Cinque anni che paiono secoli. Intervista con Leonardo Rapone Stampa E-mail

Cinque anni che paiono secoli. Intervista con Leonardo Rapone

a cura di Francesco Algisi

 

rapone_cinque  Leonardo Rapone è professore di Storia dell’Europa contemporanea all’Università della Tuscia. Studioso dell’antifascismo e delle sinistre europee, è autore di numerosi volumi, tra cui ricordiamo: Trotskij e il fascismo (Laterza, 1978); Da Turati a Nenni: il socialismo negli anni del fascismo (Franco Angeli, 1992); La socialdemocrazia europea tra le due guerre: dall'organizzazione della pace alla Resistenza al fascismo, 1923-1936 (Carocci, 1999); Storia dell’integrazione europea (Carocci, 2002) e il recente Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo (1914-1919) (Carocci, 2011). Sul contenuto di quest’ultimo saggio abbiamo rivolto all’Autore alcune domande. 

  Prof. Rapone, come si spiega l’interesse del giovane Gramsci per il futurismo (cfr. pag. 46)?

  L’interesse di Gramsci per il futurismo va ricondotto a due caratteristiche di fondo del suo habitus intellettuale del periodo giovanile. Da un lato la sua apertura ai fermenti innovativi che si muovevano sulla scena culturale italiana del primo quindicennio del Novecento e che andavano  nella direzione di uno sgretolamento del blocco positivista ereditato dall’ultimo Ottocento. Da un altro lato la sua simpatia per le correnti che nel campo artistico, dalla pittura alla musica e alla letteratura, rovesciavano la concezione dell’arte come rispecchiamento della realtà. Dei gusti estetici di Gramsci sappiamo poco, ma quel che trapela dai suoi articoli, nelle rare occasioni in cui l’argomento è sfiorato, si accorda con l’immagine, che è tipica del suo pensiero, di un’intelligenza tesa alla scomposizione e al rimodellamento del reale.

  Quale influenza esercitò Henri Bergson sulla “maturazione intellettuale” (cfr. pag. 49) di Gramsci?

  Anche l’interesse per Bergson va inquadrato sullo sfondo di quell’orientamento generale a valorizzare le potenzialità creative della soggettività umana. In più da Bergson Gramsci riprende il nesso concettuale tra ordine e disordine: ordine e disordine non si contrappongono come realtà univoche ed assolute; il disordine che viene imputato ai rivoluzionari non è altro che aspirazione all’edificazione di un ordine opposto a quello vigente nella società capitalistica. Se si pensa al posto che nel sistema di pensiero di Gramsci ha il tema dell’ordine – e dell’ordine nuovo – tocchiamo qui una fonte che per Gramsci è stata ricca di suggestioni.

  Gramsci nutrì interesse anche per il pensiero di Georges Sorel…

  Fra i teorici dell’azione di classe del proletariato Sorel è quello che esercita l’influenza maggiore su Gramsci prima che egli incontri Lenin e il bolscevismo. Il principio cardine del socialismo di Gramsci – l’intransigenza – richiama lo spirito di scissione che anima l’azione pedagogica di Sorel nei riguardi delle organizzazioni operaie. Lo stesso si può dire per la critica della democrazia, da entrambi presentata come innaturale tentativo di contaminazione e di mescolanza tra opposti interessi e valori di classe. Ancora più importanti sono l’insistenza sui compiti ricostruttivi che l’azione operaia deve assolvere già nel corso della lotta anticapitalistica, così da creare una saldatura tra realizzazioni nel presente e società futura, e l’avversione per il giacobinismo, inteso come la quintessenza della coercizione politica ad opera e nell’interesse di una minoranza.  Però tra Gramsci e Sorel passa una distinzione fondamentale, che non permette di considerare Gramsci un soreliano. Gramsci infatti respinge di Sorel la separazione e la contrapposizione tra economico e politico; non ammette che la politica si identifichi di per sé con un rapporto di dominio tra una minoranza dirigente e una maggioranza soggiogata. Il protagonismo diretto dei lavoratori, che per Sorel può esplicarsi solo sul piano dell’azione economico-sindacale, per Gramsci deve operare dentro la sfera politica e diventare il fulcro di una nuova direzione politica della società.

  Lei scrive che originariamente il socialismo di Gramsci è “intessuto di motivazioni teoriche da cui davvero non emerge una particolare e distintiva presenza di Marx” (pag. 49). Come può essere definita tale visione del socialismo?

  Lo possiamo definire, usando le sue parole, come un socialismo che fa perno sulla «volontà tenace dell’uomo», rompendo con il materialismo oggettivistico di stampo positivista. È un socialismo che esalta la funzione dell’uomo come costruttore di storia.

  Che rapporto sussiste tra il primo socialismo di Gramsci e l’attualismo gentiliano?

  Nella riscossa neoidealistica Gramsci scorge un potente impulso alla riabilitazione della funzione trasformatrice del soggetto, in contrapposizione tanto al trascendentismo e al provvidenzialismo cattolico quanto all’evoluzionismo e al naturalismo positivistico. In particolare il sistema di Gentile gli pare il punto più avanzato di sviluppo dell’idealismo “germanico” di ascendenza hegeliana. Gramsci è attirato dall’inflessibile determinazione antinaturalistica che ispira la concezione gentiliana dell’attività umana come produttrice di realtà. Gramsci però, come non è un soreliano, così non è gentiliano (e nemmeno crociano o einaudiano e così via): egli assorbe e rielabora in una sintesi originale una molteplicità di motivi tratti dalla cultura del suo tempo, consoni all’ispirazione di fondo del suo socialismo.

  Quando va situato il distacco di Gramsci da Gentile?

  Innanzitutto direi che c’è un distacco dal neoidealismo, a partire al momento in cui Gramsci si persuade che il marxismo è già in sé, senza bisogno di prestiti esterni, una filosofia contenente il principio della funzione determinante del soggetto. È il marxismo di Lenin e dei bolscevichi, i quali si propongono di spingere la rivoluzione verso la meta ultima del socialismo in spregio alla concezione meccanicistica della concatenazione delle fasi storiche, che guida Gramsci alla scoperta di virtualità intrinseche del pensiero di Marx fino ad allora non percepite: il marxismo, fondandosi sulle acquisizioni vitali dell’idealismo, sta fuori del cono d’ombra del materialismo metafisico. Non c’è quindi un distacco specifico e particolare da Gentile. Semmai è da notare che nella fase matura del suo pensiero, rappresentata dall’elaborazione in carcere, Gramsci riconoscerà il suo debito giovanile verso il neoidealismo, limitandolo però al solo Croce, senza fare più cenno all’ammirazione che aveva provato anche per Gentile.

  Condivide la tesi di chi (per esempio G. Bergami, che lei cita nella nota 28 di pag.266) proietta “l’influenza di Gentile anche sul Gramsci maturo”?

  Bergami non fa che muoversi sul solco della ben più elaborata e sistematica interpretazione di Augusto Del Noce, che ha dato la stura a una vera e propria controversia interpretativa sullo statuto teorico interno della gramsciana filosofia della prassi, quale si esprime attraverso le pagine dei Quaderni del carcere. Mi pare che su questo punto, confutando le tesi di Del Noce, Gennaro Sasso abbia mostrato in modo convincente come il pensiero di Gramsci in carcere si muova entro l’orizzonte problematico del marxismo e non sia apparentabile ad altri sistemi teorici.

  Nel libro, lei accenna (pag.66) alla censura gramsciana verso la “pratica popolare della bestemmia”…

  Gramsci disprezza l’anticlericalismo di maniera, diffuso nelle file socialiste e della democrazia laico-radicale del primo Novecento; ritiene infatti sbagliato banalizzare la religione come fenomeno di superstizione. La religione nasce da un bisogno dell’animo umano, a cui il socialismo deve opporre una diversa forma di appagamento delle esigenze spirituali dell’individuo. Per lui il socialismo è la religione dei tempi moderni. A proposito della bestemmia esprime l’opinione che l’offesa alla divinità sia un modo di ammetterne inconsapevolmente la maestà.

  Come interpreta “l’abituale riferimento negativo al giacobinismo” (pag.376) da parte di Gramsci?

  Gramsci, come detto, muove da una concezione inizialmente critica verso il giacobinismo, che giudica un fenomeno tipicamente borghese, in quanto forma di esercizio autoritario del potere da parte di una minoranza che sente di doversi imporre con la forza alla maggioranza del corpo sociale. Quando inizialmente prevede che la rivoluzione russa non seguirà lo schema giacobino, intende dire che il socialismo, rispondendo agli interessi della maggioranza della popolazione, non avrà bisogno di sottoporre la società a un regime di coercizione e di terrore. A partire dalla metà del 1918 comincia tuttavia a raffigurarsi le cose in modo diverso, fino ad abbracciare la concezione della dittatura del proletariato come garanzia che la rivoluzione possa spingersi sino alle sue mete più lontane e alla realizzazione dei suoi fini ultimi. Da quel momento il problema dell’esercizio del potere e della costruzione di una macchina statale nuova (uno Stato in cui si esprima il principio di autorità, ma anche quello di partecipazione delle masse attraverso i consigli) acquista una posizione centrale tra le sue preoccupazioni, politiche e teoriche. In questo quadro matura anche un diverso apprezzamento del giacobinismo, che porterà Gramsci, sulla scorta dell’interpretazione di Albert Mathiez, a raffigurare il comunismo come erede della tradizione giacobina.

  Il giovane Gramsci subì l’influsso anche di Vilfredo Pareto (cfr. pag.78 nota 21)?

  Lo escludo. Tutta la sua concezione della politica ha una marcata impronta anti elitista; anzi si può dire che il pensiero di Gramsci sulla politica, e in modo particolare sul partito politico, si definisca, già dagli anni giovanili, in implicita polemica con quanti, da Michels a Mosca e a Pareto, presentano la contrapposizione tra dirigenti e diretti, tra élite e masse, come una caratteristica congenita della dimensione politica. Gramsci intende creare le condizioni per una politica in cui tra l’aspetto della direzione e quello della partecipazione consapevole si crei un circuito virtuoso anziché un rapporto di reciproca esclusione.

 

17 luglio 2012

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