I piedi dei Soviet. Intervista con Mario Alessandro Curletto Stampa E-mail

I piedi dei Soviet. Intervista con Mario Alessandro Curletto

a cura di Francesco Algisi

 

curletto_piedi_dei_soviet  Mario Alessandro Curletto insegna Letteratura e Civiltà russe all’Università di Pavia. È autore dei seguenti volumi: Spartak Mosca. Storie di calcio e potere nell’URSS di Stalin (il melangolo, 2005);  Futbolstrojka (Socialmente, 2008), scritto insieme con Romano Lupi; L’anima  di una cattiva compagnia, vita e imprese mirabolanti di Vladimir Vysockij (I libri di emil, 2010), scritto insieme con Elena Buvina. Curatore della versione italiana delle opere di Aksakov, Turgenev, Gor’kij, Bulgakov, Remizov, Grossman, Kuraev, ha recentemente dato alle stampe I piedi dei Soviet (il melangolo, pagg.244, Euro 11,00), un saggio che ricostruisce la storia dei rapporti del potere sovietico con il gioco del calcio dalla Rivoluzione d’ottobre alla morte di Stalin.

  Prof. Curletto, quali differenze sussistono, sul piano calcistico, tra l'Urss di Lenin e quella di Stalin?

  La Rivoluzione d’Ottobre non arrestò la diffusione del calcio, anzi la favorì, perché gli impianti dei vecchi circoli e club sportivi, a cui avevano accesso solo i soci dietro pagamento di una quota proibitiva per le classi popolari, vennero nazionalizzati e messi a disposizione di una nascente organizzazione sportiva di tipo “dopolavoristico”. Tuttavia, intorno alla metà degli Anni Venti si aprì un aspro dibattito intorno allo sport agonistico, e in particolare al calcio e al pugilato, che erano, insieme con l’hockey (giocato non con il disco ma con la pallina)  le discipline più amate dal popolo. Il Proletkul’t chiese persino l’abolizione del calcio in quanto attività diseducativa, che premiava l’inganno (come tali venivano considerati dribbling e finte) e favoriva la violenza, tanto in campo quanto tra il pubblico. Altri proposero di riformare radicalmente le regole del gioco (per esempio rendendo impossibile il contatto fisico tra i giocatori), ma alla fine non se ne fece nulla perché il popolo (attraverso lettere ai giornali per esempio) fece chiaramente intendere di amare il calcio così com’era, anche se “politicamente non troppo corretto”. Negli Anni Trenta il calcio divenne forse il più trasversale degli spettacoli, capace di appassionare tutti, operai, militari, intellettuali, alti burocrati, uomini e donne. D’altro canto, come era scontato, data l’enorme popolarità, il calcio sollecitò anche la vanità degli altissimi dirigenti militari e politici, a partire da Berija, presidente onorario del club sportivo Dinamo, appartenente al Ministero dell’Interno, che cercò di sbarrare la strada ai club concorrenti con i modi che gli erano propri: violenza, arresti, torture, gulag e così via.

  Lei scrive che, sin dall'origine dell'organizzazione sportiva socialista, "lo status professionistico degli atleti aveva costituito un tabù". Dunque, nell'Urss staliniana non vi erano ufficialmente atleti professionisti?

  Nell’Unione Sovietica lo status giuridico dello sportivo professionista non è mai esistito. Per concentrarci sull’epoca staliniana, va detto che i calciatori più importanti erano personaggi di ampia notorietà, equiparabili in questo agli attori, ai ballerini, ai cantanti di musica lirica e di musica leggera. Ma nominalmente avevano tutti un’altra professione, nella maggioranza dei casi erano militari o poliziotti. In realtà pochi di loro, terminata la carriera calcistica, proseguivano quella militare. I calciatori sovietici avevano la possibilità di allenarsi come i professionisti, ma non avevano stipendi  paragonabili a quelli dei loro colleghi occidentali. Certo, godevano di  qualche privilegio, per esempio sul piano abitativo, ma sempre in un contesto molto “austero”.

  Quali erano i principi basilari della "dottrina sportiva" sovietica?

  Da un lato lo sport, come del resto l’arte (letteratura, arti figurative, cinema ecc.) doveva avere una funzione eminentemente educativa. Dall’altro i dirigenti dei dicasteri a cui facevano capo i vari club sportivi pretendevano dai loro atleti di vincere, per una questione di prestigio e di potere. Quando poi gli sportivi sovietici partecipavano a qualche competizione internazionale (eventualità molto rara fino agli Anni Cinquanta), erano chiamati a difendere l’onore della Patria e dimostrare la superiorità del sistema socialista. Viste tali premesse, non sorprende come un dato costante delle autobiografie dei calciatori sovietici (e degli atleti in generale) sia il ricordo della tensione derivante  dalla coscienza delle proprie responsabilità morali, un peso che diventava quasi insopportabile in occasione di appuntamenti sportivi cruciali quali Olimpiadi, Campionati del Mondo ecc.   

  Come va interpretato il fatto che in Urss, durante la Grande guerra patriottica, continuarono a disputarsi i tornei calcistici?

  Va interpretato certamente come un segno di quanto fosse radicato nella vita dei cittadini sovietici questo sport, capace di accendere gli animi di autentica passione. In un tempo durissimo, tragico come quello della Seconda Guerra Mondiale, quando i cittadini sovietici erano chiamati a una resistenza che si può senza retorica definire eroica e dovevano subire privazioni tremende sul piano della vita pratica (fame, freddo ecc.), le autorità cercarono di far sopravvivere almeno quelle manifestazioni della vita culturale e associativa in genere che potevano costituire un momento di svago e soprattutto far intravedere la possibilità di un ritorno a una vita “normale”. Come si apprende dalle memorie di Lev Jašin, all’epoca quindicenne, la disputa del torneo per l’assegnazione della Coppa dell’URSS di calcio nel 1944 (cioè ancora in tempo di guerra) ebbe un effetto addirittura galvanizzante sui giovani e suggerì anche alla popolazione anagraficamente più matura il confortante pensiero che il peggio doveva essere veramente passato.

  La libertà di espressione concessa agli spettatori delle partite (pag. 165) può essere intesa come una valvola di sfogo delle frustrazioni represse della popolazione sovietica?

  Certamente a differenza delle altre forme di spettacolo e delle frequenti, rituali manifestazioni di massa, la partita di calcio non aveva un copione già scontato e permetteva anche, ai più arditi, di concedersi il lusso di scandire, per esempio, qualche slogan contro la squadra del Ministero dell’Interno o quella dell’Esercito. Sulle tribune dello stadio si poteva gridare, lasciare libero sfogo (entro certi limiti) alle proprie emozioni, persino abbracciarsi con l’occasionale vicino di posto o discutere animatamente con lui, a seconda dei casi. Questo non era poco per una società dove dominavano in ogni ambiente conformismo, paura e sospetto.  Forse anche questo contribuiva ad aumentare il fascino del calcio. La relativa libertà di espressione (ricordo che gli spettatori non potevano avere indumenti con i colori delle squadre e tanto meno bandiere e striscioni) di cui si poteva godere sulle tribune degli stadi forse più che concessa era tollerata.

  Dalle autorità sovietiche lo stadio era visto come uno strumento utile per il controllo sociale?

  In certa misura credo di sì. I cinegiornali degli Anni Trenta e del dopoguerra (seconda metà degli Anni Quaranta e primi Anni Cinquanta) mostrano gli spalti dei grandi stadi sovietici gremiti di uomini in giacca e cravatta e donne in abito elegante e cappello in testa, come fossero a teatro. L’appuntamento con la partita di calcio era qualcosa di profondamente e sinceramente sentito, capace di distrarre temporaneamente dai problemi, dalle tragedie personali e familiari (per esempio, tutti avevano qualche parente o amico scomparso nei gulag), avvicinava in una passione comune figure sociali che, a dispetto del proclamato superamento delle classi, avevano stili e livelli di vita molto diversi tra loro. Bisogna dire altresì che il potere, se si serviva del calcio come strumento di controllo sociale, spesso veniva contagiato dalla passione calcistica: l’esempio delle pazzie compiute da Vasilij Stalin e dei crimini nefandi commessi da Lavrentij Berija per le rispettive squadre del cuore è eclatante, ma leggendo l’autobiografia di Nikolaj Starostin (fondatore e anima dello Spartak Mosca) possiamo costatare che i comandanti dei vari gulag sparsi nel Nord e in Siberia si contendevano in ogni modo i migliori calciatori reclusi per schierarli nelle varie Dinamo, società sportiva del Ministero degli Interni che aveva filiali in ogni città e cittadina, a maggior ragione in quelle che sorgevano vicino ai gulag.

  Lei dedica diverse pagine alla cosiddetta "partita della morte" disputata nel 1942 tra i giocatori ucraini e gli ufficiali tedeschi. Perché essa è tanto importante?

  La partita giocata il 9 agosto 1942 nella Kiev occupata dai nazisti, tra una selezione di militari tedeschi (i migliori calciatori di cui le truppe di occupazione disponessero nella capitale ucraina) e una squadra di calciatori ucraini che prima della guerra avevano militato nella Dinamo Kiev e nel Lokomotiv Kiev, non ebbe in sé nulla di eccezionale: in realtà fu l’ultimo di dieci incontri che la compagine ucraina (denominata Start) disputò contro squadre delle truppe occupanti (tedesche e ungheresi), e come le altre nove si concluse con la vittoria degli ucraini. Il fatto che la rese memorabile è il mito che intorno a essa sorse (in sostanza casualmente) a partite dal momento della liberazione di Kiev da parte dei sovietici nel novembre 1943, e si sviluppò nei decenni in forma di racconti, romanzi, film, non solo in URSS ma anche all’estero. Persino un film hollywoodiano, Fuga per la vittoria (Escape to victory,  1981), diretto da John Houston, con Sylvester Stallone, Michael Caine e una serie di calciatori, tra i quali Pelé, Ardiles, Deyna ecc, fu molto liberamente ispirato alla cosiddetta “partita della morte”. Questa definizione, “partita della morte”, deriva dal fatto che quattro calciatori ucraini che scesero in campo quel giorno, effettivamente furono poi assassinati dai nazisti, ma ciò avvenne diversi mesi dopo, e nessuno ha mai potuto provare un legame diretto tra i due eventi (partita e assassinio). Praticamente da subito le autorità sovietiche accertarono la realtà dei fatti, e uno scrittore poi espatriato la rese pubblica in un suo romanzo documentario (questa era la definizione) uscito in URSS nel 1966, ma il mito non ne risultò per nulla scalfito. Dall’epoca della perestrojka in poi sull’argomento si è scritto molto, tanto che ormai sulla cosiddetta “partita della morte”  mito e realtà  oggi coesistono, su piani diversi.

  Nel maggio 1952 la nazionale sovietica sconfisse in amichevole la fortissima Ungheria di Puksás (pag. 178). L'Urss era quindi una buona squadra sul piano tecnico e tattico?

  Sul piano tecnico era sicuramente una buona squadra, su quello tattico poi era addirittura all’avanguardia, visto che il suo commissario tecnico, Boris Arkad’ev, aveva elaborato un sistema di gioco (lo chiamava “caos organizzato”) che preannunciava addirittura il “calcio totale” esibito negli Anni Settanta dall’Ajax di Amsterdam guidata da Rinus Michels e poi da Stefan Kovacs. Con il “caos organizzato”, il CDKA di Mosca allenato da Arkad’ev aveva dominato la scena sovietica nel dopoguerra.

  Quali erano i "principi fondamentali del calcio sovietico" cui alludeva Konstantin Adrianov (vicepresidente del Comitato Pansovietico per le questioni della Cultura Fisica e dello Sport) nella relazione introduttiva della conferenza scientifico-metodica sul calcio del gennaio 1953?

  Molto probabilmente quali fossero i "principi fondamentali del calcio sovietico" a cui alludeva, non lo sapeva neppure Konstantin Andrianov, che non era tecnico, bensì un politico. La sua relazione era in sostanza una requisitoria contro Boris Arkad’ev, commissario tecnico della nazionale sovietica sconfitta (peraltro con onore) dalla forte Jugoslavia di Tito alle Olimpiadi di Helsinki nel 1952. Questo è un tipico esempio delle ridicole motivazioni ideologiche di cui il partito-stato ammantava le proprie ingerenze nel mondo del calcio. Così lo scioglimento del CDKA, squadra di club allenata da Arkad’ev, come punizione per dopo la sconfitta patita dalla nazionale (non dal CDKA) contro la Jugoslavia, appare a prima vista come un provvedimento insensato; in realtà fu un pretesto colto al volo da Berija per togliere di mezzo il CDKA, in quegli anni rivale insuperabile per la sua Dinamo Mosca. E tuttavia, in assenza del CDKA, il campionato del 1952 non fu vinto dalla Dinamo ma, per ironia della sorte, dallo Spartak, società che Berija odiava più di ogni altra.

  Dalla ricostruzione delle due partite giocate tra l'Urss e la Jugoslavia di Tito alle Olimpiadi del 1952 si evince che le autorità sovietiche vedevano il calcio come "la continuazione della politica con altri mezzi"…

  Penso che quando si tratta di Olimpiadi o di Campionati Mondiali di calcio, i governanti di tutti i paesi considerino lo sport come "la continuazione della politica con altri mezzi". Più i paesi sono potenti (oggi Cina, Usa, Russia), più questo atteggiamento diventa vistoso e irritante, ma credo che nessun paese ne sia immune. Certo che l’ottusità e la rozzezza con cui le autorità sovietiche gestirono la questione della partita contro la Jugoslavia di Tito nel torneo olimpico di Helsinki 1952 si rivelò del tutto controproducente.

  Nel libro si legge che Stalin "si interessava poco al calcio ed era tutt'altro che un intenditore in materia" (pag.210)…

  Il fatto è abbastanza risaputo, su di esso concordano tutti coloro che si sono occupati delle travagliate vicende dei rapporti tra calcio e vertici dello Stato sovietico negli Anni Trenta e Quaranta. Una delle fonti più attendibili sono le memorie di Nikolaj Starostin, con le quali concordano quelle di altri due fratelli della dinastia: Aleksandr e Andrej.  Nikolaj Starostin scrive che Aleksandr Kosarev segretario del Komsomol (“sponsor” politico dello Spartak) nel 1936 ebbe l’idea di organizzare per il 6 luglio (giornata della cultura fisica), una partita di calcio dimostrativa sulla Piazza Rossa. A giocare furono la prima squadra e la squadra riserve dello Spartak Mosca. La principale preoccupazione degli organizzatori fu quella di fare in modo che Stalin, completamente digiuno in materia, durante la rappresentazione calcistica della durata prevista di 30 minuti, non si annoiasse, apprendesse qualcosa sulle regole del gioco e, possibilmente, provasse un certo interesse. In modo da dare al capo supremo una dimostrazione il più completa possibile del calcio, furono programmate in anticipo (vi lavorò un regista teatrale) le azioni dei 7 gol previsti ed effettivamente realizzati (risultato finale 4-3 in favore dei titolari). Stalin apparve divertito, tanto che la partita durò 43 minuti invece dei 30 previsti, ma questo non lo portò affatto ad interessarsi stabilmente di calcio. D’altro canto esiste un episodio che fa pensare a un disinteresse totale del dittatore anche per l’altro sport nazionale russo, l’hockey su ghiaccio. Nel primo dopoguerra, quando gli addetti ai lavori pensarono di introdurre in URSS l’hockey con il disco (quello che tutti conosciamo), sino ad allora non praticato nel paese dei soviet, di fronte all’obiezione avanzata da più parti sulla natura borghese di tale sport, decisero di chiedere il parere dello stesso Stalin. Interpellato in proposito durante una riunione ufficiale dei vertici dello stato, il capo supremo non diede alcuna risposta: molto probabilmente non capì neppure di cosa gli stessero parlando. Il suo silenzio fu interpretato come un assenso.

23 maggio 2011

Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA