Vivere non basta. Intervista con Marcello Veneziani Stampa E-mail

Vivere non basta. Intervista con Marcello Veneziani

a cura di Francesco Algisi

 

veneziani_vivere  Nel suo nuovo libro, Vivere non basta (Mondadori, pagg.144, Euro 18,50), Marcello Veneziani immagina che, in seguito al crollo della Casa del Moralista a Pompei, siano rinvenute le lettere che Lucilio scrisse a Lucio Anneo Seneca, il celebre filosofo e letterato latino, coetaneo di Cristo, precettore e poi consigliere di Nerone. Le lettere sviluppano temi di natura universale: la felicità e la fortuna, la bellezza, la gioventù e la vecchiaia, la vita e la morte, il sacro, i miti e gli dei, il corpo e l'amore, gli intellettuali e il potere. Attraverso la penna di Veneziani, Lucilio rivolge a Seneca domande e pone obiezioni, sostenendo la propria visione poetica e raccontando esperienze di vita in cui molti lettori potranno riconoscersi.

  Dottor Veneziani, come si spiega il fatto che “agli animi nobili si addice piuttosto la malinconia” (pag. 15)?

  Lo notava già Aristotele e molti grandi autori lo confermano, sia nelle opere che nell'indole. Il talento e la sensibilità uniti ci inducono a guardare alla finitudine, a ricordare nostalgicamente il passato, a considerare le perdite più delle conquiste... A questo si aggiunge anche una sindrome depressiva legata alla creatività, o meglio ai suoi flussi e alle sue tristezze post-parto o post-coito.

  Quali doni offre la malinconia?

La malinconia ha il dono della sublimazione: si fa canto, arte, letteratura, pensiero, sentimento, nostalgia... Il dolore accende il talento, sospinge la creazione, è la condizione umana che più spinge a guardare alla vita nella sua autenticità.

  Dal libro traspare l’invito a essere in tristitia hilaris e in hilaritate tristis (cfr. pag.16)…

  Lo sosteneva Giordano Bruno. La saggezza è non perdersi nel dolore o nella gioia, è scoprire le ragioni di felicità nel pieno della tristezza o capire i motivi di tristezza nel pieno dell'euforia. L'equilibrio è il fine, ma non va confuso con il grigiore della mediocrità. È piuttosto la capacità di dominare la gioia e la tristezza e di non essere dominati. Capire la continuità della vita e dunque contestualizzare le gioie e le amarezze.

  “Le sofferenze avvicinano agli dei […] non si possono eliminare dalla faccia della terra, dobbiamo caricarcele sulle spalle” si legge a pag. 44. In queste espressioni, si avverte un’eco cristiana…

  Anche gli stoici avevano una concezione di questo tipo. Substine et abstine. Ma quasi tutte le grandi tradizioni di saggezza concordano e combaciano. Non a caso parlavo di dei e non di un solo Dio.

  Lo stesso si può dire per la “santità del soffrire” e per “l’elevazione dell’anima attraverso il dolore e la privazione” (pag. 45)…

  Sì, c'è una visione stoica o eroica della vita che precorre la visione cristiana. Ma si può dire che solo con il cristianesimo e con la teologia cattolica quella concezione assume una gloriosa compiutezza.

  Qual è l’interpretazione autentica della lettera XVI Su Gesù e i falsi profeti?

  È il confronto tra il pensiero pagano e il pensiero cristiano, tra la fede  e la saggezza, i punti di confluenza e i punti di divergenza. Non accolgo nel mio libro né l'idea che il pensiero stoico o greco sia solo pre-cristiano né l'idea opposta del loro antagonismo radicale. Vedo due grandezze e due civiltà a cospetto.

  In che cosa differisce la paura della morte da quella del morire di cui parla a pag. 68?

  L'una è paura del passaggio, l'altra è paura di svanire. La paura di morire è l'umano terrore della sofferenza, dello strazio, del venir meno. La paura della morte è invece lo sgomento davanti all'idea della nostra assenza, la percezione che non ci saremo più.

  Se viene meno la prima paura, perché rimane la seconda?

  Perché la prima possiamo domarla con la speranza o la rassegnazione, con la convinzione che qualcosa persisterà, la nostra anima sarà immortale o rientreremo nel grande tutto ci scioglieremo nell'Unità. La seconda invece è paura fisica e paura del dolore dei tuoi cari, è  paura del dolore.

  Perché è tanto ricorrente il riferimento alla morte in queste lettere “sulla felicità”?

  Perché se Vivere non basta bisogna interrogarsi pure sul suo rovescio, e non c'è vita degna di  essere vissuta che non scorra a fianco alla morte. La felicità ha il suo rovescio e la perfezione è riuscire a trovare un punto di confluenze tra l'essere e il finire.

  “Il tempo si rivela una sfera e ciò che fu ritorna” (pag. 103). È un’idea cara a Nietzsche…

  Fu un'idea presente in molte concezioni tradizionali, e poi nella grande filosofia presocratica. Nietzsche è l'ultimo tra i grandi pensatori ad aver pensato alla concezione sferica e al ritorno, dopo l'ubriacatura del mito progressivo o della storia lineare. Il richiamo non è solo a Nietzsche, anche a Vico, che ha figurato un percorso a spirale degli eventi, con ritorni di analogia. La visione sferica del tempo non collima, va detto, con la visione escatologica cristiana.

  Quali sono gli autori e i testi “importanti per chi ama la saggezza” cui allude a pag.10?

  È un percorso e non può limitarsi a pochi testi o autori. Andrei dai testi classici della sapienza (Vedanta, Upanishad, Talmud, Bibbia, ecc.) ai capisaldi della letteratura (Iliade, Odissea, Eneide, Divina Commedia, ecc.) fino alle opere dei grandi filosofi (da Platone a Plotino, da Seneca a Boezio, per arrivare alla filosofia moderna, in un cammino che va da Pascal a Simone Weil).

 

17 maggio 2011

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