passi da lui compiuti, invece di assumere la responsabilità di quanto aveva fatto e di vantarsene per l’aspetto non politico, ma umano, cercò di stendere un velo su una pagina della sua vita di cui forse, qualora fosse stato più intelligente, avrebbe capito che non doveva vergognarsi. A determinare il suo comportamento avevano contribuito infatti fattori umanitari che però gli valsero, nel dopoguerra, l’emarginazione politica e pesanti attacchi da parte degli storici della Resistenza. Per senso di disciplina fu costretto a sacrificare la sua personalità e ad adeguarsi alla posizione ufficiale del partito e dell’intero CLNAI. Rifiutò di ammettere di aver fatto quanto era stato nelle sue possibilità per evitare le stragi che si erano verificate e dichiarò che il gruppo di Cione gli era parso gente in buona fede, ma ingenua, in alcuni casi decisamente esaltata e fuori della realtà. Quella dei rapporti con i «moderati» di Salò era senza dubbio una pagina imbarazzante per il Partito socialista e per il fronte antifascista e i compagni comunisti per anni rinfacciarono ai socialisti certi cedimenti.

  Nel quinto intervento di Giramondo sul Corriere della sera, citato a pag.174, Togliatti era descritto come «uno strumento di Churchill e Roosevelt contro Stalin, della feroce politica di egoismo plutocratico di Londra e Washington»…

  Mi sembra evidente che i comunisti svolsero il ruolo degli «utili idioti», i quali dopo aver combattuto per una repubblica socialista finirono per consegnare il Paese alla sfera d’influenza americana. Furono, per così dire, fregati da quelle forze cui si erano appoggiati e che di loro si erano serviti.

  Che relazione c'era tra il RNRS e il «Centro nazionale italiano di studi sociali»?

  Dopo  aver preso atto del programma formulato dal RNRS e in base al postulato terzo delle dichiarazioni di Verona, al discorso di Milano del 16 dicembre e a quello del Segretario del Partito in occasione del 28 ottobre, Mussolini autorizzò il raggruppamento e la pubblicazione di un suo organo. Sotto l’egida del Ministero del lavoro, il Duce inoltre autorizzò la costituzione a Milano del Centro nazionale che doveva fungere da fucina di idee ed essere aperto alla collaborazione degli studiosi di qualsiasi provenienza politica, purché concordassero nel trinomio «Italia, Repubblica, Socializzazione» e nello Stato del Lavoro. In pratica però il centro non riuscì a svolgere una significativa attività.

  A pag. 282 si legge che Carlo Silvestri «desiderava far incontrare» Guido Miglioli con Mussolini. Anche l'esponente cattolico, «confinato» a Cremona, era favorevole alla politica del «ponte»?

  Non so dire con quanto interesse Miglioli, che Mussolini aveva salvato come altri antifascisti dai tedeschi i quali lo avrebbero volentieri eliminato, guardasse al progetto pontista. Certo è che Silvestri il 3 giugno 1944 scrisse una lettera al Duce annunciando uno studio di Miglioli sulla riforma agraria, che doveva essere preso in considerazione nel piano delle previste riforme sociali. Mussolini, però, non nutriva alcun tipo di simpatia per l’esponente cattolico e sapeva che se una chance politica gli restava era nei ceti urbani più duttili e politicizzati, non certo nelle campagne dove quanto si muoveva era tradizionalmente inquadrato nella cultura rossa e bianca.

  A chi allude quando parla dei partigiani, «e non erano pochi, che combattevano il fascismo per i suoi programmi sociali» (pag. 354)?

  Alle forze antifasciste conservatrici che, dopo aver appoggiato il fascismo per venti anni in funzione del proprio tornaconto, lo avevano abbandonato al proprio destino. A queste forze, monarchiche e liberali, quanto rappresentato dal trinomio «Italia, Repubblica, Socializzazione» non poteva che risultare sgradito. Altre componenti, che potremmo definire «progressiste», guardarono con un certo interesse al «ponte» ma quando si trattò di accelerare sul piano di un’eventuale intesa con la RSI, fecero mancare all’operazione il loro consenso. Del resto la guerra stava finendo e forse, dal loro punto di vista, non potevano agire diversamente, se volevano sopravvivere.

  Nei «Rapporti di un informatore comunista introdottosi nel RNRS», riportati nell'Appendice, si legge che il «movimento» di Cione, Gorrieri, etc. «si delinea sempre più antimussoliniano»…

  Ritengo che l’atteggiamento non sempre coerente e deciso di Mussolini verso il «ponte» avesse deluso alcuni di coloro che credevano nell’operazione. Va però considerato che il Duce doveva tenere insieme le varie tendenze e componenti, spesso molto diverse tra loro, presenti all’interno della RSI, e doveva in qualche modo rendere conto della sua azione politica ai sospettosi alleati tedeschi, ostili come Pavolini, Mezzasoma e Farinacci a ogni compromesso con l’antifascismo.

  Quali differenze sussistono tra l'azione di Bombacci e quella dei «pontisti» durante la RSI?

Nicola Bombacci e il «ponte» operarono su due piani separati, anche se non contrapposti, tanto che si parlò di mettere questo apprezzato consigliere di Mussolini in materia di politica sociale e fervente propagandista delle riforme propugnate nel Manifesto di Verona, come direttore dell’«Italia del popolo, l’organo del RNRS. Tra la primavera e l’estate del 1944 le posizioni dei «comunistoidi», come li definiva il Duce, che si avvaleva delle consulenze di Bombacci, si indebolirono per la crescita organizzativa del fronte antifascista e per l’inizio su vasta scala della lotta armata, fatto questo che rafforzò gli intransigenti come Farinacci, Buffarini Guidi, Pavolini e Mezzasoma, nemici giurati di chiunque cercasse un avvicinamento alle forze dell’antifascismo. Delle differenze tra Bombacci da una parte, e alcuni «pontisti» e il giornalista Carlo Silvestri dall’altra ci furono:  se il primo, data la sua formazione massimalista e comunista, concepiva il significato attuale e storico della RSI in un’ottica ancora sostanzialmente rivoluzionaria, Silvestri, i cui punti di riferimento politici e morali erano quelli di un socialismo turatiano, lo concepiva in una prospettiva non classistica, ma solidaristica il cui punto di forza non avrebbero dovuto essere tanto le masse, quanto, almeno per il momento, le élites nazionali di progresso uscite più che espresse direttamente dalle masse.

 

18 aprile 2011

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