La guerra democratica. Intervista con Massimo Fini Stampa E-mail

La guerra democratica. Intervista con Massimo Fini

a cura di Francesco Algisi

 

fini_guerra-democratica  Nel nuovo libro intitolato La guerra democratica (Chiarelettere, pagg.289, Euro 14,90), Massimo Fini ha raccolto gli articoli, pubblicati su vari giornali nell’arco di un ventennio, dedicati alle aggressioni compiute dalle Democrazie occidentali dal 1991 a oggi. Partendo dalla Guerra del Golfo (1991), si arriva fino all’intervento contro la Libia dello scorso anno, passando attraverso la Somalia (1992), la Bosnia (1995), la Serbia (1999), l’Afghanistan (2001), di nuovo l’Iraq (2003), ancora la Somalia “per interposta Etiopia” (2006).  

  Dottor Fini, lei scrive che la guerra, in alcuni casi, oltre che necessaria è anche “feconda” e produce alcuni “benefici effetti”…

  Naturalmente non mi riferisco alle guerre democratiche nelle quali manca il combattimento, poiché sono fatte da macchine contro uomini. La guerra, fino all’ultimo conflitto mondiale, permetteva all’uomo di recuperare una gerarchia di valori, privilegiando le cose essenziali a scapito di quelle futili: quando si può morire da un momento all’altro, non si litiga per delle stupidaggini. Non a caso durante le guerre “tradizionali”, come dimostra uno studio di Durkheim, nevrosi e depressione spariscono. Un altro effetto positivo è che in guerra l’uomo misura se stesso. Essendo un avvenimento così fondante, la guerra mette a nudo il valore di un uomo: si capisce se è un vigliacco, un pavido, un temerario, etc.. Naturalmente accanto a questi benefici la guerra produce distruzioni e sofferenze. Essa, tuttavia, restituiva valore alla vita: a quella vera, non alla vita virtuale che conduciamo oggi. Questi temi, comunque, furono oggetto di Elogio della guerra, un libro che scrissi nel 1989.

  La guerra esaminata in quel libro è molto diversa da quella “democratica”…

  Certamente. La guerra in quanto tale è stata distrutta, come tante altre cose, dalla tecnologia. Come spiegava Norman Mailer, la guerra è la “prova suprema”. Che prova ci può essere per uno che teleguida un drone da diecimila chilometri di distanza, lancia dei missili su un villaggio e poi se ne va tranquillamente a mangiare a casa sua? Questa è una roba allucinante, una specie di schizofrenia. Con quel missile magari uccide trecento persone, ma è distante, non può essere colpito e non vede la carneficina che provoca. Quindi, questo tipo di “guerra” diventa molto simile a un videogioco. La tecnologia ha distrutto buona parte dell’umano, anche quella che c’era ovviamente nella guerra.

  In un articolo del 2002, lei scriveva che “il modo di combattere degli americani – quasi esclusivamente dall’alto – è quanto di più vile si possa immaginare”. Questo può essere equiparato al terrorismo?

  Il terrorismo è una conseguenza del modo di combattere – o meglio di non combattere – degli occidentali. Di fronte a un nemico invisibile che bombarda ma non può essere colpito, che cosa resta alla resistenza se non anche l’atto terroristico? Se fossimo nella condizione della vecchia guerra, il terrorismo non esisterebbe o sarebbe del tutto marginale. In Afghanistan, durante l’occupazione sovietica, ci fu una guerra di guerriglia senza alcun attentato terroristico, tantomeno kamikaze, poiché i sovietici stavano sul campo con i loro carri armati. Con l’occupazione degli americani e della Nato, invece, a un certo punto i comandanti militari della resistenza si sono resi conto che le tecniche della guerra di guerriglia non erano sufficienti contro un nemico “invisibile”: quindi hanno chiesto al mullah Omar l’autorizzazione a utilizzare in forma sistematica anche il terrorismo, che è estraneo alla cultura di questo antico popolo tradizionale.

  Auspica ancora la nascita di un’Europa “unita, neutrale, armata e nucleare”, come scrisse nel novembre 2001?

  Sì. La debolezza dell’Europa risiede nel fatto di non essere unita politicamente e attrezzata militarmente: essa dipende ancora e sempre dagli Stati Uniti, che dispongono di decine di basi militari disseminate sul territorio europeo. Purtroppo, noi europei non possediamo gli armamenti necessari per condurre una politica autonoma, ma dobbiamo riconoscere che i nostri interessi e quelli americani divergono. Ciò è ancor più vero oggi, a oltre vent’anni dalla fine del Patto di Varsavia. Prima del 1989, un’alleanza così sperequata come quella della Nato poteva avere un senso, giacché gli Usa erano gli unici dotati di un deterrente nucleare tale da dissuadere l’orso russo dall’aggredire l’Europa occidentale. Oggi la situazione è completamente diversa. L’Europa avrebbe dovuto prendere le distanze dagli Stati Uniti già nel 1989. Le conseguenze di quella mancata decisione si riflettono oggi anche sul piano economico: Obama ci accusa di essere i responsabili della crisi attuale, mentre sappiamo che questa ha preso le mosse proprio dagli Stati Uniti.

  Lei ha definito la Nato come “lo strumento con cui gli americani hanno tenuto soggiogata politicamente e militarmente l’Europa uscita sconfitta dalla Seconda guerra mondiale”. Quindi, è favorevole allo scioglimento dell’Alleanza atlantica…

  Assolutamente sì. Auspico l’uscita dalla Nato dei Paesi che non hanno alcun interesse a starci, perché il tributo che paghiamo attraverso questa alleanza non è compensato da alcun vantaggio. La nostra difesa non dipende più dagli Stati Uniti come ai tempi della Guerra fredda. Gli americani, si dice, ci hanno liberato nel ’45: d’accordo, ma - come ha detto la Littizzetto - “quando scade il mutuo?”. Alcune volte le battute dei comici chiariscono le cose in maniera più efficace di un libro. Oggi la sudditanza europea verso gli Stati Uniti non ha più senso, anche perché gli interessi sia economici sia politici (che sono strettamente legati) sono divergenti. Del resto, l’America preme perché l’Europa si disfi. A parte le guerre che facciamo noi, comunque, ce ne sono altre più consistenti e spettrali: le guerre economiche.

  Riguardo alle armi di distruzione di massa, lei scrive che “non si posseggono per usarle ma come deterrente. Uno Stato armato solo convenzionalmente è totalmente alla mercé di chi invece possiede armi di distruzione di massa”. Dunque, considera legittima l’aspirazione di quegli Stati che cercano di dotarsi di questo tipo di armamenti?

  Se ci sono Paesi che hanno queste armi, non vedo perché altri non abbiano il diritto di possederle. Tutta la grancassa fatta contro l’Iran sulla questione del nucleare è “incomprensibile” e pretestuosa: Teheran ha firmato il Trattato di non-proliferazione nucleare e ha accettato (e accetta) le ispezioni dell’AIEA. Finora queste ispezioni hanno accertato che l’arricchimento dell’uranio da parte degli iraniani non oltrepassa la soglia del 20 per cento, quella necessaria per usi civili e medici. Detto ciò, è abbastanza ridicolo che Stati seduti su arsenali atomici pazzeschi facciano la voce grossa con un Paese che non possiede l’atomica pur avendo qualche ragione di procurarsela, visto che è attorniato da Paesi nucleari (Israele, India, Pakistan e Russia). Quindi, anche se l’Iran volesse dotarsi della bomba atomica (e non mi pare che lo stia facendo), avrebbe le sue ragioni. La propaganda occidentale contro l’Iran finirà per convincere quel Paese a dotarsi di un’atomica o due prima di essere distrutto (il Washington Post e il New York Times hanno rivelato i piani di un attacco nucleare israeliano contro Teheran). In fondo, si fa la voce grossa con l’Iran, proprio perché dal punto di vista atomico è disarmato. Con la Corea del Nord, al contrario, si è più cauti perché è riuscita a procurarsi un paio di atomiche. Quindi, non si sa mai… Solo gli americani, comunque, hanno gettato la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki (tra l’altro a Nagasaki – nessuno lo ricorda – lo fecero tre giorni dopo aver visto l’immane carneficina provocata a Hiroshima). Comunque nessun Paese “normale” oserebbe oggi utilizzare la bomba atomica perché verrebbe immediatamente distrutto. Quindi, quando c’è, l’atomica serve come deterrente.

  “Per tutta la vita ho sognato che bombardassero New York”, scriveva il 10 settembre 2011. È un’espressione molto forte…

  È vero, ma va intesa in questo senso: gli americani, da più di mezzo secolo a questa parte, hanno sempre colpito con assoluto disprezzo delle vite altrui in quasi tutto l’orbe terracqueo (basti pensare ai bombardamenti degli ultimi giorni della Seconda guerra mondiale, con cui colpirono la popolazione civile di Dresda, Lipsia e Berlino, dove non vi erano obiettivi militari, appositamente per fiaccare la resistenza del popolo tedesco, come dissero i loro comandi militari e politici). Prima dell’11 settembre 2011, tuttavia, gli Usa non erano mai stati colpiti sul proprio territorio. Gli attentati contro le Torri Gemelle, dunque, potevano dar loro la consapevolezza che le bombe non sono uno scherzo da usare con tanta facilità (la stessa bomba atomica era totalmente inutile col Giappone già in ginocchio, però non esitarono a usarla). Quindi, con quell’espressione manifestavo la speranza che gli americani potessero comprendere l’orrore dei loro bombardamenti sperimentandolo sulla propria pelle. Mi pare, tuttavia, che da quell’evento abbiano tratto ben altre lezioni. Dopo l’11 settembre le guerre degli Stati Uniti hanno provocato 400mila morti civili; le vittime delle Torri gemelle furono 3000. C’è una certa sproporzione.

  L’aggressione israeliana contro il Libano, nel 2006, può essere considerata una “guerra democratica” al pari delle altre approfondite nel volume?

  Sulla questione israelo-palestinese mi sono pronunciato poche volte, perché mi sembra che entrambe le parti non abbiano alcuna intenzione di fare una pace che sarebbe ampiamente possibile. D’altro canto, sia Israele sia i palestinesi hanno diversi difensori d’ufficio. Quindi, non intendo aggiungere la mia voce a quelle dell’una o dell’altra parte.

  Come giudica la situazione in cui versa attualmente la Siria?

  Penso che si stia ripresentando uno scenario analogo a quello libico: agenti provocatori americani e inglesi stanno fomentando una rivolta contro il regime di Assad, come già fecero con Gheddafi. Se è in atto una guerra civile, deve essere il campo a decretarne il verdetto, non l’intrusione da parte di Stati stranieri. In Libia l’ingerenza occidentale è stata clamorosa. I “rivoltosi” non hanno fatto praticamente niente. La sconfitta delle forze lealiste è stata determinata dall’intervento della Nato, che ha agito bombardando un avversario sprovvisto di aerei e contraerea. Non capisco la logica di tutto questo. O, forse, la capisco troppo bene...

  In alcune parti del volume, si avverte l’eco del pensiero di Carl Schmitt…

  Ho utilizzato la formula schmittiana dello justus hostis ormai scomparsa: per gli occidentali il nemico non è mai justus, ma - si chiami Saddam Hussein, Gheddafi o mullah Omar - è sempre un criminale o un terrorista. Il che naturalmente abbatte quel poco di ius belli che fino alla Seconda guerra mondiale regolava i conflitti.

 

5 giugno 2012

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