Italiani e Forze armate. Intervista con Carlo Jean Stampa E-mail

Italiani e Forze armate. Intervista con Carlo Jean

a cura di Francesco Algisi

 

jean_italiani  Carlo Jean, Generale di Corpo d’Armata, è stato Capo dell’Ufficio Pianificazione Finanziaria e Bilancio dello Stato Maggiore dell’Esercito e Capo del IV Reparto dello Stato Maggiore della Difesa. È membro del Consiglio Scientifico della Treccani, del Comitato Scientifico della Confindustria e del Comitato Scientifico della Fondazione Italia-Usa. Collabora con la rivista di geopolitica Limes in qualità di membro del Consiglio scientifico della stessa. Docente di Studi strategici alla LUISS di Roma e di Geopolitica al Link Campus-Università di Malta, è autore e curatore di numerosi libri e saggi tra cui ricordiamo: Manuale di studi strategici (Franco Angeli, 2004), Manuale di geopolitica (Laterza, 2007), Militaria. Tecnologie e strategie (Franco Angeli, 2009), Italiani e Forze armate (Franco Angeli, 2010).

  Generale Jean, c’era maggiore cultura nell’alta ufficialità della monarchia o in quella di oggi?

  Sicuramente nell’alta ufficialità della monarchia, in quanto il corpo degli ufficiali faceva parte dell’élite, anche politica, del Regno di Sardegna prima e dell’Italia liberale poi. Infatti, parecchi militari avevano rivestito la carica di presidente del Consiglio e di ministro. Lo stesso conte di Cavour, per esempio, aveva frequentato la Scuola dei Cadetti.

  Recentemente, in occasione dell’uscita del libro di Giovanni d’Angelo La strana morte del Tenente Generale Alberto Pollio (Edizioni Gino Rossato, 2009), si è tornato a parlare di colui che fu Capo di Stato maggiore dell’esercito alla vigilia dello scoppio della Grande guerra…

  Pollio fu senza dubbio un ottimo tecnico e un buon organizzatore. Era molto filo-tedesco e aveva aderito pienamente alla politica italiana tendente alla partecipazione alla Triplice alleanza.

  Egli, però, non partecipò mai a una battaglia, tanto è vero che diresse la campagna di Libia senza muoversi da Roma…

  La guerra di Libia impegnava una parte limitata dell’esercito italiano. Il Regio esercito, in quel periodo, si stava preparando per una guerra in Europa. Quindi, Pollio, come Capo di Stato maggiore e comandante dell’esercito, era rimasto in patria per preparare le forze.

  L’articolo 11 della Costituzione risale al 1948, a tre anni quindi dalla fine della Seconda guerra mondiale, che aveva provocato una catastrofe a livello europeo con decine di milioni di morti. Oggi, a distanza di sessant’anni, ha un senso mantenere quell’articolo che serve solo ai cosiddetti “pacifisti” per bloccare la partecipazione dell’Italia a iniziative di pace in ambito internazionale?

  Esaminando la discussione del “gruppo dei 75” (il gruppo dei costituenti), si nota come l’articolo 11 debba essere letto nella sua integrità: non solamente, quindi, l’Italia ripudia la guerra, ma ripudia la guerra offensiva, cioè il tipo di guerra connesso con il concetto di Stato-potenza, che aveva dominato nella seconda parte del XIX e nella prima parte del XX secolo. I costituenti, tuttavia,  fecero bene attenzione al fatto di rendere possibile la partecipazione dell’Italia all’Onu, che nel capitolo VII prevede esplicitamente l’impiego della forza militare per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.

  Nella Costituzione italiana,  si nota una maggiore radicalità in termini di ripudio della guerra rispetto alle Costituzioni, per esempio, della Germania e del Giappone..

  Ripudio della guerra offensiva: è una cosa differente. Le altre Costituzioni, in origine, erano addirittura più pacifiste della nostra. Nel corso degli anni, sono state modificate: la sentenza della Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe ha dato un’interpretazione più estensiva per permettere la partecipazione della Germania al Consiglio di sicurezza dell’Onu (l’obiettivo tedesco era quello di divenire membro permanente del Consiglio di sicurezza); quella del Giappone ha istituito il Ministero della difesa al posto dell’Ispettorato delle forze di autodifesa.

  A più di vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine del Patto di Varsavia, come si spiega la sussistenza della Nato?

  Dal momento che l’Europa non esiste da un punto di vista politico e strategico, gli Stati europei hanno bisogno dell’alleanza degli Stati Uniti. Gli Usa sono i veri integratori dell’Europa. L’intervento di Obama nella recente crisi finanziaria (con le telefonate a Zapatero e alla Merkel soprattutto) è indicativo dell’importanza degli Stati Uniti nel favorire le tendenze integrative europee. Senza gli Stati Uniti molto verosimilmente l’Europa avrebbe un livello di integrazione assai inferiore. Di conseguenza, mentre l’Europa ha diminuito la sua importanza per gli Stati Uniti, gli Usa hanno mantenuto sempre un’importanza fondamentale per gli Stati europei. E questo spiega, quindi, il fatto che gli Stati europei ribadiscono la piena validità del Trattato di Washington, cioè il Trattato del Nord-Atlantico.

  Ma non sarebbe auspicabile la nascita di un esercito europeo e quindi di un’Europa unita non più solo dal punto di vista economico e monetario, ma anche da quello politico e militare?

  Sarebbe auspicabile. Una cosa però è l’auspicio, un’altra è la realtà. Nella realtà, la politica estera, la politica strategica e quella della sicurezza sono parti fondamentali della sovranità che nessuno Stato europeo è disponibile a cedere. La PESC [Politica Estera e di Sicurezza Comune, ndr] e la PESD [Politica Europea di Sicurezza e Difesa, ndr] non sono comunitarie: si collocano in un livello intergovernativo. Nessuno Stato accetterebbe mai da un organismo europeo disposizioni per l’impiego delle proprie forze armate, ma di volta in volta decide a seconda degli interessi nazionali e sulla base della propria valutazione della situazione.

  Quindi, l’Europa armata è un obiettivo auspicabile, ma di difficile realizzazione…

  Sì. Sarà possibile quando ci saranno gli Stati Uniti d’Europa. Mi sembra, tuttavia, che in questo momento il livello di integrazione europeo, anziché proseguire, abbia subìto una battuta d’arresto. Lo si è visto nel caso dei ritardi nell’intervento dell’Ue a favore della Grecia. Nell’ultima riunione dell’Ecofin, la Germania e la Francia hanno sostenuto due visioni differenti riguardo alla semplice intesa dell’Eurozona, del significato dell’euro e della politica da seguire, del patto di stabilità e di crescita.

  Come giudica la sospensione della leva obbligatoria in Italia?

  La leva obbligatoria ormai non era più sostenibile per il semplice fatto che non c’erano (e non ci sono) minacce ai confini. Nel medio-lungo termine, non sussistono probabilità di un attacco terrestre in Italia tali da giustificare la presenza di un esercito di leva. Va poi considerato anche un altro fattore contingente: ormai la massa della borghesia non prestava più il servizio militare, ma ricorreva alla via – molto più comoda – dell’obiezione di coscienza.

  La leva obbligatoria poteva essere uno strumento utile per favorire la crescita del patriottismo tra i giovani?

  La coscrizione obbligatoria era soprattutto una delle istituzioni trasversali della società italiana:  quindi, contribuiva senza dubbio al rafforzamento del senso di identità e di unità del Paese. Però bisogna considerare che l’impiego delle Forze armate all’estero negli attuali interventi di stabilizzazione e di pace coinvolge delle aliquote sostanzialmente limitate di soldati (circa ottomila uomini, insomma). Oggi, i soldati di lunga ferma (o anche di breve ferma) possono essere addestrati e ripetono diverse volte le missioni: ciò consente d’avere una qualità maggiore di quella che si poteva raggiungere con un esercito di leva, che chiamava alle armi duecentomila persone con costi elevatissimi e un addestramento alquanto rudimentale. Però, non si deve sottovalutare un altro aspetto della questione: con l’esercito di volontari, le Forze armate si sono, per così dire, meridionalizzate, perché la massa dei giovani (anche fra le truppe alpine) proviene dal Sud. Ciò, da un certo punto di vista, contribuisce all’assorbimento della disoccupazione dei giovani del Sud; ma, da un altro punto di vista, provoca sicuramente una divisione all’interno del Paese. Comunque, la massa della popolazione italiana è decisamente favorevole a questa soluzione e ritiene che l’esercito sia espressione dell’identità e degli interessi nazionali. Questo spiega il livello di consenso così elevato di cui godono le nostre Forze armate, superiore a quello della media dei Paesi europei.

  A differenza però di quanto avviene negli altri Paesi, quando viene ucciso un soldato italiano in missione all’estero (per esempio in Afghanistan), ci stracciamo le vesti…

  Ciò avviene perché gli organi di informazione enfatizzano la questione: drammatizzando e sottolineando gli aspetti peggiori e tragici delle vicende, automaticamente accrescono l’interesse dell’opinione pubblica, le tirature dei giornali e gli ascolti dei mezzi televisivi.

  Quindi, secondo lei, la popolazione è disposta ad ammettere che in un teatro di guerra ci possono essere anche dei morti…

  Bisogna fare una distinzione tra la massa della popolazione e le classi dirigenti. Le classi dirigenti italiane, che sono sostanzialmente a-militari, non si sono ancora liberate del retaggio della Guerra fredda. In quegli anni, infatti, per non aumentare le divisioni del Paese, i governanti italiani, pur fedeli all’Alleanza atlantica e al suo ideale europeo, non ponevano l’accento sulle questioni militari,  perché una massa considerevole di persone era contraria. Il 30-40 per cento dei giovani (quindi anche dei coscritti) era iscritta alla Fgci [Federazione Giovanile Comunista Italiana, ndr]. Quando  costoro venivano arruolati nelle Forze armate, si assisteva a una situazione un po’ paradossale: un esercito con una forte componente comunista faceva parte di un’alleanza anticomunista. Allora, per mantenere l’unità delle Forze armate, si sono creati intorno all’esercito degli steccati, che vediamo ancora oggi nei pressi delle caserme (vigilanza armata, segnali di “attenzione”, ecc.): tutte cose che non si verificano, per esempio, in Germania, dove le basi militari e le caserme sono circondate, tutt’al più, da semplice filo spinato.

  È ancora opportuno che le truppe italiane rimangano in Afghanistan?

  L’Italia opera nell’ambito della Nato, un’alleanza per noi assolutamente essenziale in quanto, differentemente da altri Paesi europei, la situazione del Mediterraneo è tutt’altro che tranquilla: possono succedere degli incidenti o delle minacce possono provenire dai Balcani. Se noi ci ritirassimo dall’Afghanistan, perderemmo il peso nelle decisioni della Nato. Quindi, il ruolo internazionale del nostro Paese diminuirebbe. In secondo luogo, il nostro Paese partecipa a uno sforzo collettivo anti-terroristico, che cerca di portare l’attacco al terrorismo al di fuori dei territori nazionali (europeo e americano) in modo tale da evitare attacchi: sottoposti a un’intensa pressione, i terroristi sono costretti a concentrare la loro attenzione sulla sopravvivenza anziché sulla preparazione degli attentati.

  Come vede la situazione del teatro di guerra afghano?

  La strategia di Obama, McChrystal e Petraeus applicata all’Afghanistan è ancora all’inizio. Sicuramente è un po’ presto per poterne giudicare l’efficacia. L’operazione Mushtarak condotta nella regione di Helmand non ha prodotto quel grandissimo successo che ci si attendeva: per questo motivo anche l’operazione, che doveva seguirla, contro la roccaforte talebana di Kandahar ha subìto un rallentamento. La stabilizzazione dell’Afghanistan dipenderà soprattutto dagli afghani. Sicuramente l’inefficienza e la corruzione esistenti a Kabul non favoriscono questa condizione che è assolutamente indispensabile per poter pensare a un’exit strategy dall’Afghanistan.

  I morti tra le truppe della Nato, comunque, aumentano giorno dopo giorno…

  In passato, venivano effettuate solo operazioni con forze speciali oppure con aerei senza pilota; attualmente, invece, i soldati cercano di controllare il territorio e, di conseguenza, effettuano operazioni frammischiati con la popolazione e quindi a contatto diretto con i talebani. Questo spiega l’aumento delle perdite degli ultimi tempi.

  Com’è possibile che, dopo nove anni di occupazione di quel territorio da parte della Nato, i talebani siano ancora così forti militarmente?

  Le armi in Afghanistan non sono mai mancate, fin dai tempi della resistenza anti-sovietica (e anche  prima). I talebani, inoltre, godono di supporto internazionale da parte, in particolare, di taluni Stati arabi sunniti radicali, grazie ai quali – e ai proventi del traffico di droga – sono in grado di acquisire armi.

  È possibile pensare a un futuro senza le basi americane in Italia?

  Il nostro bilancio della difesa è molto ridotto e la presenza delle basi è un prezzo che paghiamo all’alleanza. Comunque, poiché le basi sono dislocate sul nostro territorio, abbiamo un droit de regard: possiamo da dire la nostra sull’impiego delle forze americane.

  Le basi godono però dell’extraterritorialità…

  Non è vero. Per esempio, la vicenda di Sigonella dimostra che la sovranità italiana è completa. Il comandante è italiano sia a Sigonella sia ad Aviano (e nelle altre basi).

  Come mai i piloti responsabili della strage del Cermis sono stati giudicati da un tribunale americano?

  Anche l’indagine sull’incidente di Rammstein dell’agosto 1988, che provocò decine di morti e vide coinvolta la nostra pattuglia acrobatica, venne condotta dalla magistratura italiana. Gli accordi di Londra sullo Status of forces agreement prevedono che la responsabilità giuridica non ricada sul Paese ospitante, bensì sul Paese che fornisce le truppe. Questo riguarda tutti i membri della Nato: vale per noi come per gli altri. È una cessione di sovranità, però ai sensi degli articoli 10 e 11 della Costituzione: è del tutto lecita, poiché ciò avviene anche da parte degli altri. È una condizione di parità, insomma.

  Quindi, secondo lei, è un sacrificio necessario…

  Sì. È un sacrificio necessario che però si traduce in un vantaggio anche per la sicurezza generale italiana.

  Mussolini ripeteva che “se un popolo non è disposto a portare le proprie armi, finirà per portare quelle degli altri”…

  Questa è saggezza storica. Plutarco diceva la stessa cosa. Nessuno Stato può rinunciare alla difesa delle proprie istituzioni, del proprio territorio, della propria popolazione. È uno dei compiti e degli aspetti fondamentali del contratto politico tra lo Stato e i cittadini.

 

19 giugno 2010

Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA