Dio, patria e famiglia. Intervista con Marcello Veneziani Stampa E-mail

Dio, patria e famiglia dopo il declino. Intervista con Marcello Veneziani

a cura di Francesco Algisi

 

veneziani_Diopatriafamiglia  In occasione dell’uscita del nuovo saggio di Marcello Veneziani, Dio, patria e famiglia dopo il declino (Mondadori, pagg.151, € 18,50), abbiamo rivolto all’autore alcune domande.

  Dottor Veneziani, quali sono le civiltà dalle “spalle forti” che “continuano a crescere sul piano dello sviluppo, avendo ancora un guscio originario di provenienza situato” nel “preciso triangolo” Dio patria famiglia (pag.5)?

  Non conosco nessuna civiltà che sia sorta rinunciando ai principi basilari che la costituiscono e che sono, pur diversamente interpretati, il senso religioso, l'amor patrio e il legame famigliare. E viceversa conosco le civiltà in declino che tramontano insieme ai loro fondamenti. Rovescerei dunque la sua domanda: mi sa indicare una sola civiltà che sia sorta abiurando a quei principi? È la differenza tra civiltà e civilizzazioni.

  A pag.19 lei scrive che “mai i popoli felici furono i più colti o istruiti”. A quali popoli allude in particolare?

  Se dico mai evidentemente non sto alludendo a qualcuno in particolare, mi riferisco a una considerazione di ordine generale: che la felicità non si accompagna con la cultura e con l'istruzione. E naturalmente il sottinteso non è che bisogna rinunciare all'una o all'altra ma vivere la contraddizione senza immaginare utopie di società perfette che sono felici perché colte.

  È realizzabile una democrazia che non si accanisca “sulla qualità, la grazia e le eccellenze” (pag.22)?

  La democrazia in sé tende naturalmente a non riconoscere le qualità e le eccellenze; ha bisogno di contrappesi meritocratici, qualitativi, perfino aristocratici per raggiungere quel difficile equilibrio.

  Che cosa intende con l’espressione “virtuose disperazioni” (pag.23)?

  Basta leggere il contesto per rendersene conto. Io sostengo che a volte si riesce a mettere a frutto la disperazione, a generare da una condizione di amarezza e di sconforto l'impulso a creare frutti e opere. È il modo per rendere appunto virtuose le disperazioni.

  Perché oggi l’identità è vista come “un male, una chiusura, un carcere, una sclerosi” (pag.27)?

  Perché si ritiene che l'identità precluda la nostra libertà di divenire altro, ci chiude alla possibilità, ci impedisce di liberarci, emanciparci, negarci a nostro piacimento, fino a sentirci autocreati. L'identità ci inchioda al nostro essere e ci permette al più di divenire ciò che siamo, ovvero realizzando ciò che siamo in potenza, passando dal virtuale al reale.

  È possibile giungere a Dio, patria e famiglia mediante il pensiero di Nietzsche ed Evola (cfr. pag.30)?

  Non è il cammino più semplice, considerando che sono due autori che al contrario indicano percorsi diversi. Ma si può giungere a Dio, patria e famiglia perché Nietzsche sa guardare come pochi nel fondo oscuro del nichilismo ed Evola sa indicare come pochi la linea luminosa della Tradizione.

  Come si spiega la “drammatica impotenza della Chiesa a fronteggiare il nichilismo” (pag.49)?

  Per fronteggiare il nichilismo occorre innanzitutto guardare in faccia spietatamente la realtà, capire che siamo immersi nella disperazione; la Chiesa invece si rifugia nella speranza e si barrica dentro la sua fede, com'è inevitabile. Ci invita a fare un salto che oggi appare a troppi un salto mortale dalla ragione alla fede.

  Tale impotenza è in qualche modo legata alla rivoluzione post-conciliare?

  Il Concilio tentò di superare la crisi religiosa andando incontro alla modernità, assecondando alcune sue ideologie, culture, dialogando con taluni, accogliendo il dogma storico del progresso. Ma cinquant'anni dopo possiamo dire che quel tentativo fallì perché la scristianizzazione e la secolarizzazione hanno fatto passi da gigante.

  A pag.54 si legge che “Dio è il nostro colmo e il nome della nostra mancanza”. Che cosa significa?

  Che Dio segna il nostro limite, ci riempie fino all'orlo della sua presenza o viceversa ci fa avvertire tutto il peso della sua mancanza, il nostro vuoto. Quindi Dio diventa il nome che indica in sua presenza la nostra pienezza e in sua assenza la nostra mancanza.

  Che cosa ci induce ad avvertire Dio, la patria e la famiglia “quando vengono a mancare” (pag.145)?

  Quando percepiamo l'insufficienza di quei principi per spiegare il mondo e riempire la nostra vita, o quando coltiviamo l'autosufficienza presunta e presuntuosa e riteniamo di poter fare a meno di ogni proiezione, relazione e apertura fuori dal proprio io. Quando l'io, tramite i mezzi di cui dispone, la tecnica o l'economia, pensa di poter esaurire il discorso della vita e del mondo in sé, ha smesso di pensare a Dio, alla patria e alla famiglia. Ma poi, dopo la fase euforica sorge la fase depressiva, e ne avvertiamo la mancanza anche se stentiamo a riconoscerlo.

 

4 dicembre 2012

Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA