Mons. Marcel Lefebvre: nel nome della verità. Intervista con Cristina Siccardi Stampa E-mail

Mons. Marcel Lefebvre: nel nome della verità. Intervista con Cristina Siccardi

a cura di Francesco Algisi

 

 

siccardi_lefebvre   Cristina Siccardi, nata a Torino nel 1966, è sposata e ha due figli. Laureata in lettere con indirizzo storico, è specializzata in biografie. Ha scritto per « La stampa », «La Gazzetta del Piemonte», «Il Nostro Tempo » e collabora con diverse riviste culturali e religiose, fra cui «il Timone». È membro delle accademie «Paestum», «Costantiniana», «Ferdinandea», «Archeologica italiana». Fra le sue più di quaranta opere ricordiamo: Giulia dei poveri e dei re. La straordinaria vita della marchesa di Barolo (1998); Elena. La regina mai dimenticata (2002); Giovanna di Savoia. Dagli splendori della reggia alle amarezze dell’esilio (2002); La «bambina» di padre Pio. Rita Montella (2003); Santa Rita da Cascia e il suo tempo (2004); Monsignor Luigi Talamoni. Tutto è nulla se non è nell’amore di Dio (2004); Fratel Silvestro. La vite di Dio (2006); Mafalda di Savoia. Dalla reggia al lager di Buchenwald (2004); Paolo VI. Il papa della luce (2008); Padre Luigi Scrosoppi. Quando l’umiltà si fa gloria (2008); Sposi per davvero. La vita di Rosetta e Giovanni Gheddo (2008); Tutto il mondo in un solo cuore. Maddalena Sofia Barat (2009). Dal suo studio dedicato alla principessa Mafalda è stata tratta la fiction per Canale 5 Mafalda di Savoia. Il coraggio di una principessa, prodotta da Angelo Rizzoli e diretta dal regista Maurizio Zaccaro.

 

 

   Dottoressa Siccardi, da qualche mese è in libreria il suo volume Mons. Marcel Lefebvre. Nel nome della verità (Sugarco edizioni). Perché ha deciso di scrivere la biografia del fondatore della FSSPX?

  Perché, imbattutami nella Fraternità Sacerdotale San Pio X a causa dei miei studi su Papa Paolo VI, mi si è palesata l’importanza storica e religiosa di questo sant’Atanasio dei tempi moderni: ho compreso come la Verità e le verità di sempre spieghino anche l’oggi e la sua crisi. Quando la Fraternità stessa, quindi, mi ha chiesto di scrivere questa biografia, assicurandomi di avere già trovato un editore cattolico (Sugarco) disponibile alla pubblicazione, ho accettato, con quel sentimento di orgoglio ed umiliazione insieme, tipico di chi si appresta ad un compito superiore alle forze che in quel momento presumere di avere.

 

   Quali reazioni ha suscitato il suo libro tra i membri del clero?

  Quando ho accettato di scrivere la biografia dell’appestato Lefebvre presumevo che avrei perso la stima e la considerazione della stragrande maggioranza dei sacerdoti che conoscevo. Non fu così; posso, anzi, affermare che tanti sacerdoti mi hanno ringraziata per questo libro. Molti, leggendolo, hanno risvegliato, almeno in parte, la gioia della loro vocazione, per decenni soffocata da sociologismi modernisti.

  Mi fa particolare piacere ricordare un sacerdote a me molto caro,  ma che sapevo trascinato su posizioni più progressiste di quelle che naturalmente avrebbe avuto,  che mi ha telefonato per complimentarsi e, soprattutto, mi ha confidato di aver conosciuto personalmente Monsignor Lefebvre: un segreto gelosamente custodito, quasi fosse stata una colpa inescusabile: questa biografia è stata strumento di liberazione spirituale, io credo, per molti sacerdoti, cui l’oppressione di una certa parte di Chiesa (penso, in particolare, alla mia Torino sotto padre Pellegrino) aveva impedito di godere appieno della bellezza del sacramento dell’ordine.

 

   Quanto ha contribuito il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI alla rivalutazione della figura di Mons. Lefebvre?

  Il Motu Proprio Summorum Pontificum del 2007 non è che una delle tappe, sia pure tra le più importanti, del Pontificato di Benedetto XVI. Mentre obiettivo di tutti i Papi, a partire da Giovanni XXIII, fu l’unità ecumenica dei cristiani, l’obiettivo a cui il felicemente regnante Pontefice mira è l’unità diacronica della Chiesa, vale a dire far emergere come non ci sia soluzione di continuità tra la Pentecoste (l’unica Pentecoste) e l’oggi, tra san Pietro e Benedetto XVI. Si pensi, a titolo di esempio, alla Via Crucis del 2005, ancora sotto il regno di Giovanni Paolo II, alla chiusura, di fatto, di Assisi, al discorso per gli auguri di Natale alla Curia Romana di quel medesimo cruciale anno… È di ogni evidenza che, in questo grandioso disegno è essenziale il reintegro, anche formale, nella piena giuridicità della Chiesa, di coloro che della Tradizione, vale a dire dell’immutato depositum Fidei, hanno fatto la loro ragione di vita. Benedetto XVI ha ricevuto Monsignor Fellay, superiore generale della Fraternità San Pio X ed allora ancora formalmente scomunicato, già nell’agosto del 2005, quattro mesi dopo la sua elezione.

  Certamente il Motu Proprio, che liberalizza il Messale che «non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso», come dice il Santo Padre nella Lettera di accompagnamento al Motu Proprio indirizzata ai Vescovi, segna una tappa fondamentale, soprattutto per chi pensava che la Messa Vetus Ordo fosse ormai un pezzo d’antiquariato e perché rende chiaro a tutti l’atteggiamento di Benedetto XVI in fatto di Liturgia, atteggiamento già espresso nelle parole di fuoco che ebbe nella sua autobiografia nei confronti della proibizione de facto di un rito assolutamente cattolico.

 

   Dal suo libro sembra emergere un'immagine positiva di Paolo VI…

  La figura di Paolo VI non può, a mio modesto avviso, essere letta in un’unica chiave: si tratta di una personalità complessa, di un uomo molto sensibile, incline al monachesimo e al misticismo, non dotato di capacità di governo, influenzabile in quanto tendente ad immedesimarsi nell’interlocutore, più disponibile ad addossarsi responsabilità e colpe che ad imputarle agli altri. La profondissima sensibilità spirituale che lo contraddistingueva non era supportata da una sufficiente preparazione teologica e filosofica, in quanto, per ragioni di salute, non aveva potuto frequentare il Seminario e, nella sua casa e sotto la direzione spirituale dell’Oratorio della Pace di Brescia e, in particolare, di padre Bevilacqua, il Cattolicesimo era vissuto maggiormente come politica che come dottrina.

  Nonostante ciò, Papa Montini pose, oggettivamente, alcuni argini alla montante marea modernista. Si pensi alla proclamazione della Madonna come Madre della Chiesa, così ostacolata dal filoprotestantesimo ecumenista di molti padri conciliari. Ma due sono i meriti inoscurabili di questo Pontefice, uno sul piano dottrinale e uno su quello etico. In primo luogo quello che pare avere sortito minori effetti, ma che, nel lungo periodo, come aveva intuito Monsignor Lefebvre, sarà di maggiore momento, vale a dire il «Credo di Paolo VI» nel quale vengono ribadite tutte le verità cattoliche, spiegate con la soavità letteraria caratteristica di questo Pontefice, ma in nulla attenuate.

  Sul fronte etico l’enciclica Humanae vitae segna la più importante vittoria della resistenza al modernismo, consentendo ai suoi successori  di resistere su questa linea del Piave cattolica: si è attirato l’insurrezione di un numero impressionante di episcopati, ma ha ribadito la posizione cattolica in materia di etica coniugale, oltretutto con una nettezza per lui inusuale e addirittura superiore a quella utilizzata dai suoi predecessori sul medesimo argomento.

Non si può, quindi, dire che la sua figura sia tout court positiva, come non si può affermare che sia negativa. Ci sono alcune luci ed alcune ombre, queste dettate più da debolezza che da disegno novatore.

 

   Più ombre che luci sembrano invece caratterizzare il pontificato di Giovanni XXIII…

  Mentre Paolo VI subì il Concilio e non lo avrebbe mai convocato, Giovanni XXIII perseguì linearmente e lucidamente la trasformazione della Chiesa. La lettura del Cattolicesimo di Angelo Roncalli fu intrisa di razionalismo; si caratterizza per una profonda ostilità nei confronti dei mistici e per un modo politico di sentire il Pontificato. A questo riguardo, esemplificativa è la vicenda di Padre Pio, che egli definì il «fantoccio di pezza» e che perseguitò con una durezza  difficilmente comprensibile, giungendo ad autorizzare la posa di microfoni nel luogo dove Padre Pio era solito confessare, con conseguente clamorosa violazione di quel segreto che un sacerdote non ha il diritto di tradire nemmeno per salvare un innocente dalla pena di morte. Anche qui il contrasto con Paolo VI è stridente: fu lui, infatti, non solo a liberare Padre Pio, ma a concedergli l’indulto per continuare a celebrare la Messa di sempre.

  Si può dire che tutto ciò che Paolo VI concesse per debolezza, era stato voluto e previsto per disegno da Giovanni XXIII.

 

   Nel libro non vi è alcun accenno a Padre Guérard des Lauriers…

  Il rapporto fra Monsignor Lefebvre e Padre Guérard des Lauriers fu momentaneo e fugace, in un momento particolare, esistenziale e teologico, del domenicano e non comportò particolari influssi né sulla vita, né sul pensiero del fondatore di Écône. Un fatto tanto marginale avrebbe, però, richiesto una lunga ed approfondita disamina dottrinale: l’analisi teologica della teoria del «Cassiciacum» avrebbe appesantito la biografia.

 

  Lei scrive (pag.185) che Mons. Lefebvre negò di aver firmato la Dignitatis humanae e la Gaudium et spes. Poi aggiunge che "in realtà le firmò". Potrebbe chiarire meglio questo punto?

  Non posso, in questa sede, che ribadire quanto già detto nella biografia. Come testimoniato da monsignor Tissier de Mallerais, monsignor Lefebvre firmò i documenti conciliari come atto dovuto e non come libera adesione al loro contenuto; questo atto, dovuto e formale, nulla toglie alla contrarietà espressa con il voto. Per ciò che concerne le due negazioni di quelle firme fatte da monsignor Lefebvre posso presumere che siano da ascrivere ad una confusione tra il voto (e, quindi, l’adesione, che non ci fu mai) e la firma (atto formale che testimonia la presenza alla promulgazione).

 

   Chi definisce Mons. Lefebvre come scismatico compie "un falso storico e giuridico", si legge a pag.269. D'altra parte, lo stesso Mons. Lefebvre considerava scismatica la Chiesa conciliare "perché rompe con la Chiesa cattolica di sempre"…

  Definire Monsignor Lefebvre e, conseguentemente, la Fraternità sacerdotale San Pio X come scismatici è un falso in quanto per essere scismatici bisogna attuare uno scisma, vale a dire bisogna staccarsi dalla Chiesa di Roma e negare alle sue autorità, in primis al Papa, la loro legittimità. Le contestazioni (anche durissime), le disobbedienze e le puntualizzazioni dottrinali dell’Arcivescovo emerito di Dakar e dei suoi figli non si tradussero mai in un mancato riconoscimento della legittimità dei Pontefici pro tempore regnanti. Si contestarono sempre singoli atti, singole affermazioni, singole interpretazioni; tali atti, tali affermazioni e tali interpretazioni non rivestirono mai un carattere tale da impegnare la Fede e la volontà del cattolico anche contro la sua coscienza. Lo stesso mantenimento intonso del Messale, con l’Una cum, denota questa assoluta deferenza nei confronti dei Pontefici in quanto tali, anche nei momenti di maggiore scontro. L’avversione di Monsignor Lefebvre nei confronti di ogni forma, moderata quanto estremistica, di sedevacantismo o sedeprivazionismo, fu sempre totale ed inflessibile. Egli ebbe sempre orrore di queste forme di pensiero sedicente cattolico, perché scorgeva lucidissimamente in esse la loro natura protestante.

  Quando i custodi della Tradizione definiscono scismatica la Chiesa conciliare affermano un’ovvietà: la Chiesa cattolica è una, che prosegue dalla Pentecoste alla fine dei tempi; se qualcuno crea una “Chiesa conciliare” diversa nella Fede e/o nella struttura o, anche solo, pone una cesura fra una Chiesa di prima ed una Chiesa conciliare successiva, non fa altro che affermare la nascita di una Chiesa scismatica, perché uscita dalla Chiesa di Cristo.

  Non si può, quindi, porre sullo stesso piano un’accusa di scisma lanciata contro persone ed organizzazioni concrete e determinate, che mai pretesero di staccarsi da Roma e l’affermazione di principio che chiunque non riconosca l’unità diacronica della Chiesa è scismatico. La prima accusa è facilmente confutabile con la dimostrazione della fedeltà di quelle persone e di quell’organizzazione al Papa e alla Chiesa; la petizione di principio, invece, si applica indistintamente a tutti coloro che tengano un determinato comportamento.

  Porre, come può parere adombrare la sua cortese domanda, un sinallagma tra le due suddette affermazioni tende a porre Monsignor Lefebvre sul medesimo piano degli scismatici orientali del 1054, quando le scomuniche reciproche sancirono la loro uscita dalla Chiesa di Cristo: è un modo surrettizio per tentare di dimostrare lo «scisma lefebvriano», scisma che, come abbiamo detto, non avvenne mai né de jure, de facto.

 

  C'è chi sostiene che in punto di morte sarebbe stata revocata la scomunica a Mons. Lefebvre dal Nunzio Apostolico in Svizzera…

  A quanto mi risulta il Nunzio giunse a pregare sulla salma di Monsignor Lefebvre. La voce della revoca della scomunica in extremis è continua e persistente, ma, a mio modesto modo di vedere, non trova sufficiente documentazione storica.

 

   Benedetto XVI ha revocato il decreto di scomunica dei quattro Vescovi ordinati dal "venerato Mons. Lefebvre" nel 1988. Ciò equivale a una delegittimazione dell'atto emesso da Giovanni Paolo II?

  Come dicevamo precedentemente tutto il Pontificato di Benedetto XVI è finalizzato al recupero dell’unità diacronica della Chiesa. Il fatto stesso che questo recupero sia necessario significa che almeno una qualche parvenza di cesura all’interno della Chiesa ci sia stata. La revoca del decreto di scomunica segna, al tempo stesso,  l’apice  raggiunto da questa politica ed il punto di partenza per il completamento della sua realizzazione. È di ogni evidenza che la revoca di un atto compiuto dal proprio predecessore è, de facto, quanto meno un cambio di direzione e che il timone della barca di Pietro abbia subito una brusca sterzata a partire dal 2005 è dato evidente. Non parlerei di delegittimazione, in quanto il Pontefice pro tempore regnante, anche quando dovesse sbagliare, è legittimato, ma mi pare di poter parlare di forte cambio di atteggiamento. Vedendola da un altro punto di vista, si può dire che «i tempi sono cambiati», ma, per evitare di essere soverchiamente ipocriti, è necessario dire che il Cardinale Ratzinger prima e Benedetto XVI poi sono gli artefici di questo cambiamento. Non c’è un’esplicita condanna dell’atto di scomunica del suo predecessore, condanna che mal si concilierebbe con la continuità della Chiesa, ma c’è la fermissima decisione di fare esattamente il contrario e, soprattutto, di rimuoverne gli effetti.

  La revoca del decreto di scomunica è la più bella cartina di tornasole del rapporto tra il pontificato di Giovanni Paolo II e quello di Benedetto XVI.

 

6 settembre 2010

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