Il terrore rosso in Russia. Intervista con Paolo Sensini Stampa E-mail

Il terrore rosso in Russia. Intervista con Paolo Sensini

a cura di Francesco Algisi

 

melgunov_terrore  Paolo Sensini, filosofo, saggista e studioso di storia, ha dedicato diversi suoi lavori a una ricostruzione dei più importanti eventi del secolo che si è appena concluso. Autore del saggio Il “dissenso” nella sinistra extraparlamentare italiana dal 1968 al 1977 (Rubbettino, 2010), ha curato l’edizione delle principali opere di Bruno Rizzi, Ante Ciliga, del filosofo Josef Dietzgen, oltre alla prima edizione italiana del volume di Sergej Mel’gunov, Il terrore rosso in Russia. 1918-1923 (Jaca Book, 312, Euro 29,00).

  Dottor Sensini, perché in Italia Il terrore rosso in Russia di Mel'gunov non ha mai trovato prima d’ora un editore disposto a pubblicarlo?

  Perché quest’opera fa luce su un periodo che è stato volutamente celato alla conoscenza generale. Se teniamo conto che nel campo della storia – soprattutto delle cattedre universitarie di storia – i docenti erano per larga parte legati al Partito comunista o comunque gravitavano in quell’orbita, è ovvio che sul periodo rivoluzionario 1917-1921 bisognava stendere una cortina di silenzio. Il periodo citato rappresenta il mito fondativo del comunismo, durante il quale si è consumato – come ho cercato di spiegare – l’essenza di ciò che ha rappresentato il comunismo sovietico. Il Partito comunista d’Italia nacque nel 1921, praticamente a cose già fatte: la tragedia (il comunismo di guerra) si era già consumata. È chiaro che fare luce su quel periodo, pubblicando i testi di Mel’gunov, sarebbe stata una debacle intollerabile per il Partito comunista e per il mito che intorno a esso si era creato. Un’opera come Il terrore rosso in Russia, che rappresenta il giacimento primo per tutti coloro (Figes, Chamberlain, Carr, Pipes, Lincoln, etc.) che si sono occupati degli anni immediatamente successivi alla rivoluzione d’ottobre, è uscito in quasi tutte le lingue del mondo (almeno le più importanti), ma in Italia incredibilmente non ha mai trovato, prima d’ora, un editore. Lo stesso Solženicyn l’ha citata più volte, per esempio nell’opera Due secoli insieme.

  Il libro, però, risale al 1923 e proprio in quegli anni ebbe diverse edizioni in Francia, in Germania, etc.. Non è strano che nell’Italia di allora, dove venivano pubblicati molti testi anti-bolscevichi, sia stata ignorata un’opera come quella di Mel’gunov?

  Non dimentichiamo mai che l’Italia fascista fu il primo Paese a livello mondiale a riconoscere l’Unione Sovietica. In quegli anni, uscirono alcuni testi (penso per esempio alle edizioni Slovo,  pubblicate a Roma da socialisti rivoluzionari che avevano varie case editrici in giro per l’Europa). Durante il Fascismo vennero pubblicati diversi libri sull’Unione sovietica, ma non quelli più esplosivi: non c’era, insomma, la volontà di portare alla luce quello che aveva rappresentato lo scoppio rivoluzionario d’ottobre e le conseguenze ultime che aveva provocato. Forse una spiegazione può essere questa. Non conosciamo le traversie subite dall’opera di Mel’gunov nell’Italia di quel periodo.

  Qual è il pregio principale dell’opera di Mel’gunov?

  Quello di portare finalmente alla luce – almeno per il pubblico italiano – cosa ha realmente rappresentato in Russia il periodo 1917-1921. Come dicevo prima, la rivoluzione d’ottobre è stata costruita fondamentalmente come un grande mito, una sorta di religio. Nell’Introduzione, ho cercato di spiegare che il termine “rivoluzione”, nei primi anni, non era neppure citato. La stessa letteratura sovietica parlava di “colpo di Stato d’ottobre”. L’espressione “grande rivoluzione socialista d’ottobre” apparve dopo, alla fine degli anni Venti. Quindi, il pregio principale dell’opera di Mel’gunov consiste nell’aver svelato la prassi seguita dai bolscevichi dal punto di vista sociale ed economico in un lasso di tempo che costituisce la spina dorsale di quella che poi sarebbe diventata l’Unione sovietica. A parte la breve parentesi della NEP dei primi anni Venti, Stalin - quando ebbe finalmente le mani libere - riprese la collettivizzazione forzata e la pratica del terrore. Mel’gunov mostra l’efferatezza e la spietatezza con cui i bolscevichi incisero sul corpo vivo dell’Urss. Prima d’ora, in lingua italiana non avevamo testimonianze di questo genere. Vi era stata, nel 1998, la pubblicazione del Libro nero del comunismo, che fece grande scalpore perché si interpolava con la discesa in campo di Berlusconi e con la polemica contro gli epigoni del Pci. Quest’ultimo libro, tuttavia, non è stato scritto da autori coevi. L’opera di Mel’gunov, invece, è una testimonianza importante, perché ci è consegnata da un grande studioso: fu uno storico di gran valore, curatore delle opere di Tolstoj, che vide in prima persona, con i propri occhi, ciò che accadde. Quindi, non è una testimonianza falsata. Inoltre, essa proviene da un socialista, non da un controrivoluzionario o da un “bianco”. È una testimonianza indispensabile per chiunque voglia capire quella tragica vicenda.

  Contrariamente a ciò che è stato sempre sostenuto, Mel’gunov spiega che il terrore controrivoluzionario fu una reazione al terrore rosso…

  Questo è l’altro messaggio importantissimo dell’opera di Mel’gunov, che ho cercato di argomentare nell’Introduzione. La guerra civile e la fase del terrore rosso furono pensate e volute con molto anticipo da Lenin (e anche da Trockij). Prima del 1917, Lenin, occupandosi della Comune di Parigi e dell’esito fallimentare della stessa, scrisse chiaramente che, in quell’occasione, il terrore non era stato portato alle estreme conseguenze: un errore che i rivoluzionari russi non avrebbero dovuto ripetere. La guerra civile sarebbe stata l’esito necessario della presa del potere da parte dei bolscevichi. Questo disse Lenin prima, durante e dopo il colpo di Stato del 1917. Ciò è strettamente connesso con la concezione leninista della politica, che prevede non già la semplice sconfitta dell’avversario, ma il suo annientamento politico. Carl Schmitt spiegherà che il grande contributo di Lenin risiede nella trasformazione della politica in guerra. E questa è la logica conseguenza che i bolscevichi applicheranno alle condizioni pratiche dopo il putsch dell’ottobre 1917.

  Il terrore rosso in Russia è stato paragonato ad Arcipelago gulag

  Il primo è un’anticipazione folgorante del secondo ed è stato scritto con cinquant’anni d’anticipo. Contiene quasi tutto ciò che concerne le brutalità bolsceviche. Arcipelago gulag, invece, è una testimonianza scritta e pubblicata molti anni dopo, nel 1973, e ripercorre tutti i vari passaggi di chi ha subito il supplizio nei gulag. Non dico che si sarebbe potuto evitare Arcipelago gulag, un capolavoro anche sul piano letterario, ma in Mel’gunov c’era già tutto per chi aveva il coraggio di confrontarsi con l’odissea del colpo di Stato del 1917 in Russia.

  Alle pagg. 7 e 8 dell’Introduzione, lei spiega che l’epoca zarista fu tutt’altro che un periodo di arretratezza…

  L’idea che la Russia zarista fosse un Paese arretrato fa parte di quella narrazione mitologica cui alludevo poc’anzi. Si narra che la rivoluzione d’ottobre favorì la grande rinascita della Russia, parlando naturalmente della fase precedente come di un periodo caratterizzato dall’oscurantismo assoluto. È totalmente falso dal punto di vista storico, sociologico, ed economico. Sul piano economico, ho fornito molti dati nella mia Introduzione. Sotto il profilo sociale e culturale la Russia non era assolutamente quella “morta gora” dipinta dai bolscevichi e dai loro sostenitori in Europa. Un dato molto significativo è quello relativo ai morti delle persecuzioni zariste: dal 1825 al 1917 (le statistiche sono precise in questo senso) si ebbero 6231 oppositori politici uccisi dal potere zarista. Di questi, buona parte (2835 per l’esattezza) si concentra dopo la rivoluzione del 1905. Quanto ai bolscevichi, il bilancio delle vittime dal 1918 al 1921 ammonta grosso modo a 15 milioni di morti, di cui 5 milioni nella grande carestia e 10 milioni nella guerra civile. In questo periodo, 1 milione e 700mila persone furono direttamente assassinate dalla spada fiammante bolscevica. Non cito questi dati per rifare la verginità allo zarismo. Però, se vogliamo fare storia, dobbiamo riferire esattamente i fatti per come si sono svolti. Mel’gunov, per esempio, non nutriva alcuna nostalgia per lo zarismo. Egli, infatti, si impegnò ed ebbe delle grosse responsabilità nel governo provvisorio proprio perché credeva nella rivoluzione e pensava che lo zarismo fosse una fase storicamente superata. Per esempio, vide nell’assemblea costituente l’approdo ultimo di tutto quello che i moti democratici in Russia avevano cercato di perseguire: dare finalmente una rappresentanza democratica al Paese (e i bolscevichi erano assolutamente concordi). Poi, quando si arrivò alla prova decisiva, i bolscevichi si scoprirono minoranza nel paese (24 per cento): a quel punto (6 gennaio 1918), chiusero l’assemblea costituente e non ne parlarono più. Era la fine della dialettica politica, un momento chiave per far scoppiare la guerra civile. Chiudendo un ambito di rappresentanza, di discussione e di confronto tra le varie componenti socialiste (in quel periodo, ve n’erano tantissime in Russia), la parola, per così dire, passò alle armi. Poi, la pace di Brest-Litovsk con i tedeschi (con la conseguente polarizzazione interna al Paese) e lo sterminio della famiglia zarista sancirono lo scoppio della guerra civile. Ciò era proprio l’approdo ultimo auspicato da Lenin e dal gruppo dirigente bolscevico.

  Nella nota 50 di pag.12, lei riferisce che Lenin era solito "sputare sul crocifisso e calpestarlo". Qual era l’origine dell’odio anticristiano del Capo bolscevico, testimoniato anche dagli 800.000 fra sacerdoti, monaci e suore assassinati nel giugno 1922 (cfr. pag.34)?

  Questo atteggiamento, questa posizione, è connaturata alla storia di certo materialismo. Quando si dice che la religione è l’oppio del popolo, s’intende che essa va scongiurata in ogni modo. Quindi, qualsiasi residuo di religiosità – e il popolo russo era molto religioso, in particolare i contadini che costituivano il 90 per cento della popolazione – doveva essere completamente eliminato dalla faccia della Russia. L’avversione così forte di Lenin e dei bolscevichi in genere contro la religione era in parte dovuta a questo. Essi volevano estirpare la religione cristiana ortodossa sostituendola con una nuova “religione”, il marxismo-leninismo. Per certi versi, il comunismo sovietico divenne una religione: i dirigenti dell’Urss compulsavano i “testi sacri” della tradizione marxista-leninista allo stesso modo in cui si compulsa un testo religioso. Non si trattava di capire il materialismo o di comprendere perché la storia avesse avuto quella sequenza particolare o perché la società si fosse costituita in un certo modo. Bisognava avere fede nel marxismo-leninismo e sopprimere la religione del popolo russo. Lenin, da questo punto di vista, fu coerente con questa visione e la applicò fino in fondo. Nel libro di Mel’gunov, sono state riportate alcune foto che mostrano assai significativamente quale fu l’atteggiamento bolscevico nei confronti delle chiese: vennero quasi tutte distrutte. La chiesa di Cristo Salvatore – una delle più grandi cattedrali di Mosca – venne rasa al suolo da Kaganovič, il numero due di Stalin, per lasciare spazio a nuovi edifici della mitologia sovietica. L’architettura ebbe un ruolo importante nell’edificazione della nuova religione marxista-leninista.

  Spesso i crimini del bolscevismo sono stati attribuiti - per esempio da Maksim Gorkij - alla "eccezionale crudeltà del popolo russo".

  È un’opinione assolutamente priva di fondamento. Un’esplosione di questo genere si ebbe solo in quegli anni. Nulla prima avrebbe lasciato intendere che la popolazione russa fosse incline a una violenza come quella esercitata dai bolscevichi nei confronti del popolo russo. Parliamo di un gruppo inizialmente assai esiguo, che poi, dopo la conquista del potere, riuscì a creare quel magnete che sempre, in tutti i luoghi, ha richiamato e attirato a sé tutti i reietti della società. La parte peggiore della Russia si unì ai bolscevichi perché con essi poteva fare carriera e avrebbe avuto la possibilità di ritagliarsi un ruolo sociale impensabile in un contesto diverso. Quando si verificano grandi sconvolgimenti all’interno delle realtà, seduzioni di tale fatta divengono il miraggio e lo scopo di molti. Il popolo russo è stato martirizzato da quel ristretto gruppo originario che poi è cresciuto sempre di più per le ragioni citate. La popolazione della Russia subì delle conseguenze incredibili e spaventose: quando nel 1920-21 vi fu la prima grande carestia (in seguito, tra l’inverno del 1932 e la primavera del 1933, ve ne fu un’altra, gravissima, gestita interamente da Stalin, Kaganovič, Molotov, Jagoda, nella quale perirono tra i 7 e i 10 milioni di persone), le vittime furono cinque milioni: non avendo più niente da mangiare, molti si abbandonarono al cannibalismo. Questa è la realtà di cui non si è mai parlato. Si parla sempre di alcune catastrofi novecentesche, terribili, mentre si tace, purtroppo, di quelle avvenute in Russia contro il popolo russo. La storiografia è molto carente da questo punto di vista. Prima o poi, si dovrà incominciare ad analizzare bene quel periodo storico fondamentale; altrimenti non si potrà capire il Novecento.

  Sembra quasi che i bolscevichi fossero animati da un vero e proprio odio verso il popolo russo…

  Erano profondamente convinti di essere depositari di una verità assoluta: il materialismo storico interpretato da Lenin alla luce dei suoi studi, delle sue ricerche, delle sue pubblicazioni assai discutibili anche sul piano filosofico (pensiamo, per esempio, a Materialismo ed empiriocriticismo). Fu una concezione molto particolare quella del marxismo sovietico-russo rispetto a quella occidentale. Per i bolscevichi, chi non la pensava come loro era profondamente in errore e doveva essere eliminato. Una famosa frase di Lenin diceva: “perisca il novanta per cento del popolo russo, purché il dieci per cento viva fino alla rivoluzione mondiale”. Questo dà l’idea di quale fosse la mentalità che animava i bolscevichi: era una concezione assoluta della verità, derivata dalla filosofia hegeliana, e portata alle estreme conseguenze senza alcun rispetto per la persona umana. Quando si abbatte un albero nella foresta, volano schegge dappertutto. Del resto, in gioco c’era l’edificazione del paradiso in terra.

  Alcuni storici russi - fin dagli anni Ottanta - hanno cercato di attenuare le responsabilità di Stalin nell'organizzazione del terrore, attribuendole in gran parte agli ebrei cosmopoliti e russofobi. Che ne pensa?

  Anche qui c’è un equivoco. Gli ebrei hanno avuto un ruolo importantissimo nella rivoluzione d’ottobre (per quello che la stessa ha rappresentato e all’interno di tutte le componenti socialiste russe). Altissimo era il numero degli ebrei tra i menscevichi, i socialisti rivoluzionari e gli stessi bolscevichi. Lenin e Trockij, per esempio, erano ebrei, oltre a Sverdlov, Zinov’ev, Kamenev, Kaganovič, Radek, Volodarskij, Litvinonv, Larin, etc. Su Stalin il discorso è molto complicato. Egli ancora oggi, dai sondaggi che vengono fatti periodicamente in Russia, risulta essere il personaggio più popolare e più rimpianto della storia russa. È un fatto incredibile e paradossale: Stalin viene visto come l’artefice della vittoria della Grande guerra patriottica contro la Germania. Quindi, nonostante i crimini (le purghe, le grandi violenze, il terrore di massa) emersi fin dal XX congresso del 1956, rimane ancora oggi il personaggio più noto e amato dai russi. Sul fatto che egli abbia scatenato il terrore, tuttavia, non vi sono dubbi in sede storiografica. Però i giudizi storici cambiano sul corpo vivo delle popolazioni, per quello che pensa la gente. Se Stalin rimane, comunque e nonostante tutto, una figura apprezzata, diverso è invece il giudizio su Lenin, che non gode di alcuna popolarità: questi non è un personaggio storico per il quale vi sia rimpianto, nostalgia o un tentativo di rivalutazione. La Russia di oggi, comunque, è un Paese che pubblica moltissimo e registra un grande fermento di studi e ricerche. Vi si pubblica molto più che in Europa o nelle lingue occidentali. Lo stesso Mel’gunov è, in Russia, un autore molto letto, apprezzato e rivalutato (con pubblicazioni di grande prestigio). Poi, non dimentichiamo che Mel’gunov non scrisse soltanto Il terrore rosso in Russia, ma moltissimi altri libri. Egli fu – come dicevo – uno storico di grande vaglia in Russia prima della rivoluzione d’ottobre e, in quanto tale, fu apprezzato. Fondò nel 1911, insieme con altri suoi compagni, le edizioni Zadruga, le quali pubblicarono 500 testi (con tirature di milioni di copie), rappresentando un veicolo di alfabetizzazione e di istruzione di fette importanti della popolazione russa. Mel’gunov, insomma, costituisce una pietra miliare per capire ciò che ha subito la Russia a partire dal colpo di Stato dell’ottobre 1917.

 

21 novembre 2010

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