Scacco allo zar. Intervista con Gennaro Sangiuliano Stampa E-mail

Scacco allo zar. Intervista con Gennaro Sangiuliano

a cura di Francesco Algisi

 

sangiuliano_scacco  Gennaro Sangiuliano, giornalista e scrittore, è vicedirettore del Tg1. Già vicedirettore di Libero, collabora al Domenicale di Il Sole-24 Ore. Ha pubblicato numerosi libri tra cui, nel 2008, Giuseppe Prezzolini, l'anarchico conservatore (Mursia), finalista al premio Acqui e vincitore del premio Dorso, e il recente Scacco allo Zar. 1908-1910: Lenin a Capri, genesi della Rivoluzione (Mondadori, 2012, pagg.154, Euro 18,50). 

  Dottor Sangiugliano, perché la storiografia su Lenin ha spesso taciuto riguardo ai viaggi capresi del Capo bolscevico?

  Le presenze di Lenin a Capri o sono state del tutto eliminate oppure derubricate a fuggevoli vacanze. Ciò è avvenuto per un motivo preciso. Oserei dire estetico: non era coerente con l’iconografia rivoluzionaria il fatto che il grande capo del bolscevismo e riconosciuto come l’icona del comunismo mondiale avesse preparato la Rivoluzione d’Ottobre fra gli agi e i lussi di una Capri aperta solo alla grande nobiltà. Lenin era un aristocratico e viveva secondo gli stili di vita dell’aristocrazia dell’epoca. L’immaginario socialista vuole credere a una rivoluzione proletaria nata nelle officine. Così non è stato, tutto fu determinato da un’élite capace e determinata che seppe operare bene nelle dinamiche del potere volgendole a suo favore.

  Anche la presenza di Stalin a Capri è stato ignorata e talvolta negata dai biografi…

  Se Stalin è stato a Capri (nel mio libro lascio aperta l’ipotesi che alcuni autori sostengono) fu per capire come era finita la vicenda della spartizione dei fondi provenienti dalla rapina di Tiflis e soprattutto per richiamare un distratto Lenin ai suoi doveri rivoluzionari. I bolscevichi si finanziavano con le rapine e i soldi erano decisivi per l’egemonia politica nel movimento socialista.

  Che importanza hanno, sul piano storico, i viaggi di Lenin a Capri e la permanenza dello stesso presso la villa di Maksim Gor’kij?

  Sul terreno delle dinamiche storiche ritengo che il fatto più rilevante dei soggiorni capresi possa essere stato il contatto con lo stato maggiore militare tedesco, vero depositario della politica estera del Kaiser, che in quegli anni tentava di capire quale potesse essere il riferimento politico rivoluzionario da supportare e finanziare. Per due volte nel Novecento la Germania si è alleata con il “nemico ideologico” comunista, la prima volta per sovvertire la monarchia zarista, la seconda con il patto scellerato Molotov-Ribbentrop ai danni della Polonia. Capri era l’isola dei Krupp, i grandi industriali degli armamenti, che ospitavano per vacanze i vertici della casta militare tedesca. La Germania voleva capire, nel marasma delle correnti socialiste russe, chi fosse l’uomo su cui puntare per scardinare dall’interno l’Impero russo. Forse, a Capri si comprese che l’uomo giusto era Lenin. Da quel momento, infatti, un fiume di denaro passò da Berlino ai bolscevichi, e qualche anno dopo la Germania si impegnò a organizzare il trasferimento di Lenin dalla Svizzera alla Russia per far scattare la Rivoluzione.

  Quali aspetti della figura di Gor’kij potevano indurre la stampa italiana a considerare lo scrittore “una sorta di Mazzini russo da raccontare sui giornali” (pag.31)?

  Mazzini unificò letteratura e battaglia politica, alla ricerca di un’identità comune. L’Italia lottava per l’unità nazionale e lui comprese che un obiettivo politico di tale portata non poteva essere perseguito senza offrire un contenuto culturale, un sentire comune attorno a valori identitari. Gor’kij attraverso i suoi romanzi offriva un’efficace rappresentazione letteraria del disagio degli umili. Per questo fu strumentalizzato dai bolscevichi, per dare decoro al loro progetto politico, una base culturale. In questo senso fu inteso come il “Mazzini russo”.

  Lei scrive (pag. 32) che Gor’kij, “alla domanda del commediografo napoletano Achille Torelli, se auspicasse un avvenire aristocratico o democratico per il futuro della società russa, rispose sicuro: «Aristocratico, aristocratico!»”. Come si spiega tale sorprendente risposta espressa da colui che è notoriamente considerato il padre del realismo socialista?

  È un riflesso condizionato, i rivoluzionari si pensavano come un’élite, un gruppo ristretto investito da una missione storica, i proletari erano solo massa di manovra. Parlerei, dunque, di socialismo aristocratico. Un ossimoro, all’apparenza, ma questo era il senso profondo delle parole di Gor’kij.

  Come va interpretata la “sostanziale e tacita disponibilità delle autorità locali” (pag.34) alla permanenza di Gor’kij sull’isola di Capri?

  A quel tempo l’Italia era governata dal liberale Giovanni Giolitti, che oltre a guidare il governo aveva l’interim del ministero dell’Interno. Indubbio statista ma anche grande manovratore che sapeva muoversi abilmente fra interessi e contrapposizioni. La sostanziale accettazione di Gor’kij e poi di Lenin, nemici di una potenza come la Russia, con la quale la monarchia sabauda intratteneva rapporti di amicizia, si può spiegare come un piccolo prezzo pagato ai socialisti italiani che stavano diventando una forza politica importante e popolare.

  A pag.115 si legge che Gor’kij in pubblico manifestava affetto e ammirazione nei confronti di Lenin, mentre “in privato si mostrava dubbioso sui metodi leninisti”…

  Quello di Gor’kij fu un percorso comune a molti intellettuali, che si verificò anche in Italia rispetto al Pci. Entusiasmo iniziale per le idee del comunismo, l’utopia dell’uguaglianza, il sogno di una felicità sociale. Poi il duro risveglio fatto di violenza, terrore, gulag e la presa d’atto che Lenin era non dissimile dallo zar che aveva abbattuto.

  Come si può definire il “comunitarismo umanitario” di Gor’kij cui accenna a pag.121?

  Fu la variante del marxismo a cui lavoravano Bogdanov, Gor’kij e gli altri esponenti del gruppo di Capri, che per questo organizzarono una loro scuola ideologica. Si trattava di una visione umanitaria, oserei definirla meno dura, del marxismo classico, nella quale la lotta di classe doveva cedere il passo a una soluzione più organicistica e non violenta della dialettica fra i ceti. Lenin avversò duramente questa posizione che per lui rappresentava un’eresia da contrastare con ogni mezzo.

 

16 aprile 2012

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